Un periodo difficile per Kiev (corriere.it)

di Paolo Mieli
Diritti
Colpisce che lodi e incoraggiamenti (talvolta anche finanziamenti) a partiti inneggianti alle SS vengano da un Paese che, da due anni e quattro mesi, compie quotidianamente stragi al fine di «denazificare» l’Ucraina
Cattive notizie arrivano per Kiev dai risultati delle elezioni europee. La maggioranza schierata a favore dell’Ucraina sostanzialmente ha retto, ma l’avanzata delle destre più estreme ha provocato da noi qualche non lieve scossa sismica e in Russia uno stato di euforia. Per primo ha alzato il calice Marat Bashirov, autoproclamatosi già nel 2014 premier della Repubblica popolare di Lugansk: «Bella giornata», ha detto, «al Cremlino stanno stappando champagne».

Quei risultati «rovinano notevolmente il clima della conferenza svizzero-ucraina e del vertice della Nato». E costituiscono la prova che «i cittadini europei non vogliono combattere contro la Russia». Le sconfitte di Macron e Scholz, secondo il ben noto Dmitry Medvedev, «sono un riflesso della loro inetta politica di sostegno alle autorità ucraine».

Nonché, ha aggiunto Medvedev strizzando l’occhio alle destre più ultras, «della loro idiota politica economica e migratoria». Dmitry Peskov si è detto convinto che i partiti dell’ultradestra «pesteranno i piedi» a quelli che vogliono continuare a sostenere Zelensky. E via di questo passo.

Colpisce che lodi e incoraggiamenti (talvolta anche finanziamenti) a partiti inneggianti alle SS vengano da un Paese che, da due anni e quattro mesi, compie quotidianamente stragi al fine di «denazificare» l’Ucraina.

Né tra i sostenitori della causa russa (nel nome della pace, beninteso) c’è qualcuno — magari qualche sincero antifascista — che si scandalizzi di questa esplicita solidarietà a forze che esplicitamente si richiamano all’esperienza hitleriana.

Qualcuno — per dire — di quelli che due anni fa giustamente inorridirono al cospetto dei simboli nazisti tatuati sulle braccia dei combattenti del battaglione Azov o della riabilitazione di Stepan Bandera nell’intestazione di una piazza o una strada. Nessuno di loro ha fatto caso alle curiose parole di Bashirov, Medvedev, Peskov e moltissimi altri «denazificatori» fedeli a Putin.

A tener alta la bandiera del «pacifismo» italiano nel nuovo Parlamento europeo sarà il generale Roberto Vannacci. Il più votato tra i sostenitori — a quel che lui stesso dichiara — delle «ragioni di papa Francesco» (e, ovviamente di Matteo Salvini). Nei confronti di chi, per questa missione, avrebbe avuto più titoli di lui — ad esempio l’ex direttore di Avvenire Marco Tarquinio candidato nelle liste del Pd — il «popolo della pace» si è mostrato meno generoso facendo correre al celebre giornalista il rischio di restare escluso dall’elenco degli eletti.

Allo stesso modo questo elettorato che su social e su media anche cartacei si pronuncia insistentemente per la cessazione della fornitura di armi ai resistenti ucraini, questi potenziali elettori, dicevamo, non si sono mostrati riconoscenti nei confronti dei più noti combattenti per la loro stessa causa: Michele Santoro, Jasmine Cristallo, Ginevra Bompiani, il disegnatore Vauro, Raniero La Valle.

In compenso Vannacci potrà condividere — sempre nel Parlamento europeo — le barricate anti Zelensky con Cecilia Strada, Ilaria Salis e, supponiamo, Pasquale Tridico che ha ottenuto un seggio a Strasburgo grazie al M5S.

Questa unione tra la sinistra pacifista e il generale Vannacci — sul cui conto, sia chiaro, non risultano né pubblici apprezzamenti né pagamenti da parte dei russi — è stata celebrata in tv da un abbraccio (a distanza) tra lui e Angelo D’Orsi. Professor D’Orsi — anch’egli, sia detto in modo altrettanto chiaro, senza aver ricevuto congratulazioni o finanziamenti da Mosca — il quale dal 24 febbraio 2024 lotta strenuamente e talvolta con argomenti convincenti sul fronte pacifista.

Ciò che stupisce è la scarsa sensibilità dei pacifisti nostrani a fronte dell’avanzata di partiti di destra, anche ultras, e la malcelata soddisfazione nel vedere umiliati i leader europei che pochi giorni fa hanno celebrato gli ottant’anni dallo sbarco in Normandia. Sbarco la cui portata è stata, tra l’altro, alquanto messa in ridicolo su alcune pubblicazioni riconducibili al loro schieramento.

Il tutto è accompagnato oltretutto da un auspicio — anch’esso esplicito — a che l’altro personaggio presente in Normandia, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, perda le elezioni di novembre a vantaggio dell’avversario Donald Trump. Trump che, lui sì, saprebbe trovar la «pace» in quattro e quattr’otto. Non osiamo neanche immaginare in quali condizioni per Zelensky e per coloro che hanno combattuto fino ad oggi per l’indipendenza e l’integrità territoriale del loro Paese.

Da questo quadretto, traiamo la lezione che l’Europa (quel che, dopo le elezioni, resta in piedi dell’Europa) ha quattro mesi di tempo — da qui a novembre — per mettersi in regola con sé stessa. Così da trovarsi quando si terranno le consultazioni presidenziali negli Stati Uniti (e c’è ancora qualche ragione di essere ottimisti) pronta a fare la propria parte. Fino in fondo.

E potrebbe anche venirne fuori qualcosa di buono, oltre che per l’Ucraina, per l’Europa stessa. Vale a dire per il nostro futuro.

La memoria scomoda di Matteotti, il riformista scaricato dalla sinistra (ilriformista.it)

di Giuliano Cazzola

Cazzolate

Il ricordo

Giacomo Matteotti. Un vecchio socialista non può che compiacersi delle iniziative organizzate in Italia per celebrare il centenario della nascita e l’anniversario del suo rapimento sul Lungotevere Arnaldo da Brescia da parte degli sgherri di Mussolini, che lo assassinarono in auto e lo seppellirono alla meglio alle porte di Roma. Tanti sono i riconoscimenti rivolti, le targhe inaugurate sui muri delle città, i pellegrinaggi a Fratta Polesine nella sua casa natale.

Lo scranno sacro

Certo, cento anni sono importanti, ma lo erano anche cinquanta, senza che allora vi fossero le onoranze di queste settimane. Lo scranno che occupava alla Camera, da dove pronunciò la requisitoria contro i brogli elettorali del regime, è sempre stato lì ma nessuno ha mai pensato di porvi una targa e di non assegnarlo più ad altri deputati (come fanno le grandi squadre quando ritirano la maglia di un campione del calcio).

Non si può dire neppure che a riscoprire Matteotti sia stato l’incidente capitato allo scrittore Antonio Scurati, che è finito per fare del martirio del leader socialista l’esempio della violenza con cui il fascismo aveva conquistato e mantenuto il potere.

La memoria scomoda

Infatti sul caso di Giacomo Matteotti sono stati pubblicati molti libri pensati, scritti necessariamente prima del 25 aprile di quest’anno, quando l’assassinio del deputato socialista è stato raccontato su tutte le piazze d’Italia fino alla solenne rievocazione alla Camera, in cui è stato ricordato che Matteotti era socialista. Qui sta il punto che non è ancora stato chiarito.

La memoria di Giacomo Matteotti – scomoda come quella di tutti i martiri – non può essere onorata soltanto condannando mille volte i suoi assassini. Ha diritto a un ben più importante riconoscimento: la sinistra deve ammettere che Matteotti e i suoi compagni avevano ragione. Due anni prima del rapimento e del brutale assassinio la corrente riformista – di Filippo Turati – era stata espulsa dal Psi su richiesta di Lenin, che aveva imposto questa pregiudiziale tra i 21 punti necessari per essere ammessi nella III Internazionale.

I contrasti interni

Nel Congresso di Livorno del 1921 la richiesta non era stata accolta dalla maggioranza massimalista. Tale rifiuto divenne uno dei motivi della scissione comunista. Tuttavia la precaria unità di Livorno non aveva attenuato i contrasti interni che paralizzavano il partito, proprio mentre stava dilagando lo squadrismo fascista e appariva sempre più urgente un’iniziativa del movimento operaio.

Dopo altri tentativi di rinviare il problema, il Psi al congresso di Roma decise finalmente di obbedire a Mosca e decise l’espulsione dei riformisti, che fondarono il Partito socialista unitario (Psu) eleggendo segretario Giacomo Matteotti. È bene che si ricordi che quel Congresso si svolse nei primi giorni di ottobre del 1922; poche settimane prima della Marcia su Roma.

In quel giorno il vertice del Psi “purificato” dall’infezione riformista si trovava a Mosca a esibire lo scalpo di Turati al Congresso della III Internazionale.

Le truffe del superbonus grillino (come gli esami di Eduardo) non finiscono mai: frode da 67 milioni a Lecce (secoloditalia.it)

di Davide Ventola

Le truffe del superbonus, voluto dal premier Conte, 
quello del “graduidamende”, sono come gli “esami” 
della commedia di Eduardo De Filippo. 

Non finiscono mai. Alle prime ore dell’alba i  finanzieri della Compagnia di Maglie, alle dipendenze del comando provinciale di Lecce, hanno scoperto una presunta frode che sarebbe stata attuata con le agevolazioni del superbonus al 110% e sequestrato beni e liquidità per oltre 67 milioni di euro in esecuzione di un decreto emesso dal gip del tribunale salentino su richiesta della procura. In tutto sono 12 gli indagati che rispondono di indebita percezione di erogazioni pubbliche, falsità ideologica in certificati commessa da persone che esercitano un servizio di pubblica necessità ed emissione di fatture per operazioni inesistenti.

Tra Lecce e Chieti frodi del superbonus da 110 milioni di euro

Nove di essi sono accusati anche di associazione per delinquere. Nei confronti di un imprenditore, rappresentante legale della società al centro dell’inchiesta, anch’essa sottoposta a vincolo, è stata applicata la misura interdittiva di divieto di contrattare con la pubblica amministrazione e di esercitare attività professionali e imprenditoriali per la durata di un anno.

In particolare il provvedimento di sequestro preventivo è stato eseguito all’interno di numerosi istituti bancari e postali ‘terzi cessionari del credito’ per un importo quantificato in 25 milioni di euro e presso il ‘cassetto fiscale’ della società inquisita per oltre 42 milioni di euro.

L’indebita percezione di contributi per i bonus edilizi si riferisce a lavori non eseguiti, o eseguiti solo in parte, di ristrutturazione immobiliare in oltre 500 cantieri ricadenti nella provincia di Lecce, per i quali i professionisti abilitati e coinvolti nell’illecito ipotizzato avevano attestato lo stato finale dei lavori, rilasciandone il prescritto visto di conformità.

Per tali interventi edilizi sono state emesse e contabilizzate oltre 1.200 fatture per operazioni inesistenti, inserite nel sistema dell’Agenzia delle Entrate, allo scopo di generare i crediti d’imposta e di procedere alla loro monetizzazione.

Appena 24 ore prima, a Chieti, era stata scoperta un’altra frode con il superbonus e con il bonus facciate: 50 milioni di euro, 13 persone in manette. Improbabile che lo scandalo si arresti a questi casi. Perché, come gli esami della celebre commedia di Eduardo De Filippo, le truffe del superbonus non finiscono mai.

(Aleksandr Kadykov)

Saluti dall’Ungheria (lastampa.it)

di Mattia Feltri
Buongiorno (12/06/2024)
“…Toti è ai domiciliari poiché esistono esigenze cautelari, una meno e una più pressante: la prima è evitare che inquini le prove in combutta col (presunto) compare, l’imprenditore Aldo Spinelli; la seconda evitare che ripeta il reato di cui lo si accusa: fare pastrocchi in cambio di soldi per pagarsi la campagna elettorale.
Sbaglierò senz’altro, ma le cose non mi tornavano prima e tantomeno mi tornano oggi. Anzitutto, come farebbe Toti a inquinare le prove in combutta col compare, se anche il compare è ai domiciliari? Uno o l’altro dovrebbe uscire, e invece non esce nessuno. Ma la seconda cosa che non torna è ancora più curiosa. Una volta indagato, e ampiamente sputtanato, non si capisce come Toti avrebbe continuato i traffici, a meno di ritenerlo un perfetto idiota…
…Però adesso le elezioni sono passate e le prossime, le regionali, arrivano nell’autunno 2025, peraltro a lui precluse avendo già coperto due mandati. Toti quale campagna elettorale potrebbe pagarsi col crimine? Quella conclusa o la successiva a cui non parteciperà?
Bella domanda. Pensiamoci su, intanto che un presidente eletto e innocente fino a prova contraria aspetta la risposta. C’è tutto il tempo.”

G7 in Puglia, eliminato dalla bozza il punto sul diritto all’aborto. Mistero sul ruolo italiano (repubblica.it)

È stato tolto il punto in cui i Grandi della 
Terra sottolineavano l'importanza a garantire 
"un accesso effettivo e sicuro all'aborto". 

Fonti italiane: “Nessuno lo ha chiesto”. Il riferimento era stato inserito nel corso del summit di Hiroshima lo scorso anno

Nell’ultima bozza delle conclusioni del G7 che si aprirà oggi a Borgo Egnazia, a quanto si apprende da fonti qualificate europee, è stato tolto il punto in cui i Grandi della Terra sottolineavano l’importanza a garantire “un accesso effettivo e sicuro all’aborto”.

Il punto sul diritto all’aborto era stato inserito nel corso del G7 di Hiroshima e, spiegano le stesse fonti, Francia e Canada in vista del summit in Puglia avevano chiesto di rafforzare il riferimento, in cui i sette grandi affermavano il loro “pieno impegno per assicurare salute e diritti sessuali riproduttivi completi per tutti, anche affrontando la questione dell’accesso all’aborto sicuro e legale e alle cure post-aborto”.

Ora nell’ultima bozza, su iniziativa del governo Meloni è stato eliminato qualsiasi riferimento al diritto all’aborto. Intervento che avrebbe suscitato l’ira delle altre delegazioni, soprattutto quella francese.

“Nessuno Stato ha chiesto di eliminare il riferimento alle questioni relative all’aborto dalla bozza delle conclusioni del vertice G7, così come riportato da alcuni organi di stampa in una fase in cui le dinamiche negoziali sono ancora in corso – riferiscono presidenza G7 Italia – Tutto quello che entrerà nel documento conclusivo sarà un punto di caduta finale frutto di un negoziato fra i membri G7.