I pregiudizi sull’immigrazione contagiano anche i giovani (lavoce.info)

di  E 

Cosa pensano gli adolescenti italiani 
dell’immigrazione? 

Gli atteggiamenti ostili non sembrano influenzati da situazioni o esperienze personali negative. Derivano dal contesto, dalla scarsa informazione e dal dibattito pubblico spesso stereotipato.

Gli adolescenti e l’immigrazione

La popolazione straniera in Italia è circa il 10 per cento di quella totale, in linea con altri paesi europei. Genera spesso accesi dibattiti e aspri confronti politici: è di poche settimane fa, per esempio, la polemica sull’opportunità o meno di avere classi miste nella scuola italiana e sulla possibilità di mettere un tetto alla quota di stranieri nelle aule.

Tra le conseguenze più significative dell’immigrazione nel nostro paese, c’è la formazione di una nuova generazione di giovani figli di immigrati, nati o cresciuti in Italia, che costituirà una componente importante della popolazione adulta della società italiana nei prossimi anni. Questi giovani stranieri di ‘’seconda generazione’’ sono più di un milione (circa il 65 per cento sono nati in Italia) e sono bambini e ragazzi che non hanno ancora la cittadinanza, ma che parlano perfettamente l’italiano, e crescono come e insieme ai loro compagni di classe italiani.

Ma come vedono questi ultimi il fenomeno dell’immigrazione? Cosa pensano i ragazzi e adolescenti italiani del tema? Le loro percezioni del fenomeno migratorio influenzano gli atteggiamenti che assumono nei confronti degli immigrati?

Lo studio

In un recente studio, che abbiamo condotto insieme all’Università di Genova e Helpcode Onlus, abbiamo realizzato un’indagine campionaria nelle scuole superiori di Milano e Genova sulle opinioni degli studenti a proposito di immigrazione, diversità culturale e discriminazione. Il nostro campione comprende 40 scuole, 252 classi e 4552 studenti di età compresa fra i 15 e i 19 anni.

Le domande riguardano soprattutto le percezioni degli studenti rispetto ai flussi migratori, gli atteggiamenti e i comportamenti nei confronti degli immigrati, le relazioni con i compagni di scuola di origine straniera e l’esperienza individuale di episodi di discriminazione.

Ciò che emerge è un quadro abbastanza rassicurante per quanto riguarda l’integrazione fra studenti italiani e stranieri nel contesto scolastico. La gran parte degli studenti italiani intervistati (92 per cento) dichiara di essere indifferente tra l’avere un amico italiano o straniero e il 55 per cento riporta di avere almeno un amico stretto con origini straniere. Più in generale, il 72 per cento si dichiara favorevole a estendere il diritto alla cittadinanza italiana agli studenti immigrati che hanno completato 5 anni di scuola in Italia.

Leggi anche:  Un Patto per respingere l’immigrazione povera

Tuttavia, il quadro risulta più controverso per quanto riguarda le percezioni e gli atteggiamenti degli studenti rispetto al fenomeno dell’immigrazione nel suo complesso. In primo luogo, dai dati emerge che il 70 per cento degli studenti stranieri ha vissuto almeno una volta un episodio di discriminazione (dentro o fuori da scuola). Inoltre, gli studenti italiani riportano una percezione significativamente distorta delle dimensioni e delle caratteristiche della popolazione immigrata residente in Italia.

La figura 1a mostra che gli studenti, in media, tendono a sovrastimare la percentuale di residenti stranieri di circa 22 punti percentuali, anche tenendo conto delle caratteristiche degli studenti in termini di età, genere e background familiare (“conditional”). La sovrastima è maggiore di 5 punti percentuali tra gli intervistati nelle classi con una percentuale di studenti stranieri più elevata (superiore alla mediana del campione).

Questa correlazione positiva tra percentuale di studenti stranieri in classe e percezione della dimensione del fenomeno nella società suggerisce che gli studenti tendono a generalizzare in modo stereotipato, ovvero a proiettare la composizione della loro classe sul contesto sociale più ampio, accentuando le differenze.

In secondo luogo, i dati rivelano un certo grado di “avversione” da parte degli studenti nei confronti della popolazione straniera nella società. Circa il 30 per cento del campione considera troppo elevato il numero di residenti stranieri in Italia e quasi il 40 per cento ritiene che gli immigrati aumentino il livello di criminalità nelle aree nelle quali risiedono.

La figura 1b dà conto di un indicatore sintetico degli atteggiamenti degli studenti verso gli stranieri che aggrega queste e altre domande (tipiche anche di indagini internazionali quali l’Eurobarometro) L’indice è compreso tra 0 e 1 ed è tanto più alto quanto più ostili sono le attitudini verso gli immigrati. Anche in questo caso, le attitudini tendono a essere lievemente peggiori nelle classi con più immigrati (indice pari a 0,375 nelle classi più miste, contro 0,34 nelle altre).

Figura 1 – Percezione della proporzione di immigrati nella popolazione e indice di atteggiamenti ostili

Panel A                                                                        Panel B

I risultati scolastici delle classi con immigrati

Con questi elementi, sarebbe facile pensare che nelle classi con più immigrati ci siano problemi oggettivi, che si riflettono per esempio nei risultati scolastici degli studenti. Usando i dati dell’ indagine Pisa (Ocse) per l’Italia nel 2022, siamo andati a vedere quali sono in media i risultati delle rilevazioni in scuole con più o meno immigrati.

La figura 2 mostra che il livello di competenza (test score) in lettura è lievemente superiore (e non inferiore) nelle scuole con una proporzione maggiore di studenti stranieri. Ciò è vero anche per matematica e anche dopo aver tenuto conto delle caratteristiche degli studenti e del background familiare (in altri termini, dopo aver condizionato la media per l’auto-selezione degli studenti nelle scuole con più o meno immigrati).

Un’analisi più rigorosa in questo senso è disponibile in un recente lavoro sugli Stati Uniti, che mostra che una maggiore esposizione degli studenti americani ai loro coetanei immigrati è correlata a migliori punteggi nei test di matematica e lettura.

Figura 2 – Punteggio nel test di lettura (Pisa 2022)

Nel complesso, l’evidenza che emerge è in linea con l’idea che gli atteggiamenti ostili verso l’immigrazione siano influenzati non tanto da situazioni o esperienze personali negative, quanto da un pregiudizio, ovvero da opinioni ‘preconfezionate’ che derivano dal contesto, dalla scarsa informazione e dal dibattito pubblico spesso stereotipato.

La scuola è potenzialmente il luogo naturale per la costruzione di percorsi di integrazione e inclusione. Tuttavia, per far sì che ciò avvenga in modo consapevole – ovvero anche da adulti fuori dalla scuola – è necessario fornire ai ragazzi maggiori strumenti per decostruire ogni forma di pregiudizio e combattere stereotipi, paure e forme di discriminazione nella società.

In questo momento di sospensione e cambiamento, è necessario che la scuola sia sicura di fornire alle nuove generazioni le competenze e la coscienza critica per costruire comunità inclusive e solidali, in grado di valorizzare la diversità, il dialogo e la coesione sociale.

Non c’è più nessuna differenza tra la campagna elettorale e lo shitposting (rivistastudio.com)

di Francesco Gerardi

Questa campagna elettorale resterà probabilmente 
nella storia come il momento in cui ci siamo 
accorti che il confine tra politica e meme 
ormai non esiste più.

La campagna elettorale è ormai shitposting.

Per chi non conosce il termine, il dizionario di internet definisce shitposting – noto anche come trashposting o, in certe autarchiche traduzioni, caccapostaggio – come «l’atto di usare un forum o una pagina social per postare contenuti di scarsissima qualità con il fine di aggredire, ironizzare o trollare».

Oggi non esiste una definizione più precisa e sintetica, una descrizione più perfetta e onesta di questa per i contenuti politico-elettorali che vediamo apparire sui nostri schermi soprattutto nei giorni di campagna elettorale (dal punto di vista dei contenuti, c’è solo una differenza quantitativa tra il periodo di campagna e quello di quiete elettorale, però).

Gli esempi sono troppi, quindi ha senso citare il più recente e il più noto: se non è shitposting il video di Roberto Vannacci, generale dell’esercito in aspettativa e futuro europarlamentare, che invita i suoi elettori a esprimere la loro preferenza per lui facendo «una decima», cioè una X, cioè il simbolo della Xª Flottiglia Mas, sul suo nome, se non è shitposting questo allora tocca cambiare la definizione di shitposting. «L’atto di usare un forum o una pagina social per postare contenuti di scarsissima qualità con il fine di aggredire, ironizzare o trollare», appunto.

In quel video di Vannacci uno shitposter nota pure altri dettagli e sono quei dettagli a fare la differenza, a dare la certezza che davvero di shitposting si tratta. La polo che Vannacci indossa, l’illuminazione del video, la goffissima sovrapposizione del suo busto e dell’enorme tricolore che gli sventola alle spalle.

A prescindere dall’intenzione di aggredire, ironizzare o trollare, lo shitposting deve essere brutto. Esteticamente brutto, s’intende. Brutto in una maniera che permetta di percepire immediatamente la povertà dei mezzi – e quindi dell’intento: aggredire, ironizzare, trollare – di chi lo ha realizzato. Lo shitposting vero, quello originale, quello che è esistito prima che quel pezzo di Sam Greszes su Polygon lo intellettualizzasse ed elevasse a forma d’arte, non era una cosa pensata.

Consisteva semplicemente nel postare tantissimi contenuti senza senso nel mezzo di una discussione che altri stavano facendo, fino a quando la discussione non veniva abbandonata dagli utenti o gli utenti non espellevano lo shitposter dalla stessa. Ancora una volta, spero per l’ultima volta, Vannacci: ai giornalisti che gli chiedevano un’opinione sull’identità di genere, lui ha risposto snocciolando i princìpi di una «identità di età».

A quel punto la discussione è finita: ai giornalisti è rimasta soltanto la possibilità di mostrare le loro facce più confuse e come follow up question uno spaesatissimo «ma che c’entra?».

Raccogliere la quantità di momenti/contenuti shitposting che la politica italiana ha prodotto nell’ultimo mese è impossibile. Alle necessità di archiviazione e storicizzazione risponde comunque la splendida pagina Crazy Ass Moments in Italian Politics, biblioteca d’Alessandria in cui sono conservati tutti i tomi in cui si legge la discesa nel non senso del messaggio politico italiano.

Qui è il momento di fare una distinzione: con altri impallinati spesso mi capita di tentare la ricerca del momento esatto, del contenuto preciso che ha fatto della comunicazione politica italiana un campo d’applicazione dello shitposting.

C’è chi dice che tutto è cominciato abbastanza recentemente con una delle infinite gaffe di Luigi Di Maio, chi pretende sia riconosciuto il ruolo pionieristico di Silvio Berlusconi, chi invece azzarda che la shitpostizzazione di tutto sia cominciata quanto internet non era nemmeno immaginazione e Gianni De Michelis si faceva riprendere mentre ballava sulla pista del Bandiera Gialla di Rimini dopo la presentazione del suo ormai leggendario Dove andiamo a ballare stasera? Guida a 250 discoteche italiane.

C’è un errore in tutte e tre queste ricostruzioni, però: quei politici, quella politica non voleva né essere né fare shitposting. È stata usata poi, rielaborata da altri, in questo senso, ma De Michelis, Berlusconi e Di Maio volevano essere presi sul serio anche nei loro episodi più ridicoli e surreali.

Facciamo un altro esempio. Quando, durante la campagna elettorale del 2008, Walter Veltroni approvò lo spot elettorale “I am Pd” (una cover di “Ymca” dei Village People, impreziosita da versi come «Cantiamo tutti insieme I am Pd / Senza Silvio ma / Neanche Dini perché / Una nuova stagione c’è» e da slogan fantasiosi come «Walter!» e «Vota!») non aveva alcun intenzione di contribuire alla ridefinizione del significato della parola “imbarazzo”.

Lo stesso vale per “Meno male che Silvio c’è” («Dillo così / con quella forza / che ha solamente / chi è puro di mente / Presidente siamo con te / Meno male che Silvio c’è»): Berlusconi non voleva certo essere cringe a fini di rielaborazione memetica e quindi di presenza nei feed. Oggi invece Angelo Ciocca fa pure lui un video musicale elettorale («L’Europa è da svegliare / Basta insetti da mangiare»), con un green screen preso dal cassonetto della monnezza di una tv locale fallita e ballerine che seguono ognuna il proprio tempo e sa, Angelo Ciocca, che quello è un «contenuto di scarsissima qualità con il fine di aggredire, ironizzare o trollare».

Lo scopo di quel video, al contrario di “Meno male che Silvio c’è” e di “I am Pd”, non è dire alcunché: è interrompere quello che gli altri stanno dicendo, sabotare la discussione in corso, iniziarne una il cui oggetto sia il video di Ciocca. Una discussione in cui tutti possono partecipare per aggredire, ironizzare o trollare a loro volta Ciocca, certo.

Ma nell’epoca dell’attention span ridottissimo, un politico non può chiedere di meglio che essere presente nella consapevolezza – e quindi nel feed altrui – quel tanto che basta per rimanervi impresso: siamo qui a parlare del video di Ciocca, d’altronde.

Il meccanismo non è niente di nuovo, ovviamente. Ma la consapevolezza con la quale la politica inizia a manipolarlo sì, lo è, ed è forse la più grande novità nella comunicazione politica italiana degli anni Duemila. In parte si tratta di aver appreso la lezione data dagli unici politici della cosiddetta Terza Repubblica diventati cultura pop: Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

Ma anche in queste innegabili storie di successo è esistito un momento di iniziale imbarazzo, di acerba goffaggine che solo grazie alla rielaborazione post post ironica di altri è diventata “fascino”: quando all’inizio Salvini indossa felpe geolocalizzate, si faceva foto circondato da gattini al gattile o da affettati in salumeria, si spogliava sulla copertina di Chi era serio, poi siamo arrivati noi a fare del suo evidente malessere in quelle circostanze la più formidabile base memetica della storia italiana, e poi è arrivato lui a godersi i benefici elettorali di quella che noi pensavamo fosse satira e invece era presenza e quindi popolarità.

Lo stesso discorso vale per Meloni: era seria, serissima quando annunciava la tripartizione donna-madre-cristiana della sua identità nel discorso “Io sono Giorgia”. Lei era seria ma noialtri che di quel discorso abbiamo fatto una recurring gag a Propaganda Live e una canzone house no, non lo eravamo. Lei oggi continua a essere seria – noi di fare i brillanti ai suoi danni abbiamo smesso, invece – ma nel frattempo ha imparato la lezione: la sua autobiografia l’ha intitolata Io sono Giorgia e sui manifesti elettorali invita a votare per lei «scrivendo Giorgia» sulla scheda.

«Lo shitposting è la dimostrazione pratica dell’inefficacia delle parole come forma di comunicazione. Il suo senso sta esattamente nel non senso, nel suo approccio arbitrario e nichilista al linguaggio. Lo shitpost è una comunicazione che non è andata a buon fine in quanto il messaggio è volutamente incoerente», scriveva Erica Casale in un pezzo su Nero nel 2019.

Cinque anni e una legislatura dopo, vediamo che la politica ha capito: i Giovani democratici hanno prodotto un video che riprende un format molto popolare tra Instagram e TikTok, in cui a un passante viene fatto lo sgambetto e mentre sta cadendo gli vengono piazzati addosso gli oggetti che il creatore del video vuole vendere, o i simboli che vuole diffondere (nel caso dei Giovani Democratici: una bandiera dell’Ue, manco del Pd, e volantini elettorali troppo piccoli perché si riesca a leggere che c’è scritto sopra).

Forza Italia ha chiuso la sua campagna elettorale con il video di un ballo di gruppo, tra Boss delle cerimonie Slumdog Millionaire, a Napoli. Giuseppe Conte ha invece intonato una versione acustica di “Parole parole” a Un giorno da pecora (e ha pure esposto orgogliosamente una sua foto con Khaby Lame, il creator che non ha mai dovuto dire niente per avere successo, forse la tendenza alla quale Conte aspira), mentre Stefano Bandecchi, fondatore dell’università Niccolò Cusano, sindaco di Terni e candidato con Alternativa Popolare, ha raccontato che da ragazzo la sua arte seduttiva consisteva nell’andare in discoteca e chiedere alle ragazze «Balli? Trombi?».

In Piemonte, dove l’8 e il 9 giugno si vota anche per le elezioni regionali, il candidato di Forza Italia Matteo Doria ha prodotto una cover di “Gloria” di Umberto Tozzi che fa «Parla sempre con ardore / e al mercato rionale / te lo trovi in mezzo al sale /e scrivi Doriaaaaa». Parole, intese come parole, messaggi politici contenuti dentro tutto questo content? Nessuna. «Lo shitposting è la dimostrazione pratica dell’inefficacia delle parole come forma di comunicazione».

Quello che un tempo era l’oggetto – la vittima – dello shitposting diventa alla fine esso stesso shitposting. Lo si è già visto succedere in uno degli episodi che hanno contribuito a istituzionalizzare la pratica: quello di un famoso gruppo Facebook dedicato al commento degli episodi dei Simpson, preso d’assalto dagli shitposter fino a quando gli amministratori non sono stati costretti alla resa. Oggi quel gruppo esiste ancora ma ha cambiato nome: si chiama Simpson Shitposting.

Ovviamente, la validità del discorso sull’inefficacia delle parole dipende. Ci sono parole che un’efficacia la conservano: stronza, per esempio. Che la sua stessa lezione Meloni l’abbia imparata lo dimostra il siparietto/trappolone con Vincenzo De Luca: «Presidente De Luca, la stronza della Meloni», detto in prossimità di microfono, a favore di telecamera, pregustando reach e engagement – già, anche la politica questo è, ormai – omaggi, condanne e rielaborazioni più che in ogni altra occasione precedente.

Peccato solo che la legge certe parole, come stronza, vieti ancora di usarle a fini elettorali. Si può dire “con Giorgia” ma non “con la stronza della Meloni”.

Per il momento, però: la shitpostizzazione della politica continua.

MIGRANTI, ANCHE MORTI VERSO UN PORTO «SICURO» (corriere.it)

di Luigi Ferrarella

Va bene che quelli che affogano nel Mediterraneo 
sono i più «vinti» tra tutti i «vinti»: 

senza nome (sconosciuto), senza volto (consumato), senza storia (ignota) e senza diritti, manco quello di essere riconosciuto almeno scarabocchio fra «tutti gli uomini che passano sui fogli del mondo come scarabocchi» (Baglioni).

Ma neanche i pacchi postali deperibili vengono trattati come i cadaveri (in acqua da chissà quanti giorni di chissà quale naufragio) avvistati in zona Sar libica dall’aereo di una ong, 11 recuperati dalla Geo Barents e 1 dalla Ocean Viking: navi poi spedite dal Viminale — in base al decreto Piantedosi sotto minaccia altrimenti di fermo amministrativo — come «porto sicuro» una a Genova (1500 km in 5 giorni di navigazione con 11 cadaveri in cella frigorifera tra 165 soccorsi) e l’altra a Carrara (1000 km).

Fino ieri alla parziale concessione — il trasbordo almeno delle salme di Geo Barents su una motovedetta della Capitaneria per lo sbarco a Lampedusa — che il Viminale si é affrettata a giustificare «esclusivamente per ragioni umanitarie», non sia mai che si dubiti che «il porto sicuro è prerogativa del ministero dell’Interno».

Giá il 7 marzo la Sea Watch 5, con il cadavere di un 17enne pakistano a bordo, si era vista assegnare come porto Ravenna, prima di ottenere la grazia di attraccare a Pozzallo. Ma dei pesci si ha ormai anche la (assuefatta) memoria breve.

La sottile differenza tra dividere il nemico e consegnarsi a lui (linkiesta.it)

di

Unione (im)possibile

Dall’Economist a Die Zeit, aumentano i fan del patto Von der Leyen-Meloni. Mentre socialdemocratici e liberali minacciano di togliere il sostegno a Von der Leyen per le sue aperture a Meloni, la presidente della Commissione e il suo partito vedono un’occasione, scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”.

In tempi pericolosi come quelli che stiamo vivendo, scrive l’Economist nel suo ultimo numero, l’Unione europea ha bisogno di una leadership coerente e di tenere gli estremisti lontano dal potere. E questo dipenderà dalle scelte di tre donne: la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, la presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, e la principale leader populista francese, Marine Le Pen.

Per farla breve, il settimanale si schiera nettamente a favore di una riconferma di Von der Leyen, e soprattutto della sua strategia di apertura verso Meloni, al principale scopo di dividere l’estrema destra e tenere Le Pen ai margini del potere.

Si tratta di una posizione molto simile a quella sostenuta due giorni fa da Mariam Lau su Die Zeit, a partire da un’analisi della spaccatura provocata dalle parole dello Spitzenkandidat di Afd all’interno del gruppo di Identità e democrazia: da un lato l’estrema destra vecchio stile, con i suoi dottor Stranamore e i loro continui riferimenti al Terzo Reich, la banalizzazione dell’Olocausto e tutto il resto del repertorio; dall’altro la cosiddetta nuova destra, «un po’ imbarazzata da questi vecchi parenti», cui si sente idealmente vicina, ma con cui non vorrebbe farsi vedere in giro.

Secondo il settimanale tedesco questa nuova destra sarebbe figlia soprattutto di filosofi francesi come Alain de Benoist, che dai movimenti di sinistra degli anni Settanta hanno tratto un’importante lezione: «L’egemonia si ottiene prima nella cultura, alla radio, nelle canzoni, nel modo di vestire e di scherzare, al cinema, e solo dopo in Parlamento.

Quest’ambito lo chiamano “metapolitica”». Un esempio di tale metapolitica sarebbe quello che è successo pochi giorni fa sull’isola di Sylt, e prima in tante altre discoteche, feste e salotti tedeschi, e cioè che una canzone razzista (Deutschland den Deutschen, Ausländer raus – La Germania ai tedeschi, fuori gli stranieri) sia diventata un «divertimento sovversivo con Aperol Spritz».

Non penso sia necessario segnalare al lettore italiano la derivazione gramsciana di queste riflessioni, e tantomeno il parallelo con quanto accade da noi. Con la non piccola differenza che da noi la cosiddetta nuova destra, ammesso che sia nuova, può condurre i suoi esperimenti egemonici dal governo, con i risultati che abbiamo sotto gli occhi, e che potranno presto ammirare anche i giornalisti tedeschi, ad esempio, alla Buchmesse di Francoforte (per chi si fosse perso pure questa, consiglio la ricostruzione di Nicola Lagioia, che mi sembra assai convincente, anche perché conferma la mia, ovviamente).

In ogni caso, prosegue l’articolo della Zeit, «per questa nuova destra il nemico numero uno non è la sinistra, ma piuttosto il liberalismo, la globalizzazione, la “grande sostituzione”, come chiama l’immigrazione irregolare. Per Goebbels semplicemente non ha tempo».

In Francia, Marine Le Pen vuole diventare presidente, e per questo ha bisogno del voto moderato, proprio come la sua «nuova amica» Giorgia Meloni: se si mettessero insieme, nel futuro parlamento europeo potrebbero guidare un gruppo di una certa consistenza.

Ma mentre socialdemocratici e liberali alzano un muro e minacciano di togliere il sostegno a Von der Leyen per le sue aperture a Meloni, la presidente della Commissione e il suo partito (i popolari) vedono invece un’occasione.

E qui l’analisi del settimanale tedesco converge con quella dell’Economist, secondo il quale sarebbe miope tagliare fuori la leader di Fratelli d’Italia, che si è dimostrata finora un capo di governo «pragmatico» (specialmente sull’Ucraina), anche perché «raggiungere un accordo con lei potrebbe avere un ulteriore vantaggio: dividere la destra populista tra i suoi elementi più moderati ed estremi».

Evidentemente, molto dipenderà dall’esito del voto e dagli equilibri nel nuovo parlamento. In tempi terribili come quelli che abbiamo davanti, è difficile dire quale sarà domani il male minore.

Ma proprio all’indomani della condanna di Donald Trump, che in Italia continua a godere del convinto sostegno dell’intero centrodestra (con qualche distinguo della sola Forza Italia), è lecito domandarsi se anche liberali e centristi europei non dovrebbero riflettere meglio sul concetto di egemonia, e sulla differenza tra dividere il nemico e consegnarsi a lui.

(handelsblatt)