Vita e dolore di Janek, polacco senza fissa dimora che scrive in italiano (ilfoglio.it)

di ANNALENA BENINI

LETTERE RUBATE

Arrivato in Italia nel 1992 non è più andato via.

Non ha una casa, ma ha molti lavori, conosce tante persone, sa attraversare Roma da un capo all’altro e in questi trent’anni l’ha fatto sempre

La mattina vado al reparto G-12 mi trovo in cella con due algerini, un tunisino, un altro africano di Madagascar e un italiano, non c’è neanche un fornello né caffè neanche ombra delle sigarette, niente, senza pensare compro tutto il necessario (qui non voglio passare per benefattore) ma il riconoscimento da parte loro mi mette in imbarazzo, non mi permettono di pulire la cella, né di lavare i piatti, io in cambio scrivo domande per loro e alla fine ottengo risultati.
Janek Gorczyca, “Storia di mia vita”
(Sellerio, 144 pp.)

Janek è arrivato in Italia nel 1992 non è più andato via. Non ha una casa, ma ha molti lavori, conosce tante persone, sa attraversare Roma da un capo all’altro e in questi trent’anni l’ha fatto sempre. Per amicizia, per amore, per lavoro, per dolore. Janek è polacco e ha scritto questo libro direttamente in italiano, con una lingua dura che rende la verità del racconto ancora più vera, più difficile e mai resa più sopportabile dalla dolcezza delle parole.

Eppure l’amore per Marta è anche dolce.

“Arrivo quasi al Natale 2016 senza bere. Di nuovo ci si mette Marta con le sue. Si crede di essere tutta sana ma così non è, e purtroppo pagherà con la sua sua vita e per me è una sconfitta e un dolore enorme”. Janek è curioso di tutto, a volte crede di sapere tutto ma ammette i suoi errori, ormai lo sa che basta un attimo per mandare tutto a rotoli. Basta una bottiglia del supermercato. Parla di destino di dolore. Questa non è una storia di alcolismo, è la storia di una vita difficile, in cui un uomo attraversa la città a piedi per andare dalla sua Marta in ospedale. E quando in ospedale c’è lui, con la mandibola fratturata, scappa ogni giorno per andare a trovare Marta e per fumare.

“Dopo viene dottoressa e mi dice che fuori fa 5 gradi e io sono vestito leggero. Rispondo che in Siberia, dove ho fatto contrabbando, erano -50 gradi. Tempo scaduto. Esco, nessuno si è accorto come e ovviamente fumo una sigaretta”. Janek fa coraggio agli altri, è spavaldo, orgoglioso della sua fatica e delle difficoltà, della sua memoria e dei suoi amici e di questo racconto.

“Per carattere mio quando mi annoio decido di cercare amici di vecchia data, e un pomeriggio vado a Montesacro, perché sapevo che c’è qualcuno che lì chiede l’elemosina al semaforo e anche sotto la chiesa. Infatti li trovo. Trovo tutti a piazza Primoli accampati di giorno nel parco e di notte dormono sotto il negozio ex Levis di fronte all’ex Gs (adesso Carrefour) sopra i cartoni”.
Janek si interroga sul senso di tutto in modo molto serio. “Sentimenti? Ne ho pochi. Carattere ribelle? Mancanza di senso di responsabilità? Più probabile voglia di vita un po’ sbandata”.

E’ un libro travolgente, che rimane incollato ai pensieri.

Perché l’estrema destra sta guadagnando popolarità tra i giovani (euronews.com)

di Pilar Montero Lopez

La percezione dell'inefficacia dei partiti 
tradizionali spinge sempre più le giovani 
generazioni a dare fiducia ai messaggi reazionari 
dei partiti estremisti

Il Parlamento europeo si sta spostando più a destra e, se i risultati sono credibili, anche le nuove generazioni di elettori europei.

Sia il gruppo di estrema destra Identità e Democrazia (Id) che i Conservatori e Riformisti Europei (Ecr) sono destinati a esercitare una maggiore influenza nei prossimi cinque anni nel Parlamento europeo, dopo aver aggiunto rispettivamente nove e sette seggi alle loro liste in seguito alle elezioni europeetenutesi all’inizio del mese di giugno.

I dati del think tank ThinkYouth indicano che i giovani hanno avuto un ruolo importante in questo risultato. Il partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD) si è assicurato una grande fetta di voti giovanili, mentre circa un terzo dei giovani ha votato per il partito di estrema destra Rassemblement National (Rn) in Francia e per il partito Confederazione Libertà e Indipendenza in Polonia, dove anche il partito ultraconservatore Diritto e Giustizia si è assicurato il 16% di questo gruppo demografico chiave.

“Sbarazzarsi dei tecnocrati”, tornare a un'”Europa delle nazioni”, ridurre l’immigrazione e indebolire i partiti tradizionali “inefficaci e corrotti” sono alcuni degli argomenti portati dai giovani che hanno dato il loro voto ai partiti di estrema destra o ultranazionalisti.

Un trampolino di lancio verso la politica nazionale

Ora Enzo Alias, un giovane sostenitore del Rassemblement National, spera che il partito di Marine Le Pen “faccia la storia” nelle prossime elezioni legislative lampo in Francia e “si imponga come prima forza politica in Francia”.

Il presidente francese Emmanuel Macron ha sciolto l’assemblea nazionale e ha indetto queste elezioni dopo che il suo partito centrista Renaissance ha subito un duro colpo alle elezioni europee, arrivando molto lontano dal Rn che ha ottenuto oltre il 31 per cento dei voti.

Per Alias, che è anche presidente dell’organizzazione giovanile Patriots Network, i cui membri sono legati a partiti populisti di estrema destra o di destra di tutto il mondo, i risultati di Rn alle elezioni europee confermano che il partito “è sempre stato molto popolare tra i giovani” e che è stato in grado di catturare il segmento che aspira a una Francia “conservatrice, patriottica e orientata alla sicurezza”.

A Euronews ha detto che RN dovrebbe lavorare per “riformare completamente l’Unione europea e mettere fuori gioco i tecnocrati per tornare a un’Europa delle nazioni che rispetti la sovranità di ogni nazione”.

“Sono impegnato nelle idee del partito perché sono un patriota che non può più sopportare di vedere il proprio Paese affondare senza che il nostro governo intervenga o chiuda un occhio sul suo destino”, ha aggiunto.

Anche Signe Vedersø Keldorff, presidente dell’ala giovanile del Partito Popolare Danese, nazionalista e populista di destra, ritiene che l’Ue debba “rimanere fuori dalla vita quotidiana dei danesi”.

Il suo partito, guidato da Morten Messerschmidt, è diventato la seconda forza politica in Danimarca nel 2015, poi ha perso popolarità, ma Vedersø spera che i risultati favorevoli ottenuti da Id e Ecr possano contribuire a invertire questa tendenza.

“Molte persone ci vedono come un partito estremista”, dice a Euronews, “ma credo che siamo fraintesi perché vogliamo solo una politica sicura per la Danimarca”.

L’argomento corruzione

Il nuovo arrivato in Spagna, ‘La festa è finita’ (Se acabó la fiesta, Salf), un movimento radicale anti-sistema, è riuscito ad ottenere due seggi al Parlamento europeo con la lotta alla corruzione politica come unica vera proposta elettorale.

Il suo leader, Alvise Pérez, si presenta come un agitatore che promette di mettere in palio l’intero stipendio da europarlamentare se riuscirà a scuotere i politici che “vivono dell’impunità del furto”. Attraverso il suo canale Telegram, è riuscito a entrare in contatto con un elettorato giovane ed euroscettico.

È il caso di I.R.L., un 29enne per il quale Pérez “offre un’alternativa fresca e diretta ai partiti tradizionali, che si sono dimostrati inefficaci e corrotti”. Inoltre, ha dichiarato l’elettore a Euronews, la sua presenza sui social network ha creato un legame diretto con questa generazione, che è stanca di promesse vuote e vuole vedere azioni concrete.

La sfiducia di questo giovane verso l’Ue è dovuta alla sua “eccessiva burocrazia” e alla sua incapacità di “proteggere gli interessi dei cittadini spagnoli”.

Al contrario, vede nell’approccio diretto di Pérez “ciò di cui abbiamo bisogno per realizzare un vero cambiamento e compiere i primi passi per migliorare l’economia spagnola” e spera che la sua presenza al Parlamento europeo sia il trampolino di lancio per un “solido approdo di Salf alle elezioni generali in Spagna nel 2027”.

Controcultura di destra

I giovani sono attratti da “un leader carismatico” e da una “comunicazione innovativa”, soprattutto sui social network dove mostrano “il coraggio di rompere con il politicamente corretto”, afferma Rita Matias, presidente dell’ala giovanile del partito di estrema destra portoghese Chega!.

Questo partito è salito al terzo posto nelle ultime elezioni portoghesi di marzo, passando da 12 a 50 deputati e assicurandosi un quarto dei voti tra i 18 e i 34 anni, secondo un sondaggio dell’ISCTE. In queste elezioni europee, Chega! ha ottenuto due seggi, un confronto “disonesto”, sostiene Matias, eletto deputato europeo, “perché i portoghesi non si sentono affatto rappresentati dalle istituzioni europee”.

Solo il 34,5 per cento degli elettori portoghesi ha partecipato alle elezioni europee. Secondo il 25enne, le nuove generazioni vedono che “la controcultura è sempre più a destra”, dove “c’è una rottura con il pensiero unico” e si può dire “quello che tutti pensano, ma che non dicono per essere socialmente accettati”.

Mancanza di rappresentanza giovanile nelle istituzioni

Per María Rodríguez Alcázar, presidente dell’associazione no-profit European Youth Forum, la popolarità di questi partiti sta aumentando a causa della “percezione che i partiti politici tradizionali falliscono e non fanno abbastanza per migliorare le nostre vite“. Inoltre, sfruttano la convinzione che l’Ue sia un’entità distante che non si preoccupa delle preoccupazioni quotidiane dei cittadini.

“I partiti di estrema destra non offrono soluzioni, ma mettono sul tavolo i problemi”, afferma l’autrice. “In questo gioco, i partiti europeisti hanno l’impegno di spiegare ai giovani come funzionano le istituzioni, per attirarli verso la democrazia”. PerEuropean Youth Forum, un modo per raggiungere questo obiettivo è una migliore rappresentanza dei giovani nelle istituzioni politiche.

Infelicità e alti livelli di ansia

“I giovani di oggi sono più infelici rispetto alle generazioni precedenti”, a causa della percezione che “i partiti tradizionali non sono riusciti a realizzare i loro obiettivi sulle questioni sociali”, spiega a Euronews Andrea Gerosa, fondatore del think tank Think Young. Questo spiega in parte perché “sono disposti a cercare soluzioni alternative”.

“In tutti gli Stati membri dell’Ue, più di sette su dieci sono preoccupati per il costo della vita; l’82 per cento è preoccupato per la minaccia della povertà e della disuguaglianza, afferma inoltre, citando l’Eurobarometro d’autunno 2022 del Parlamento europeo. Questi dati “spiegano perché i giovani incanalano queste stesse preoccupazioni attraverso alternative di estrema destra”.

Gerosa ritiene che i giovani europei si siano sentiti esclusi dalla pandemia della COVID-19. Vede anche una correlazione tra gli alti livelli di ansia e lo spostamento ideologico a destra.

“In Francia, ad esempio, dove è stata osservata una tendenza significativa verso destra, il 32 per cento dei giovani si dichiara ansioso, con il potere d’acquisto e la salute tra le questioni che li preoccupano maggiormente”. Questo li rende “attratti dai discorsi populisti di cambiamento e dalle promesse di rovesciare lo status quo”.

Campagne sui social media che colpiscono nel segno

“Combinando messaggi di forte impatto con strategie di campagna mirate si può creare una forte base di sostenitori, a prescindere dalle incongruenze fattuali”, spiega Gerosa. La campagna anti-immigrazione e anti-corruzione di Perez su Instagram e Telegram, in cui “la messaggistica ha prevalso sulle informazioni veritiere”, ne è un chiaro esempio.

Ma il partito di estrema destra che meglio ha saputo rivolgersi strategicamente ai giovani, secondo l’esperto, è Alternativa per la Germania.

Etichettato come il partito di TikTok“, ha colpito “i giovani elettori con messaggi facili da capire ed emotivi” e ora “raggiunge su TikTok tanti giovani tedeschi quanti tutti gli altri partiti messi insieme”, afferma Gerosa.

Think Young ritiene che uno dei modi efficaci per sfidare i discorsi estremisti e populisti sia quello di sviluppare programmi per incoraggiare e promuovere il pensiero critico e l’alfabetizzazione digitale tra i giovani.

“L’idea che i giovani europei siano diventati reazionari è forse troppo avanzata al momento. Per ora, è meglio prendere questo dato come un campanello d’allarme che i giovani di tutta Europa credono che i partiti tradizionali non stiano fornendo risposte e soluzioni sufficientemente valide ai loro problemi”.

“Se le principali questioni che interessano i giovani possono essere stabilizzate, non c’è motivo di pensare che i discorsi estremisti saranno il nuovo status quo”, conclude Gerosa.

(Handelsblatt)

Kharkiv rivede la luce «Maggio è stato infernale ma con le armi americane abbiamo fermato i russi» (corriere.it)

Dal nostro inviato a Kharkiv Lorenzo Cremonesi

La svolta quando Biden ha permesso di colpire 
oltre il confine

Iniziamo questo reportage riferendo un’impressione rilevata già nelle prime ore del nostro arrivo in città sei giorni fa e quindi confermata col lavoro sul campo: anche questa volta le armi americane, specie i missili di lunga gittata, hanno impedito massacri e distruzioni maggiori. Ma la svolta è arrivata quando Joe Biden ha permesso che venissero colpite le rampe di lancio e le postazioni in territorio russo.

Qui lo dicono tutti, dal sindaco, alla pattuglia della polizia di fronte a una delle numerose università, ai dipendenti delle aziende bombardate, sino alle mamme che accompagnano i figli allo zoo municipale, dove nella primavera di due anni fa orsi, ippopotami e giraffe parevano destinati a morire di fronte al rullo compressore dei russi attestati nei quartieri settentrionali. «Maggio è stato un inferno, però dai primi di giugno si è tornati a vivere», è il commento più diffuso.

«Non serve essere grandi esperti di cose militari. Un conto è colpire i missili e droni russi quando sono già in aria e stanno planando vicini ai loro obiettivi sul nostro territorio: un’operazione difficile, costosa e soprattutto destinata a successi limitati, visto che i russi tirano contemporaneamente decine di proiettili di vario tipo.

E un altro è invece annientare le basi di lancio e i depositi in Russia. Sono stati sufficienti pochi attacchi con i missili americani per costringere i russi ad allontanarsi dalla linea del fronte. Risultato: a Kharkiv adesso le notti e i giorni sono tornati quasi tranquilli», spiegava due giorni fa Maxim Bilovsov, un ufficiale 37enne dell’intelligence incontrato nel parco vicino al municipio.

Ma la storia di Kharkiv è molto più che bombardamenti e strategie militari. Putin la voleva conquistare sin dai primissimi giorni della guerra. La visitammo a fine marzo 2022 che i suoi quasi due milioni di abitanti erano ridotti a meno di 300 mila disperati, nascosti nel metrò, resi insonni dal fragore dei combattimenti, con i palazzi dei quartieri come Saltivka ridotti ad ammassi di macerie e cornicioni pericolanti.

Ma già nell’ottobre dello stesso anno gli ucraini erano riusciti a ricacciare il nemico oltre il confine internazionale nella zona di Belgorod, che è solo una trentina di chilometri più a nord dell’area urbana. Da allora Kharkiv, pur se ferita, dolente, impoverita, aveva gradualmente ripreso a vivere. Considerata il vero centro culturale e scientifico dell’Ucraina (non a caso i sovietici la vollero capitale per pochi anni dopo la loro presa del potere), i suoi musei, teatri e le università erano rimasti chiusi per motivi di sicurezza.

Lo scorso gennaio era tornata a contare un milione e 300 mila abitanti. La situazione era però di nuovo peggiorata a fine aprile, quando Putin in persona dichiarò di volere mandare le truppe per creare una «zona cuscinetto» proprio di fronte a Kharkiv.

In città è ricomparso l’incubo bombe, che hanno ripreso a cadere anche sulle zone civili, mentre i russi sfondavano la linea del fronte con la prospettiva che in realtà avrebbero cercato di occupare tutto il possibile se gli ucraini non avessero resistito.

«Sono ritornati a echeggiare gli ululati delle sirene, anche venti volte al giorno. La gente è scappata nei rifugi, quasi tutti i miei amici e conoscenti sono sfollati verso Dnipro e Leopoli. Ho preso mia figlia Kira, di 8 anni, e siamo partite in auto. I nostri appartamenti abbandonati sono stati presi da coloro che avevano evacuato i villaggi appena occupati dai russi», racconta Anastasia Sabanova, che ha 28 anni e lavora per un’agenzia immobiliare.

I momenti più gravi sono stati il 19 maggio, quando un missile ha colpito un piccolo centro benessere uccidendo 6 persone. Il 23 maggio tre missili investivano la Factor-Druk, che è la più grande stamperia del Paese. «Sette nostri operai hanno perso la vita e 20 sono feriti», ci dice il 39enne Andrii Kalanchuk, che dirige il reparto più devastato dall’esplosione, mostrando i resti di migliaia di libri carbonizzati. Due giorni dopo tre missili hanno colpito i grandi magazzini della catena Epicenter: 20 morti e oltre 60 feriti.

Quindi, la svolta: da due settimane gli attacchi russi si sono diradati, le sirene suonano ancora, ma quasi sempre non seguono le esplosioni. Anche la distribuzione dell’energia elettrica si è fatta più regolare. Del domani non c’è certezza, ma anche oggi non si sono registrate vittime.

Il sindaco: «Ci servono più aiuti per continuare a difenderci»

KHARKIV «Veniamo da un mese di maggio dominato dalla paura delle bombe russe. I momenti peggiori si sono concentrati su 20 giorni, che hanno contato 76 raid causando enormi distruzioni e decine di vittime civili», ci dice il sindaco Igor Terekhov. Lo incontriamo per la quinta volta dall’inizio della guerra in un sotterraneo ben protetto.

A cosa miravano i russi?

«Incutere terrore, demotivare la resistenza della popolazione. Il momento più grave è stato l’attacco contro i grandi magazzini Epicenter. Era un sabato pomeriggio e per fortuna c’erano solo 120 persone. Ma abbiamo avuto 19 morti e 59 feriti, alcuni molti gravi. In tutta la città nel solo maggio abbiamo contato 39 morti e 239 feriti. Tra le vittime tanti bambini. Alla paura si è aggiunta la mancanza di elettricità, visto che i nemici avevano mirato alle centraline locali. Tuttora l’energia viene razionata, alcuni quartieri sono spesso al buio, altri meno».

Il quadro demografico?

«Abbiamo poco più della metà della popolazione di prima della guerra, che comprendeva decine di migliaia di studenti. Gli attacchi di maggio hanno innescato un nuovo esodo, compensato dall’arrivo di circa 12.000 sfollati dai villaggi nelle regioni nel nostro settore appena occupate dai russi o sotto tiro. Valutiamo di avere al momento circa un milione 300 mila abitanti, tra loro oltre 200 mila arrivati dalle zone occupate, ma il dato resta fluido, la gente scappa a ondate e torna di continuo».

Oggi è meglio di maggio?

«Sì, la situazione è migliorata, anche i raid russi sono nettamente diminuiti ma non sono cessati del tutto, i russi hanno tirato tre missili anche nell’ultima notte, che per fortuna non hanno causato danni. Le sirene riprendono a suonare molto spesso anche in queste ultime ore. Vorrei però aggiungere un’osservazione».

Cioè?

«Il pericolo dei bombardamenti resta molto alto a Kharkiv. Stiamo meglio, ma la situazione è precaria. Il fattore di successo è che adesso abbiamo l’autorizzazione americana a colpire le basi in Russia, specie le rampe dei missili S-300 e S-400, e questo sta salvando la città».

E se non aveste ottenuto la luce verde americana?

«Sarebbe stato catastrofico. Lo ripeto: tutto è cambiato in poche ore da quando i nostri militari hanno potuto colpire le basi sul territorio russo».

Su questo punto l’Europa è divisa. Nei due campi, Francia e Germania concordano con gli Usa, ma non l’Italia. Cosa ne pensa?

«Non intendo commentare le scelte del vostro governo, non è il mio ruolo. Come sindaco vorrei però ricordare che la nostra città in 20 giorni è stata in allarme per 475 ore e 55 minuti. Cosa avreste fatto voi in Italia al posto nostro? Venite a visitare Kharkiv: noi ci stiamo difendendo, necessitiamo del massimo aiuto per farlo e garantire le nostre comunità».

LombarDie: morte di una regione (iltascabile.com)

di

Miserie e malesseri della “regione più ricca 
d’Italia”.

Ogni anno, puntuali, le classifiche. La narrazione è la solita: un luogo dinamico, ricco, desiderabile.

Un’autentica occasione: il mercato del lavoro lombardo è un polo di attrazione a livello nazionale e, negli ultimi decenni, internazionale, stando al Rapporto Lombardia 2023 – pigro e ingrato chi pensa il contrario. A parlare bastano i dati: Milano si riconferma tra le prime dieci nella classifica sulla qualità della vita stilata dal Sole24Ore, la Brianza si distingue per operosità e ricchezza, la regione traina l’economia nazionale rappresentandone il 20% del PIL.

È sufficiente per ignorare i problemi globali che la interessano? Secondo un’intervista rilasciata a Milano Correre da Manfredi Catella, presidente del gruppo immobiliare COIMA, leader nell’investimento, sviluppo e gestione di patrimoni immobiliari per conto di investitori istituzionali, c’è troppo pessimismo: dovremmo gloriarci, anzi, del fatto che la Lombardia è una regione che riesce ad attrarre gli investimenti.

Eppure, a volerle vedere bene, le classifiche, esistono anche ben altri primati. Dimenticarsi “dei deboli, dei fiacchi e dei vinti che levano braccia disperate” (G. Verga, Introduzione al ciclo dei vinti, Treves, 1881) è facile, forse troppo. Da qui la necessità di rivalutare Milano, cuore pulsante dell’illusione, e un’intera regione che fino ai suoi confini risulta ammalata per scongiurare pericolose proiezioni che, noi per primi, speriamo fallaci.

Più che una città, un prodotto di consumo

Milano capitale morale, della finanza, dell’economia, della moda, del design. Nell’immaginario comune la città è l’emblema di quelli che ce l’hanno fatta. Anzi, di più: l’unico luogo plausibile al farcela, soprattutto dopo la campagna Expo 2015 che ha ripulito la città dal caratteristico grigio di nebbia e asfalto per far risaltare ancora meglio la sua attrattività (si veda L. Tozzi, L’invenzione di Milano, Cronopio, 2023).

Campagna che, a quanto pare, ha dato i suoi frutti, tanto che, a dieci anni di distanza, durante la settimana del Salone del Mobile (se n’è parlato su Fanpage), ci si può permettere di triplicare un affitto già caro, consapevoli che ci sarà chi è disposto a pagare.

Ma “Milano non è la verità” – ce l’hanno raccontato gli Afterhours in tempi non sospetti (L’inutilità della puntualità, 1999): è una vetrina che mostra più che fornire, la cui vera missione sembra essere quella di promuoversi incessantemente al solo scopo di scalare le classifiche e confermare quello che, a oggi, sembra un postulato incontrovertibile: l’intramontabile aspirazione a essere cilindro di questo – ingolfato – motore.

“Qui non ho diritto di non essere felice, di non sentirmi vivo nella mediocrità che mi propini” (Afterhours, Milano circonvallazione esterna, 1999): è il sacrificio la cifra di milanesi disposti a tutto, anche a una deliberata omertà, pur di sancire il trionfo del contenitore che li ospita. È questo il luogo della forma, così intoccabile da diventare marchio di fabbrica.

Il sacrificio è la cifra di milanesi disposti a tutto, anche a una deliberata omertà, pur di sancire il trionfo del contenitore che li ospita.

Lo aveva intuito per tempo Bianciardi, esule in questa “città della non vita” (Oreste Del Buono in L. Bianciardi, Aprire il fuoco, Rizzoli, 1976), ne troviamo conferma nella spicciola quotidianità giacché, spogliati della divisa, ci ritroviamo a dover riconoscere un punto non poco dolente: qui – a meno di esser ricchi – si sta male, così tanto, che “avere una data di scadenza è un modo per andare avanti, per cercare di spremere vita in più” (S. Valenti, Cronache della sesta estinzione, Il Saggiatore, 2023).

Vorremmo delle stime precise e successive all’anno 2021, ultima attestazione dei soli suicidi riusciti (di cui alla Lombardia va l’ennesimo – triste – primato) e non di quelli tentati, ma le rilevazioni non vengono più effettuate a livello nazionale.

Sarà un caso, poi, che la regione non partecipi, dal 2017, alle rilevazioni del Passi (nato in risposta all’esigenza di monitorare il raggiungimento degli obiettivi di salute fissati dai piani sanitari nazionali e regionali) che monitorano le condizioni di salute dei cittadini per evitare, temiamo, altre misere medaglie.

Si sta male, quindi, ma meglio non dirlo: la retorica del valore aggiunto lombardo ha sempre la meglio – l’obiettivo è la capitalizzazione di fondi altrui, spesso internazionali, non il benessere della popolazione. Sono tanti i problemi in Lombardia, a partire dalla negazione del diritto a un abitare dignitoso tra avventurose mansarde e camerette condivise.

Comprare casa per lavoratori di reddito medio è un’utopia: l’aumento del costo degli immobili negli ultimi due anni supera di quasi cinque volte quello nazionale. Perfino l’umiliazione di un monolocale che nei suoi quindici metri quadrati non rispetta i requisiti minimi previsti dalla legge (l’articolo 3 del decreto ministeriale del 5 luglio 1975 prevede che la dimensione minima di un’abitazione per una persona non debba essere inferiore a ventotto metri quadri) può essere, a Milano, un’occasione scontata a soli 143 mila euro.

Attenzione, non siamo in Duomo, ma in Città Studi, il quartiere degli studenti, l’ennesimo pronto alla riqualifica in un comune che, tra piani casa inadeguati e di rigenerazione al solo obiettivo di attirare investimenti, può affidarsi prettamente a un’operazione di cosmesi che nasconda le crepe della struttura.

“Siamo nel territorio di un marketing puro” (come scrive sempre Lucia Tozzi) che, scongiurando il divario inammissibile e non capitalizzabile tra “centro” e “periferia”, esalta le peculiarità e le opportunità di ciascun distretto bugiardamente o meglio sfruttando ogni leva pubblicitaria possibile, a partire dal namingNoLo (North of Loreto) è stato il primo nel 2018, nato a emulazione di SOHO perché affermare di vivere a NoLo suona innegabilmente meglio che vivere in viale Padova.

Un’operazione di rebranding di successo che ha generato una tendenza di nomi nati per essere accattivanti – NoCe (North of Cenisio), SouPra (South of Prada), NaPa (Naviglio Pavese), BAM (Biblioteca degli Alberi di Milano) – non tanto per chi ci vive, ma per chi ci deve investire.

Da qui parte la marginalizzazione che relega verso una periferia obbligata chi non è abbastanza reattivo, al fine di fare spazio a quegli ultra-high net worth individual, i super ricchi, per intenderci, che, narcisistici promotori di una Milano da bere, da vivere, da instagrammare consumino il luogo nei suoi momenti ideali senza però incontrare le difficoltà dei residenti.

Questa gente è qui per l’experience, non certo per abitarci. Conferma quest’impressione il The Wealth Report 2024: sono sempre di più quelli che, avendo una disponibilità superiore ai trenta milioni di dollari, decidono di investire su Milano attratti da incentivi formulati ad hoc (nel 2017, anno di introduzione della flat tax con la manovra dal governo Renzi, i ricchi che hanno trasferito la residenza fiscale in Italia sono stati 98 per passare a 549 nel 2020 e 1.339 nel 2021, secondo i dati del Guardian citati nel sopra indicato report di Knight Frank).

Si sta male, quindi, ma meglio non dirlo: la retorica del valore aggiunto lombardo ha sempre la meglio.

Immaginiamo, dunque, per sciagura o per fortuna, di avercela una casa e, in questa città, di doverci vivere: quello che troveremmo oltre la porta potrebbe non essere edificante. Milano abita male e fuma peggio: la polvere, qui, non è di sicuro sotto al tappeto.

Tra le varie classifiche celebranti spunta un secondo posto molto poco pubblicizzabile: pare che ne soffochino parecchi per colpa dell’aria – più di 1.600 a causa del PM 2.5, più di 1.300 attribuibili al biossido di azoto ogni anno e non distribuiti così equamente sul territorio – con una lunga febbre che finisce per contagiare tutto quello che circonda il nucleo dell’organismo: la provincia, quella Milano che non può viversi, se la ritrova nei polmoni.

Sembra quasi che da questa città, a essere lucidi e avere un minimo di istinto di conservazione, si debba solo scappare: è un luogo che “ti educa ad andartene”, come scrive Paolo Cognetti nel numero di The Passenger (Iperborea, 2022) dedicato alla città – e non è detto che una fuga in villette di provincia risolva qualcosa.

Lombardia canaglia: tradire le promesse
Se Milano non ce la si può permettere, bisogna pur raggiungerla: quasi due i milioni di spostamenti tra entrate e uscite dalla città. Una scelta di vita dettata spesso da impossibilità economico-abitative che grava, poi, su tutta la famiglia: i lombardi sono, infatti, pendolari sin da piccoli – il 37% di loro si muove ogni giorno per raggiungere la scuola o l’università. Le strade, ogni mattina, singhiozzano: il 60% di quei due milioni di spostamenti si concretizza in auto – dato che evidenzia, nella pratica, l’inadeguatezza dei trasporti pubblici.

Sono 21 su 38 le linee di Trenord che non rispettano gli standard in un’offerta ferroviaria che non può non dirsi disfunzionale: “nella frustrante attesa di un mezzo sempre disponibile perché tu lo perda, e poi ti tocca aspettare mezz’ora il prossimo, ed è mezz’ora sottratta al sonno” scriveva Bianciardi ne La vita agra (Rizzoli, 1962) – il malessere paventato da Bianciardi il secolo scorso non sembra essere risolto.

Infatti, piuttosto che migliorare linee con infrastrutture a binario singolo – alcune nemmeno elettrificate – si preferisce che il traffico si riversi sull’asfalto. La regione, peraltro, propende per le autostrade, come la Bre.Be.Mi, rivelatasi un clamoroso fallimento a causa delle tariffe elevate, senza considerare che questa, Pedemontana Lombarda e Tangenziale Est Esterna di Milano occupano oltre mille ettari di suoli in precedenza agricoli, secondo Pendolaria 2023.

Le conseguenze sul territorio non si fermano qui: secondo le stime aggiornate al 2021 dell’Agenzia Europea dell’Ambiente in Lombardia si sono registrate, in dieci anni, centomila morti premature solo per effetto del PM 2.5 sopra i limiti più cautelativi dettati dall’OMS. Il rischio, quindi, tra reiterati scioperi, frequenti soppressioni e inquinamento, è di perderci, se non il lavoro, di sicuro la salute.

Quando non ce la si fa più a sacrificare ore vitali in un abitacolo o avviluppati tra gente che “ti preme ti urta ti tocca” e magari “ti blocca” (E. Pagliarani, La ragazza Carla, Mondadori, 1962) semplicemente si abbandona, risvegliandosi da un’illusione tossica che ottenebra menti e desideri.

Di casi, più o meno emblematici, ne spuntano continuamente: pensiamo a quel “tutti vanno via” che un tranviere di Viterbo, dimessosi dall’azienda di trasporti milanese ATM, ha espresso a Fanpage. Simone Domenici, il protagonista di questa fuga, si è allontanato dalla famiglia nella promessa di un sogno di riscatto, per ritrovarsi tra le mani solo un tetto di provincia e cento chilometri al giorno per il tragitto casa-lavoro.

L’insostenibile pesantezza di questo territorio porta in situazioni come queste, sempre più frequenti, a vedere come liberatoria la fine di quella che, a conti fatti, sembra più una dipendenza che un contratto: “una lettera di licenziamento è una liberazione, perché ti annulla definitivamente e ti lascia libero di reincarnarti altrove”, scrive Demetrio Marra in Riproduzioni in scala (Interno poesia, 2019).

Se Milano non ce la si può permettere, bisogna pur raggiungerla: quasi due i milioni di spostamenti tra entrate e uscite dalla città.

Altrove, dunque, ma a una condizione ben precisa: scegliere di lavorare fuori Milano equivale quasi sempre a demansionarsi. Il “lavoro di pensiero” pare prerogativa di questa città, perché fuori il tessuto industriale richiede un’azione per lo più meccanica tra ingranaggi di un sistema che all’efficienza e all’innovazione preferisce batterie di più spensieratamente gestibili e sostituibili dipendenti dal contratto breve.

La tanto celebrata meritocrazia è dimenticata all’interno di un settore secondario sì da podio, ma senza la capacità, se non di anticipare i tempi, almeno di rimanere al passo: non c’è traccia della rivoluzione 4.0 della cyber-fisica, né pienamente di quella robotica del 3.0.

Il tutto con una gratificazione ingannevolmente remunerativa: vivere costa caro – siamo nella regione dalle maggiori spese a metro quadro e della vita – e lavorare paga poco: comparando il PIL pro capite a quello di altre corrispettive europee, la realtà trainante l’economia nazionale crolla al quarantacinquesimo posto. Nessuna sorpresa nel vedere quindi esplodere la richiesta di aiuti alimentari (secondi solo alla Sicilia) e il sovraindebitamento di persone costrette a erodere i risparmi familiari.

Impossibile pensare che case di fortuna, vite sui mezzi e lavori interinali possano generare gentilezze a casaccio e atti di bellezza privi di senso: in questi luoghi, infatti, risulta molto difficile parlare di comunità – intesa come gruppo di persone solidali e volte a aiutare il prossimo – mentre molto più esatto è il riferirsi a una community che fruisce di prodotti e servizi entro un’ottica prettamente individualistica, quando non diventa essa stessa un prodotto.

Frutto di mancanze, questo, e non certo di una cattiveria autoctona: non sono mai abbastanza le scuole accessibili, in Lombardia, poche, secondo il rapporto annuale Istat 2023, anche le organizzazioni no profit in un contesto che di umanità avrebbe bisogno e che questa umanità se la vede negata sin dai banchi e dalle sedie: i rapporti umani sono per lo più valorizzati in base alle occasioni economiche offerte, il networking primeggia sull’amicizia.

California, here we come!

Utopistico pensare a una Lombardia che, con questi presupposti, si attesti nel futuro, prendendo in considerazione, in aggiunta, l’inverno demografico e l’invecchiamento della popolazione. Le previsioni Istat indicano che, proseguendo il trend attuale, tra meno di cinquant’anni la popolazione lombarda diminuirà del dieci percento circa rendendo insostenibili economia, welfare e situazione ambientale.

Pensando alla narrativa, viene in mente la rappresentazione distopica degli anti-eroi di Turazzi in Prima della rivolta (Nottetempo, 2023): “se ne stanno tutti lì a sorseggiare i loro negroni mentre in pianura si schiatta” e quella deflagrata che Argentina tratteggia in molte delle sue opere.

Vivere costa caro e lavorare paga poco: comparando il PIL pro capite a quello di altre corrispettive europee, la realtà trainante l’economia nazionale crolla al quarantacinquesimo posto.

Potrebbe aiutarci a analizzare ciò che sarà il modello di una California simile dal punto di vista dei disagi da affrontare, ma differente nei tentativi della loro risoluzione. Da un lato, la realtà americana, infatti, ammette la propria fallibilità (embracing failure, lanciato a San Francisco nel 2009, è diventato un evento che si ripete ogni anno) e è pronta a riconoscere come nodali fatti qui colpevolmente ignorati (si pensi alla solitudine proclamata, per la prima volta nel 2024, emergenza sanitaria), dall’altro risponde puntando su un’innovazione che si sta rivelando salvifica.

Al contrario, la Lombardia, impreparata al problema, dimentica le galline del domani preferendo uova che consentano la mera sussistenza odierna: sul totale degli investimenti, quelli a contenuto innovativo sono una piccola parte, metà rispetto alla Germania e meno che in Francia. Se la pensassimo come una gara a lungo termine potremmo dire che, mentre gli altri corrono, noi saremmo a malapena alla camminata veloce, troppo impegnati a usare il fiato utile per una retorica che può nascondere, ma non risolvere, i problemi.

Come il Saturno di Goya sembra che queste terre vogliano sopravvivere al solo prezzo del sacrificio dei propri figli e all’avvicendarsi di corpi estranei attratti da un solo presunto riscatto sociale“i vincitori d’oggi […] avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani” (G. Verga, Introduzione al ciclo dei vinti, Treves, 1881).

Vista da lontano e con occhio lucido questa Lombardia – senza più un futuro commercializzabile – somiglia sempre di più alla Los Angeles di Mike Davis raccontata in City of Quartz (Verso, 2018), stagliandosi contro l’orizzonte come una discarica di sogni su cui aleggia il fumo di “un’innominata catastrofe, come diceva Joan Didion in Slouching towards Bethlehem (Farrar, Straus and Giroux, 1968).

(Milano, Seconda metà dell’Ottocento– 1884-1889 Cesare Beruto)