A Reggio Calabria si vive meno che a Bologna, ma il dato di Schlein è impreciso (pagellapolitica.it)

di CARLO CANEPA

SALUTE

Nelle regioni e nelle province meridionali la speranza di vita è minore rispetto al resto del Paese, ma il divario è più ridotto dei cinque anni indicati dalla segretaria del PD

Il 18 giugno, durante una manifestazione organizzata in Piazza dei Santi Apostoli a Roma, la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein ha criticato la riforma costituzionale del premierato, approvata lo stesso giorno dal Senato, e il disegno di legge sull’autonomia differenziata, approvata definitivamente dalla Camera nella notte del 19 giugno.

Secondo Schlein, la legge che stabilisce le nuove regole per dare più poteri alle regioni su singole materie rischiano di creare nuove disuguaglianze territoriali tra i cittadini, per esempio nell’accesso alle cure sanitarie. «Noi non accettiamo che un bambino nato a Reggio Calabria abbia un’aspettativa di vita di 5 anni in meno di un bambino nato a Bologna», ha dichiarato (min. 2:58) la segretaria del PD dal palco della manifestazione.

Senza entrare nel dibattito sui pro e sui contro della nuova legge sull’autonomia differenziata, la statistica citata da Schlein è corretta o no? Abbiamo verificato.

A fine marzo Istat ha pubblicato i dati più aggiornati sugli indicatori demografici in Italia. Tra questi c’è la “speranza di vita alla nascita”, chiamata anche “aspettativa di vita”, che indica «il numero medio di anni che una persona può contare di vivere dalla nascita nell’ipotesi in cui, nel corso della propria esistenza, fosse sottoposta ai rischi di mortalità per età che hanno caratterizzato l’anno di osservazione».

Secondo Istat, nel 2023 la speranza di vita degli uomini in Italia era pari a 81,1 anni, mentre quella delle donne a 85,2 anni. Come mostra il grafico, negli ultimi cinquant’anni la speranza di vita è costantemente aumentata, salvo rare eccezioni.

La più notevole è quella del 2020, dove la pandemia di Covid-19 ha fatto scendere l’aspettativa di vita in Italia. Nel 2023 l’indicatore degli uomini è tornato ai livelli precedenti alla pandemia, mentre quello delle donne resta ancora di poco inferiore.

I dati Istat non mostrano solo differenze nel tempo tra la speranza di vita degli uomini e quella delle donne, ma anche le differenze tra i territori. Nel 2023 la speranza di vita nel nostro Paese era in media pari a 83,1 anni, considerando sia gli uomini sia le donne, ma se nelle regioni del Nord questo dato era pari a 83,6 anni e in quelle del Centro a 83,5 anni, nel Mezzogiorno – considerando le regioni del Sud, la Sicilia e la Sardegna – era pari invece a 82,1 anni, un anno più basso rispetto alla media nazionale. In parole semplici, i nati l’anno scorso nel Meridione hanno un’aspettativa di vita circa un anno e mezzo più bassa rispetto a quelli nati nel Nord o al Centro.

Queste differenze non ci sono sempre state: come mostra il grafico, cinquant’anni fa la speranza di vita era più bassa al Nord rispetto al Mezzogiorno, mentre la più alta era quella nelle regioni del Centro. Con il passare del tempo, questo indicatore è cresciuto di più nelle regioni settentrionali, che prima hanno superato le regioni meridionali, poi negli anni Duemila hanno raggiunto e sorpassato quelle centrali.

Differenze ancora più marcate si registrano a livello regionale. Nel 2023 la regione con la speranza di vita più alta era il Trentino-Alto Adige (84,3 anni), seguita da Lombardia (83,9 anni) e Veneto (83,8 anni). In fondo alla classifica c’erano – dal terzultimo all’ultimo posto – la Calabria (82 anni), la Sicilia (81,8 anni) e la Campania (81,4 anni).
Dunque tra la speranza di vita della prima regione in classifica e quella dell’ultima, ossia tra il Trentino-Alto Adige e la Campania, c’è un divario di 2,9 anni, considerando sia gli uomini sia le donne. Nel rapporto pubblicato a marzo, la stessa Istat ha sottolineato che questo divario «non accenna affatto a diminuire ma semmai a crescere», dato che nel 2003 era pari a 2,2 anni e nel 2013 a 2,7 anni.

I divari nella speranza di vita si ampliano ancora se dalle regioni si passa alle province. La provincia di Firenze è quella che in tutta Italia ha la speranza di vita più alta (84,7 anni), seguita dalla provincia di Rimini e dalla provincia di Monza e Brianza (entrambe 84,6 anni). Negli ultimi tre posti ci sono la provincia di Enna (81,4 anni), la provincia di Napoli (81,2 anni) e la provincia di Caserta (81,1).

Tra la prima e l’ultima in classifica c’è un divario di 3,6 anni. E tra le province di Reggio Calabria e Bologna, le due città citate da Schlein? Nel 2023 la provincia di Reggio Calabria aveva una speranza di vita pari a 82,1 anni, quella di Bologna pari a 83,9. La differenza era quindi pari a 1,8 anni, e non a «cinque anni» come invece ha dichiarato la segretaria del Partito Democratico.

Anche considerando solo gli uomini, che come abbiamo visto vivono di meno rispetto alle donne, tra nessuna provincia c’è un divario nella speranza di vita pari a cinque anni. Tra la prima in classifica, Firenze, e l’ultima, Caserta, la differenza nella speranza di vita tra gli uomini è pari a 3,8 anni (82,8 contro 79).

La differenza tra quella della provincia di Bologna e quella della provincia di Reggio Calabria è pari a 2,2 anni (82,2 contro 80). La provincia di Prato è quella in cui le donne hanno la speranza di vita più alta (86,7 anni), mentre la provincia Napoli ha quella più bassa (83,2 anni).

Anche in questo caso la differenza è pari a 3,5 anni e inferiore a «cinque anni».

Satnam Singh non è il solo (doppiozero.com)

di Marzia Coronati

I dettagli di cronaca sono agghiaccianti e 
tristemente veri. 

Ho sperato che i resoconti riportati dai media peccassero di eccesso sensazionalistico e ho chiamato il sociologo Marco Omizzolo, che in quelle zone vive e che da oltre venti anni si occupa di migrazioni e caporalato.

Purtroppo ha confermato ogni dettaglio, oltre ad aggiungerne altri terrificanti. Lunedì 17 giugno Satnam Singh, il suo braccio amputato adagiato in una cassetta per la frutta e sua moglie sono stati scaricati davanti a casa dai loro datori di lavoro. Poche ore prima Singh, un uomo bracciante di origine indiana, era stato colpito da un macchinario trainato da un trattore, che aveva tranciato il suo braccio destro e schiacciato entrambe le gambe.

Invece di chiamare i soccorsi, i responsabili dell’azienda agricola si sono limitati a farli salire su un furgone e a riaccompagnarli a casa, a Borgo Santa Maria. Solo grazie all’intervento dei vicini, l’uomo è stato portato in un ospedale di Roma, dove ha subito numerose operazioni, dall’esito infausto. Così Satnam Singh, 31 anni, è morto mercoledì 19 giugno. Lui e la moglie erano arrivati dall’India tre anni fa con un decreto flussi, e da allora lavoravano nei campi dell’Agro Pontino, rigorosamente in nero.

Ora, l’invito che faccio è quello di fermarci. Non proseguire a leggere notizie di cronaca, politica, sport. Di sospendere qualsiasi giudizio e di riflettere su questa vicenda almeno per i prossimi sessanta minuti. Propongo di fare un passo indietro – forse anche più di uno – e di provare ad attivare un meccanismo di conoscenza e coscienza più profondo.

Prima cruciale considerazione: la morte di Satnam Singh non è una vicenda di cronaca isolata. Associazioni e sindacati in passato hanno documentato decine di casi di braccianti bastonati, colpiti da mazze da baseball perché chiedevano di indossare la mascherina nel periodo di Covid, morti sotto il sole sfiancati dalla fatica, gettati nei fiumi della bonifica. Le denunce sono tante e vanno avanti da molti anni.

È così che approdiamo alla seconda cruciale considerazione: la presenza della comunità indiana nell’Agro Pontino risale a oltre quaranta anni fa, lo sanno tutti coloro che hanno attraversato quelle zone almeno una volta: dagli anni ’80 si incrociano uomini in turbante che raggiungono i campi con le loro biciclette, li si vede lavorare chini sulla terra in qualsiasi ora del giorno. Il fenomeno dunque è di lunga data: come è possibile che i passi avanti a livello istituzionale siano così timidi e inefficaci?

Oggi la comunità indiana residente nell’Agro Pontino conta circa trentamila unità, oltre la metà è ancora impiegata nelle campagne (tra i quindici e i diciottomila) e più di un terzo lavora in condizioni di sfruttamento: in nero o con un contratto che ha il valore della carta straccia. Una storia di migrazione lunga quaranta anni dovrebbe registrare evoluzioni, eppure le seconde e le terze generazioni di questa comunità faticano ad affrancarsi dal destino di genitori e nonni. Quando non si libera tempo e non si accumula denaro, non ci sono opportunità.

Il 18 aprile 2016 è il giorno del primo e più grande sciopero dei braccianti di origine indiana. Oltre quattromila persone incrociano le braccia, denunciando i comportamenti illegali di padroni, sfruttatori e caporali. La comunità inizia a parlare, centinaia di denunce vengono sporte, si chiede un miglioramento del servizio dei permessi di soggiorno, una nuova organizzazione del sistema del lavoro, tutele e diritti.

Nei mesi successivi i primi frutti di questa lotta si raccolgono, il risultato più importante è l’introduzione del reato di caporalato, che prevede sanzioni gravi per chi sfrutta la mano d’opera. Oggi, a giugno 2024, dobbiamo constatare che questo è evidentemente un percorso ancora in fieri, una battaglia su cui dobbiamo ancora spenderci tutti, un quadro nel quale non ci sono ancora diritti acquisiti. Già, perché ora, otto anni dopo quel primo sciopero, siamo di fronte a un datore di lavoro,

Antonello Lovato, che reagisce alla morte di Singh e alle accuse di mancato soccorso con un’alzata di spalle: “gli avevamo detto di stare attento”. Capiremo nelle prossime settimane se sarà valida la sua motivazione, ora la Procura dovrà indagare sui reati di caporalato, omicidio colposo, omissione di soccorso e anche sull’eventuale sussistenza del reato di tortura e di altre violazioni dei diritti umani fondamentali, mentre organizzazioni e sindacati già si stanno spendendo affinché la moglie di Singh ottenga un permesso di soggiorno.

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Ora, in questo esercizio di riflessione, sediamoci virtualmente su una balla di fieno di quelle terre di bonifica e dipaniamo la matassa del tempo. Il filo di lana ci porta oltre mille chilometri più a sud, a Tunisi. Un tempo lì c’era un quartiere, si chiamava Piccola Sicilia, tra il porto e l’avenue Bourguiba. Oggi è una zona residenziale, di palazzi e grattacieli, ma un tempo era il cuore pulsante della comunità italiana in Tunisia.

Gli italiani vivevano principalmente lì e a la Goulette, una cittadina costiera a sette minuti di macchina dalla capitale. A metà del secolo scorso nella nazione nordafricana si contavano quasi centomila persone di origine italiana, prevalentemente siciliani.

Erano arrivate tra l’800 e il ‘900, viaggiando su navi o a bordo di piccole imbarcazioni, facevano i braccianti, i pastai, i pescatori, gli artigiani, i manovali, scrivevano su quotidiani in lingua italiana che si chiamavano il Corriere di Tunisi, L’italiano di Tunisi… c’era anche U Simpaticuni, un giornalino scritto in una miscela di italiano, francese, arabo.

Chi è testimone di questo capitolo della storia migratoria ricorda quel tempo come un periodo pacifico, segnato da un grande rispetto reciproco, un esempio di convivenza serena, seppure spesso reso complesso dalle difficoltà economiche e dalle relazioni ambigue con i colonizzatori francesi. Se andate oggi a La Goulette potrete vedere una targa, è dedicata a Claudia Cardinale, nata e cresciuta in Tunisia, un mito per quegli italo-tunisini.

Su un muro della cittadina c’è anche una sua gigantografia, Claudia è giovane, bella, sorridente, guarda dritto davanti a sé, verso la Madonna di Trapani, quella statua che ancora oggi, ogni 15 agosto, viene portata in giro per le strade. Tutto cambierà dopo il 20 marzo 1956, giorno dell’indipendenza tunisina dalla Francia. Il primo presidente si chiama Habib Bourguiba.

La sua giovane repubblica emana una legge sulla mano d’opera e impone di sostituire i manovali europei con quelli locali, un’altra legge sulla nazionalizzazione delle terre agricole porta il governo tunisino a espropriare le proprietà degli stranieri.

I migranti italiani, privati di risorse, iniziano un viaggio a ritroso, affrontano duri e lunghi viaggi via mare e tornano in Italia, per loro “un paese straniero”. In una testimonianza del tempo, redatta da un profugo italiano nel corso della traversata del Mediterraneo, si legge questa frase: “adesso non siamo né qua né là. Stiamo navigando nel nulla, stiamo attraversando il deserto”.

Sono migliaia, nell’Italia degli anni ’60, ad essere smistati qua e là, nei luoghi dove i progetti di trasformazione territoriale postbellica sono più avviati. Oltre la metà di loro – dopo un precario periodo nei campi profughi di Napoli, di Fraschette di Alatri, di Frosinone – si insedia nell’Agro Pontino, nel basso Lazio. Eccoci di nuovo sulla balla di fieno.

Lì dove quarant’anni prima, a partire dal 1924, era iniziata una imponente opera di bonifica, che nel corso di oltre dieci anni aveva visto impiegati cinquantamila operai provenienti da ogni parte del mondo, è in quelle stesse terre che si insediano a fatica i “nuovi cittadini”. Ricominciano da capo, riacquistano proprietà agricole, ricostruiscono vite. Della presenza italiana, a Tunisi e a La Goulette rimangono le parole, impastate con il siciliano e con l’arabo, “scuba” (il gioco di carte), le “tiriglia”, gli “sgombri”, le “orata”.

Ci sono storici che la definiscono “la lasagna della nonna”. Una metafora simpatica per spiegare la stratificazione di culture e società che costituisce la realtà attuale di un territorio.

Ecco: le prime sfoglie della lasagna dell’Agro Pontino, gli ultimi cento anni, sono composte dal sacrificio di bonificatori veneti e friulani ingaggiati dalla Bonificazione Pontina e dalla Bonifica di Littoria negli anni ‘20, dallo spaesamento di siciliani cacciati dalla Tunisia degli anni ‘60, dalla forza delle braccia indiane iniziate ad arrivare negli anni ’80. Se questa misticanza si sapesse raccontare, se si tirasse il filo di lana delle storie e se si potesse condividerle con la gente, qualcosa certamente accadrebbe.

Penso a un testo che ho letto proprio in questi giorni, è un’intervista realizzata dallo storico Sandro Portelli qualche anno fa a un investigatore privato di San Francisco, si chiama Joe Barthel e il suo lavoro è facilitare in sede di processo la difesa delle persone più fragili, indigenti, povere, emarginate.

Per mesi Barthel intervista parenti, amici, conoscenti degli uomini e delle donne che è chiamato ad assistere, cammina lungo le strade che attraversano, condivide il loro quotidiano, ricostruisce con precisione e pazienza gli alberi genealogici, le biografie, le vicende legate all’infanzia. Dice Barthel: “i racconti di vita ci possono aiutare a salvare e riformare le comunità, perché il racconto crea un senso di condivisione, la condivisione genera un senso di storia comune, e un senso di storia comune – sia pure una storia contestata – crea la possibilità di una comunità”.

La fortuna di non essere direttori di giornale e dover dare certe notizie (ilfoglio.it)

di ADRIANO SOFRI

PICCOLA POSTA

La storia del bracciante indiano trentenne che è rimasto impigliato in un macchinario che gli ha strappato un braccio, il cui “datore di lavoro” ha buttato via il braccio e ha piantato lui e sua moglie in strada.

Ho tenerezza per tutti i morti, diceva un francese

Sono fortunato a non dirigere un giornale o un telegiornale. Per esempio ieri. Aprire sulle decine di naviganti bambini e no annegati o soffocati nella stiva – o buttati a mare dalle autorità greche preposte? Aprire sui quattro suicidi in due giorni nelle carceri italiane, e sull’astuto ripristino della pena di morte?

Aprire sulla morte del generale Graziano, che in un titolo di Repubblica avrebbe lasciato un biglietto: “Il mondo va in pezzi dentro sento un vuoto”, ma non è vero, benché sia molto verosimile?

Aprire sul bracciante indiano trentenne il cui vestito è rimasto impigliato in un macchinario che gli ha strappato un braccio, il cui “datore di lavoro” ha buttato via il braccio e ha piantato lui e sua moglie in strada, anonimi tutti, quando leggo, datore di lavoro e datore di braccio e giovane moglie in nero?

La livella… Ho tenerezza per tutti i morti, diceva un francese, tipo romantico. Anch’io, in certi giorni. Quanto ai vivi, fate voi.

Una leggerezza (corriere.it)

di Massimo Gramellini

Il caffè

Quando ho sentito Renzo Lovato, titolare dell’azienda agricola presso cui sfacchinava Satnam Singh, affermare al Tg1 che a provocarne la morte era stata una sua leggerezza — sua del bracciante indiano, che si sarebbe avvicinato troppo al macchinario che gli ha amputato un arto — mi sono ritrovato a parlare da solo con il televisore.

«Una sua leggerezza costata cara a tutti? Sta scherzando, vero? Intanto finora è costata cara solo a lui, che ci ha rimesso la vita. Ma soprattutto lei fa finta di non capire il motivo per cui questa storia è finita sulle prime pagine. Ci è finita perché suo figlio Antonello è accusato di non avere voluto portare il bracciante in ospedale, di avere tolto i telefoni agli altri lavoratori affinché a nessuno venisse la bizzarra idea di chiamare i soccorsi, e di essersi convinto solo dopo molte insistenze a scaricare quel pover’uomo, ormai più morto che vivo, davanti all’uscio di casa sua.

E non è stata certo “na leggerezza”, quella del padrone (non mi viene un’altra parola con cui definirlo). Se suo figlio ha agito così, è perché portare il signor Singh in ospedale significava far affiorare del lavoro nero, il segreto di Pulcinella su cui si regge una parte cospicua della nostra economia.

Tra salvare una vita ed evitarsi una rogna, ha preferito evitarsi una rogna. Segno che per lui quella vita doveva valere ben poco. A giudicare dal tono della sua intervista, temo che non valesse molto neanche per lei».