«Lo spiegai a D’Alema: Mani Pulite colpiva tutti Nel Pds mi isolarono» (corriere.it)

di Francesco Verderami

Pellegrino: l’obiettivo era il primato del 
potere giudiziario

«Il principio che ispirò Mani Pulite e che si basava sul primato del potere giudiziario, era in contrasto con il disegno costituzionale». Nei giorni in cui la Prima Repubblica cadde, Giovanni Pellegrino vide cose che nel Palazzo non si erano mai viste. E ora dice cose che non si erano mai sentite. Almeno da parte di un (ex) parlamentare del Pci-Pds, che si trovò a presiedere la Giunta per le immunità del Senato quando nel 1992 scoppiò Tangentopoli. Da lì passarono molte richieste di autorizzazione a procedere del pool di Milano contro i potenti della politica. È lì che sfilarono molti imputati eccellenti.

Nativo di Lecce, avvocato per professione e vocazione, Pellegrino fu uno dei pochi garantisti a sinistra. Di quel periodo convulso ricorda ogni dettaglio, «ricordo per esempio Severino Citaristi, il segretario amministrativo della Dc. Appena in qualche parte d’Italia veniva aggiudicato un appalto, lui vi planava come un condor, pretendendo dalla cordata vincente la fetta maggiore della tangente. Che spettava alla forza di maggioranza relativa. Severino era una bravissima persona, ritenuto di gran lunga il più onesto nella stessa Dc. Che non a caso l’aveva scelto come tesoriere, sapendo che non si sarebbe appropriato di una lira e che avrebbe diviso i soldi tra le correnti diccì. Secondo il manuale Cencelli».

Da Milano arrivavano richieste di autorizzazione a procedere a ripetizione.

«E ogni volta che lo convocavo, Citaristi si presentava con un fogliettino. “Le imputano di aver ricevuto tanti milioni di lire dall’industriale tal dei tali”, gli dicevo. E lui rispondeva: “Sì, è vero”. Oppure: “No, ne ho presi di più”. O ancora: “No, da questo signore non ho ricevuto nulla”. E si capiva che qualche imprenditore aveva detto agli altri soci di aver pagato a Citaristi la tangente, che invece aveva tenuto per sé. La verità è che tutti i partiti godevano di finanziamenti irregolari».

Proprio tutti?

«Anche il Movimento sociale italiano. Ne parlò in commissione Stragi il senatore Alfredo Mantica, un sanbabilino colto che raccontò quando — durante un congresso missino — si avvicinò al leader della sua corrente: “Siamo una forza rivoluzionaria”, gli disse. E l’altro, indicando la platea: “Li vedi questi? Metà sono sul libro paga del ministero dell’Interno, metà su quello delle Forze armate”. Per aver riferito il pensiero di Mantica, Gianfranco Fini voleva querelarmi. Poi evitò perché la frase di Mantica era stata verbalizzata».

E il Pci-Pds?

«Apparentemente il mio partito non prendeva soldi. Però nella cordata vincitrice di ogni appalto c’era sempre una cooperativa rossa con una percentuale dei lavori. Dal 10 al 15%. Rivedo ancora i nostri bellissimi congressi dove campeggiavano i cartelloni pubblicitari delle cooperative. Era chiaro il meccanismo di contabilizzazione dei finanziamenti irregolari. Ed era altrettanto chiaro che anche noi facevamo parte del sistema: una sorta di Costituzione materiale del Paese. Vista la situazione, due senatori, Giangiacomo Migone e se non ricordo male Filippo Cavazzuti, mi chiesero di accompagnarli ad un incontro con Achille Occhetto a Botteghe Oscure».

Cosa accadde?

«Accadde che Migone disse al segretario: “È necessario che il partito riconosca di aver ricevuto soldi irregolarmente”. Il baffo di Occhetto si elettrizzò: “Io non so nulla. Non ho mai saputo nulla”. E in parte era vero. Il modello di finanziamento del Pci era stato ideato da Palmiro Togliatti, che aveva affidato al suo consigliere politico Eugenio Reale l’organizzazione di una rete di imprese. Il “Migliore” voleva che la dirigenza restasse fuori dalla gestione dei fondi. Ma le imprese erano il vero polmone economico del partito, specie quelle che avevano rapporti commerciali con l’Unione Sovietica. Insomma, le forze di governo erano finanziate dalla Cia e da Confindustria, mentre il Pci era finanziato dal Kgb e dalle società che sostanzialmente gli appartenevano. E quando i finanziamenti russi cessarono, il Pci iniziò ad essere alimentato dalle cooperative che partecipavano agli appalti pubblici».

Però il partito formalmente ne rimaneva fuori.

«Eeeh… Insomma. Per gli ultimi segretari amministrativi non fu proprio così. La torsione giustizialista impressa dalla Procura di Milano aveva iniziato a preoccuparmi, perché contestava come reati di corruzione aggravata tutti i finanziamenti irregolari ai partiti che andava accertando. Avevo il timore che così anche il Pci sarebbe stato coinvolto nell’inchiesta. Perciò decisi di parlarne a Massimo D’Alema».

Quando?

«Era la primavera del 1993. Mi concesse un incontro ma dopo pochi minuti mi zittì: “Come al solito voi avvocati siete contro i pubblici ministeri. Volete capirlo che questi di Milano stanno facendo una rivoluzione? E le rivoluzioni si sono sempre fatte con le ghigliottine e i plotoni d’esecuzione. Perciò cosa vuoi che sia qualche avviso di garanzia o qualche mandato di cattura di troppo? Eppoi Luciano mi ha detto che possiamo stare tranquilli, perché Mani Pulite non se la prenderà con noi”».

Luciano ovviamente era…

«Violante, chi altri?».

E come faceva a sapere che il pool non avrebbe toccato il Pds?

La linea. Massimo faticava a seguire la linea giustizialista voluta da Violante «Violante era la voce della magistratura nel partito. Quel giorno me ne andai umiliato ma…».

Ma?

«Ma dopo la primavera arrivò l’estate. A Milano Saverio Borrelli si era preso qualche giorno di riposo, in cui si era fatto fotografare a cavallo. Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo erano volati in Brasile a spiegare ai magistrati brasiliani come si potevano mettere in galera i politici. Gherardo Colombo era in tour per l’Europa a fare conferenze. E alla Procura era rimasto solo Gerardo D’Ambrosio. Che però aveva il cuore trapiantato e per il caldo dovette andare in ospedale».

Non c’era più nessuno, quindi.

«No. C’era Titti Parenti, che i colleghi del pool avevano sempre tenuto ai margini dell’inchiesta. Non le parve vero di potersi prendere la scena. Ed ebbe l’idea di mandare al Senato una richiesta di autorizzazione a procedere contro Marcello Stefanini, ultimo tesoriere del Pci e primo del Pds: gli contestava frode tributaria, finanziamento illecito e ovviamente corruzione aggravata. Dalle carte notai che la richiesta era debolissima ed ero già deciso a rigettarla. Ma nel Pds intanto era scoppiato il putiferio».

Fecero pressioni su di lei?

«In quei giorni a Lecce si teneva la festa dell’Unità e il segretario provinciale del partito mi chiamò: “Stasera devi venire a cena con me, perché D’Alema vuole parlarti”. Quando ci sedemmo a tavola, D’Alema mi disse: “Mesi fa mi avevi fatto quel discorso complicato, fammi la cortesia di ripetermelo”. E per la prima e unica volta mi fece parlare interrottamente per venti minuti. Gli spiegai che Mani Pulite non tendeva a colpire la corruzione amministrativa ma il finanziamento irregolare della politica per svuotare di forza i partiti. Tutti i partiti. Per renderli deboli finanziariamente e politicamente. E per realizzare così il primato del potere giudiziario».

Gli aveva descritto un sistema che i nemici delle toghe definirebbero un colpo di Stato.

«Ma era stato Borrelli di fatto a teorizzarlo in un’intervista. Aveva detto che se l’Ottocento era stato il secolo dei Parlamenti e il Novecento quello degli esecutivi, non escludeva che il secolo seguente sarebbe potuto essere il secolo della giurisdizione».

E D’Alema?

«Capì che delle assicurazioni di Violante non poteva fidarsi. Mi disse: “Certi concetti non posso esprimerli io, altrimenti Occhetto mi brucia. Parlane tu ogni tanto. Ti coprirò le spalle”. Quando iniziai a fare dichiarazioni di quel tenore i senatori del Pds, quasi tutti giustizialisti, chiesero la mia espulsione. Per due volte fu il capogruppo Cesare Salvi a salvarmi, d’intesa con D’Alema. Finché contro di me si scagliarono i magistrati. Una sera il Tg3 mandò in onda un servizio con gli interventi di Borrelli, Gian Carlo Caselli e Agostino Cordova. Che disse in tv: “Gliela farò vedere io al senatore Pellegrino”. E pochi giorni dopo toccò al povero Antonio Bassolino beccarsi un avviso di garanzia per peculato: l’accusa era “uso indebito del telefonino di servizio”, che lui aveva utilizzato anche per chiamare la moglie».

Ebbe modo di riparlare con D’Alema?

«D’Alema faticava a seguire la linea giustizialista imposta da Violante, perché convinto del primato della politica e perché non aveva stima delle varie corporazioni giudiziarie. Quando divenne segretario del Pds, accompagnai a Botteghe Oscure due magistrati del Tar che iniziarono a parlargli malissimo dei loro colleghi del Consiglio di Stato. E lui commentò: “Delinquenti loro, delinquenti voi”…».

Ma il disegno che lei paventava non si realizzò.

«Perché la magistratura è un potere diffuso: ognuno fa come gli pare. Infatti la Procura di Brescia colpì Di Pietro, che aveva ambizioni politiche».

In effetti, dopo aver lasciato la toga, fu ministro del governo Prodi e poi leader di partito.

«Ma la sua ambizione era diventare presidente del Consiglio. Se penso a quegli anni mi viene da piangere. Mani Pulite non realizzò il suo disegno ma distrusse il sistema dei partiti. Avevo stima dei magistrati di Milano, Borrelli li guidava benissimo. Ma il loro principio, che si basava sul primato del potere giudiziario, era in contrasto con il disegno costituzionale».

L’unica certezza su Israele e Palestina è che l’antisemitismo è ovunque (linkiesta.it)

di

Che cosa sappiamo

In attesa di capire dove andranno a finire le accuse contro lo Stato ebraico, ci sono rimaste poche verità di cui essere sicuri: i giudizi di parte delle Corti internazionali, l’uso spregiudicato del termine genocidio e l’indulgenza verso i crimini di Hamas

Chissà quando e come le Corti internazionali accerteranno l’esistenza dei crimini imputati alla responsabilità di Israele, del suo primo ministro e di un altro componente del governo di unità nazionale. Un anno? Due? Cinque? Non si sa. E chissà quali nuove prove saranno poste a fondamento delle accuse. Si vedrà.

Nel frattempo, per un giudizio che non abbisogna di toga e parrucca per essere fatto, sarebbe bene attenersi a quel che si sa già ora – e non da ora – e a quel che finora si è visto.

Si sa e si è visto che quel governo di crisi è stato messo insieme per combattere chi vuole distruggere Israele e il popolo ebraico. Si sa e si è visto che quel popolo è in armi per salvare il proprio Stato e sé stesso.

Si sa e si è visto che a quello Stato e a quel popolo è stato richiesto – cosa mai richiesta a nessuno Stato, a nessun popolo in armi – di fornire assistenza umanitaria, alimentare, medica, energetica di cui fruisce anche la milizia terroristica che riceve, inguatta e rivende quegli aiuti mentre spara su quelli che accusa di affamare la popolazione.

Si sa e si è visto che una di quelle due Corti impone l’apertura di un valico, addebitandone a Israele la chiusura con fini genocidiari e disinteressandosi del fatto che a bombardarlo è quella milizia terroristica.

Si sa e si è visto che l’avanzata criminale di Israele scopre tunnel e bunker costruiti non solo sotto alle scuole, alle moschee, agli ospedali, ma anche sotto agli edifici della cooperazione umanitaria e internazionale che affastella dossier sui crimini israeliani.

Si sa e si è visto che i ricorsi sudafricani che non menzionano una volta la parola “ostaggi” e reiterano innumerevoli volte quella cara, “genocidio”, si intrattengono sulle “zone di sterminio” (hanno scritto così, “zone di sterminio”) create a Gaza da Israele, e lo fanno sulla scorta di un apparato probatorio costituito dall’articolo di un blog e dalla testimonianza di un soldato.

Si sa e si è visto che, a sostegno di quel ricorso, il legale officiato dal Sudafrica spiega che «se cade Rafah, cade Gaza»: e si sa e si è visto che nessuno gli domanda se quel verbo – “cadere” – si riferisca ai civili di cui si chiede la protezione, e se invece non appaia più appropriato per una parte che combatte.

Si sa e si è visto che le fotografie di soldati israeliani con qualche sorriso di troppo sulle macerie di edifici usati come arsenali indignano le sensibilità pacifiste che usano quegli scatti a riprova del crimine di guerra, le stesse sensibilità pacifiste che reclamavano indagini indipendenti per appurare se davvero gli eccidi del 7 ottobre potessero addebitarsi alla responsabilità della “resistenza” e non invece – lo hanno detto, lo hanno ripetuto, lo hanno scritto – al fuoco dei tank e degli elicotteri sionisti.

Si sa e si è visto che, nel suo rapporto intitolato “Anatomia di un genocidio”, la “Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967” – insomma la finta avvocata Francesca Albanese, quella degli Stati Uniti soggiogati dalla lobby ebraica, quella fotografata tra attivisti con striscione “Boycott Israel” – spiegava di non poter indugiare sui rapimenti del 7 ottobre e sulla condizione degli ostaggi perché tali eventi «esulano dall’ambito geografico» del suo mandato: cioè nel perimetro di Gaza c’era materia scrutinabile sotto il profilo genocidiario, ma gli ostaggi assassinati, torturati, stuprati , quelli no, perché «esulavano».

Potremmo continuare, ma basta. Perché una cosa conclusiva, si sa. Si sa che tutto questo non viene dal nulla.

«Le obiezioni dell’Anm? Insostenibili. E Falcone la pensava come noi» (ildubbio.news)

di Valentina Stella

Giustizia

Approvazione del ddl costituzionale su separazione delle carriere e Alta Corte. Ne parliamo con Beniamino Migliucci, past president dell’Unione Camere penali e presidente del comitato promotore che ha portato a casa oltre 72mila firme a sostegno della modifica legislativa.

Avvocato, si tratta di una riforma che proviene dalla fatica quotidiana e dagli input dati dall’avvocatura in tutti questi anni, altrimenti sarebbe rimasto tema circoscritto alle discussioni accademiche. Quanto è importante questo risultato per l’avvocatura?

Direi che è molto importante, perché il governo sostanzialmente ha ripreso, seppur con delle modifiche, la proposta di legge che l’Unione, insieme alla Fondazione Einaudi e ai Radicali, aveva predisposto nel 2017 con la raccolta di 72 mila firme. Poi la nostra pdl era stata ripresa dalle tre forze politiche di maggioranza e da Italia viva e Azione, quindi questo aspetto rafforza l’idea che il governo l’abbia fatta propria e condivisa. Abbiamo avuto il merito di riproporre al centro del dibattito un tema che era stato accantonato da tempo.

Non sarebbe stato più giusto, anche dal punto di vista delle tempistiche, che il governo emendasse le proposte incardinate in Commissione Affari costituzionali invece di presentare un ddl ex novo?

I tempi sarebbero stati più brevi. Ma vorrei prendere la parte positiva di quanto accaduto. È meglio sempre che si parta piuttosto che si rimanga fermi. Forse il governo ha inteso anche manifestare pienamente il suo assenso alla proposta incardinata in Commissione. Certo, ci auguriamo che questo percorso recuperi il tempo perso e che si raggiungano i due terzi in sede parlamentare. Ricordiamo però che anche la nostra proposta probabilmente avrebbe dovuto passare per un referendum.

Però nel vostro progetto non c’era la previsione dell’Alta Corte disciplinare.

No, non c’era. Era però una ipotesi che l’Unione aveva già formulato per far si che l’organo disciplinare dei magistrati fosse effettivamente terzo. I due Csm, peraltro, previsti anche nella nostra proposta, garantiscono finalmente che non vi sia interferenza dei pm nella carriera e nella disciplina dei giudici e viceversa.

L’Anm, invece, per quanto concerne il sorteggio è molto critica perché sostiene che umili la magistratura.

La soluzione adottata dal governo è probabilmente determinata dalla necessità di dare una risposta alle degenerazioni correntizie in atto ancor prima dello scandalo Palamara. Questo avrebbe dovuto preoccupare la magistratura. Noi avremmo preferito che vi fossero dei criteri di valutazione professionale oggettivi e trasparenti che garantissero maggiore qualità, ovviamente disancorati dalle logiche di corrente, sotto gli occhi di tutti.

Alcuni sostengono che l’approvazione della riforma in questo momento sia solo uno spot elettorale regalato a Forza Italia. Occorrerà vigilare nel post elezioni sulla reale determinazione di portare avanti la riforma?

Per mia natura non credo sia giusto fare un processo alle intenzioni. Colgo positivamente il risultato e che finalmente, anche se un po’ tardivamente, c’è un ddl costituzionale sulla separazione delle carriere. Ovviamente spetta anche a noi, che siamo stati i proponenti nel 2017, pungolare la politica affinché la proposta non si areni e abbia un percorso celere. Da questo momento in poi il governo ha l’impegno di mantenere quello che ha promesso, mentre l’avvocatura ha il compito di vigilare e sollecitare. Se ci dovessimo rendere conto di pratiche meramente dilatorie ne tratteremo le conseguenze.

L’ex presidente del Senato e ex magistrato Piero Grasso ha detto in una intervista a Repubblica che Falcone era contrario alla separazione delle carriere.

Sul punto circolano mistificazioni spudorate quanto stucchevoli. Il dottor Grasso ha detto addirittura che Giovanni Falcone si rivolterebbe nella tomba nel sentire che era favorevole alla separazione delle carriere. Io invece credo che lo farebbe nel sentire certe affermazioni. Il pensiero di Falcone è attestato non solo dall’intervista fatta alla stessa Repubblica il 3 ottobre del 1991 a Mario Pirani, ma vi sono scritti e dichiarazioni fatte verbalmente e riprese dalla stessa voce del grande magistrato. In una lezione, riportata integralmente dal quotidiano Il Giornale, Falcone diceva che non comprendeva come una parte possa essere ritenuta imparziale e che l’azione (che compete al pm) è incompatibile con la giurisdizione (che compete al giudice). Raccontava ancora Falcone che era difficile spiegare all’estero la situazione italiana dove anche il pm era ritenuto un giudice. Quindi il pensiero di Falcone è chiaro e chi mistifica e racconta bugie non è certo l’avvocatura.

Come giudica l’atteggiamento dell’Anm?

L’Anm è libera di fare le astensioni che ritiene, anche se come istituzione dovrebbe rispettare la separazione dei poteri. Però le obiezioni che fanno alla riforma sono assolutamente insostenibili. Hanno sostenuto che il pm sarebbe andato a finire sotto l’esecutivo e questo non risulta da nessuna parte, così come non è possibile affermare che il pm diventi un super poliziotto. Per quanto concerne la cultura della giurisdizione, abbiamo rilevato più volte, come pure il Cnf, che è inaccettabile che dalla cultura della giurisdizione facciano parte esclusivamente pm e giudici. Se poi vogliamo essere precisi e rifarci al pensiero di Falcone, ha ragione il ministro Nordio quando osserva che lo ius dicere spetta esclusivamente al giudice. Concludo affermando che questa riforma non è contro la magistratura, ma, al contrario, rafforza il giudice e accresce l’autorevolezza delle sentenze rispetto alla fase delle indagini. Autonomia e indipendenza della magistratura nel complesso vengono garantite dalla riforma che ribadisce tale principio.

Non vi irrita che alcuni esponenti di governo usino la clava della riforma della separazione quando una decisione non è gradita? Lo hanno fatto ad esempio quando Apostolico ha disapplicato il decreto Cutro. Ma in questo caso stiamo parlando della sezione immigrazione del tribunale civile.

La politica purtroppo strumentalizza spesso i principi per adattarli secondo convenienze. Nel caso concreto, però, sono più irritato dall’atteggiamento di chi, come molti deputati della sinistra, erano favorevoli alla separazione delle carriere ed ora improvvisamente si dicono contrari. Sarebbe auspicabile che su alcuni principi costituzionali, come la presunzione di innocenza o come quelli attuativi del giusto processo convergessero tutti, il che eviterebbe strumentalizzazioni in materia di giustizia.

(Beniamino Migliucci, già presidente dell’Unione Camere Penali italiane)