Molti meno deputati ma spese in aumento (italiaoggi.it)

di Franco Adriano

Italia

Qualcuno, rispetto al dibattito che si è aperto sul Bilancio della Camera, dovrebbe spiegare perché l’avanzo di gestione, che supera i 350 milioni di euro, ossia più di un terzo del complessivo, si è tramutato in un fondo di riserva.

A che serve garantire un flusso di risorse di questa entità? Una cifra enorme per un bilancio di erogazione com’è quello della Camera. Tanto serve, tanto il Tesoro concede. Il resto dovrebbe essere restituito alla collettività. Tanto più che il messaggio passato nell’opinione pubblica è di tutt’altro tenore, ossia che nonostante il taglio degli onorevoli la spesa resta tale e quale o forse più. Naturalmente è tutta colpa loro.

I poveretti, già messi alla stanga a convertire decreti senza fiatare, sembrano ormai incapaci di reagire alle ingiurie. Forse che ora guadagnano il doppio di prima e nottetempo hanno reintrodotto il vitalizio? Non è proprio così. Mentre ci sono spese ben superiori a quelle dei vitalizi, come quelle per le pensioni degli ex dipendenti, per esempio.

V’è poi il caso del concomitante rifiuto del Consiglio di giurisdizione della Camera sui ricorsi degli ex deputati in materia di tagli ai vitalizi, sulla base del principio costituzionale dei diritti acquisiti, che dovrebbe stare a cuore a tutti. In pochi si sono accorti che quando in nome della spending review per la prima volta vennero toccati gli stipendi d’oro dei dipendenti del Palazzo, furono sufficienti pochi mesi per recuperare lo statu quo, in nome dell’autodichia (giurisdizione domestica) e nel silenzio generale.

Un’altra prova che ormai ciò che vale per la casta permanente stipendiale non vale per gli eletti del popolo. Nemmeno quando sono loro a decidere. Poteva essere l’occasione di dimostrare a tutti di saper toccare ancora palla.

Invece sì è scelta la strada della fedeltà ai leader che in solitudine si tengono stretto il potere di decidere chi tornerà in parlamento e chi no (avendolo tolto agli elettori).

Chef Rubio deve rimuovere i suoi post contro gli ebrei, “incitamento all’odio, pregiudizio antisemita”: 500 euro per ogni giorno online (ilriformista.it)

L'ordinanza dei giudici

Gabriele Rubini, alias Chef Rubio, dovrà rimuovere alcuni post dai suoi canali social perché ritenuti offensivi nei confronti della comunità ebraica.

L’ordinanza è arrivata oggi, in cui il Tribunale Civile di Roma ha disposto “in via cautelare la rimozione e il divieto di pubblicazione di messaggi diffusi sui social media” da Rubio. A renderlo noto è stata l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

L’ordinanza contro Chef Rubio, deve eliminare post contro gli ebrei

L’ordinanza interviene in un procedimento d’urgenza, promosso proprio dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.  “Il Tribunale, in particolare, ha ritenuto in via di urgenza che i messaggi di recente diffusi sui canali social dal signor Rubini costituiscano ‘dichiarazioni idonee a diffondere il pregiudizio antisemita, che ledono nel loro complesso la dignità e la reputazione della comunità ebraica e come tali sono diffamatorie’, risolvendosi in “incitamento all’odio (‘hate speech’), in quanto diretti intenzionalmente a spingere all’intolleranza verso singoli, persone e gruppi offendendone la dignità, tanto da costituire un pericolo per la loro sicurezza”.

Le sanzioni per Chef Rubio

Nell’ordinanza viene quindi ordinato “al resistente Gabriele Rubini alla rifusione delle spese di lite in favore dei ricorrenti che liquida complessivamente in 5150,00 euro, accessori come di legge”.

Ma prima “fissa la somma di euro 500,00 ex art. 614 bis cpc per ogni giorno di ritardo nell’ottemperanza di questa ordinanza a decorrere dal giorno successivo alla comunicazione del presente provvedimento; inibisce al resistente Gabriele Rubini l’ulteriore diffusione dei contenuti del medesimo tenore di quelli oggetto di rimozione; fissa la somma di euro 500,00 ex art. 614 bis cpc per ogni violazione dell’inibitoria di cui al punto precedente successiva alla comunicazione del presente provvedimento”.

Il commento di Ucei

“Si tratta di una importante riaffermazione dei principi di civile convivenza, e del rispetto della dignità altrui, tanto più rilevante nel quadro di intolleranza e di dilagante antisemitismo, di cui drammaticamente, ogni giorno, si ha conferma. La giurisdizione e lo Stato di diritto devono continuare a essere i punti di riferimento per il presidio di quei principi.

Resta confermato il principio che Ucei è legittimata ad agire a tutela dei diritti e degli interessi dell’ebraismo italiano e delle sue realtà comunitarie in forza delle competenze istituzionali affidate alla sua cura”, si legge nella nota dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane.

I fatti e i post di accusa di Chef Rubio

Era metà maggio quando Chef Rubio ha pubblicato alcune foto dicendo di essere stato massacrato di botte da “terroristi“. Da “ebrei sionisti” che “mi hanno aspettato fuori casa” (vicino Roma). Poi altri dettagli. Erano “in sei”, arrivando a tagliare “i fili del cancello per massacrarmi”. Una denuncia social, con tanto di video con il volto insanguinato, lanciata da Chef Rubio, cuoco e attivista Pro Palestina.

Sbatti il meme in prima pagina: il ministero dell’Interno è diventato una fabbrica di capri espiatori (valigiablu.it)

di 

Scorrendo i feed del ministero dell’Interno 
su Facebook, 

così come il profilo dello stesso ministro, Matteo Piantedosi, su X/Twitter o Instagram, si può avvertire una sensazione alquanto disturbante.

il ministro dell'interno Matteo Piantedosi in visita ufficiale a Gorizia

I rispettivi feed, infatti, tra foto del ministro che stringe mani e sfoggio di statistiche sempre positive, sono ormai una fabbrica di meme i cui contenuti andrebbero bene per pagine alla Tutti i crimini degli immigrati, o Io amo il mio poliziotto.

Più del dialogo con i cittadini, più del mostrare il proprio operato, la comunicazione istituzionale di Piantedosi è centrata sul mostrare un mondo di legge e ordine mantenuto grazie alle forze dell’ordine, sempre pronte ad arrestare criminali, che sono tali ben prima dei doverosi tre gradi di giudizio.

Una tendenza che discende direttamente da un suo predecessore, Matteo Salvini, con cui Piantedosi ha un rapporto di contiguità, avendo servito nel suo ministero come capo di gabinetto e avendo collaborato ai decreti sicurezza.

Anche se dal curriculum potrebbe quindi sembrare un ministro più tecnico di Salvini, tanto la prassi comunicativa quanto i provvedimenti presi mostrano come in realtà Piantedosi sia soprattutto un’evoluzione del Salvini ministro dell’Interno, una normalizzazione degli aspetti più eccezionali e problematici. Qui ci occuperemo in particolare delle peculiarità comunicative.

Salvini ministro dell’Interno: dacci oggi il nostro nemico quotidiano

La comunicazione di Salvini da ministro si caratterizzava all’epoca per una gestione molto politicizzata della carica, più da leader di partito che da ministro, il cui operato dovrebbe essere al servizio di tutti gli italiani, non solo una parte.

Da ministro dell’Interno, invece, Salvini non si limita a sbandierare i risultati ottenuti in chiave autopromozionale, ma soprattutto per attaccare continuamente bersagli politici: intellettuali, scrittori, giornalisti, manifestanti. Uno stillicidio quotidiano, che passa attraverso i profili del politico, non da quelli del ministero, che per esempio su Twitter è ancora legato alle comunicazioni di servizio.

In questa strategia di propaganda continua, ciò che è istituzionale diventa politico e ciò che è politico diventa istituzionale, e tutte e due le sfere sono piegate alla logica “noi vs loro”: “loro” sono gli stranieri, i “clandestini”, i “centri sociali”, le persone LGBTQIA+, e così via, contro cui si aizza il proprio seguito, spesso ricorrendo a messaggi passivo-aggressivi (i “bacini”).

Non è il messaggio in sé che deve essere aggressivo o incitare: basta rafforzare attraverso i post su Facebook, o su Twitter dei messaggi che sono stati disseminati in modo più esplicito negli anni, da Salvini stesso o dalla sua area politica.

Questo conflitto tra ruolo politico come leader di un partito di estrema destra e ruolo istituzionale è evidente in casi in cui il messaggio cozza con i poteri del ministro. Ad esempio quando Salvini attacca giornalisti sotto scorta. Come ministro dell’Interno tra le proprie responsabilità ha anche la tutela dei cittadini sotto scorta.

Così quando nel maggio 2019, in un video a ridosso del positivo risultato alle europee, manda “un bacione a Saviano”, annunciando contestualmente che rivedrà i criteri delle scorte, il Consiglio d’Europa classifica il messaggio come “intimidazione attribuibile allo Stato”.

Nel dicembre 2018, invece, Salvini è entrato in conflitto con il procuratore capo di Torino, Armando Spataro, per via di un tweet dove si complimentava con le forze dell’ordine per l’arresto di “mafiosi nigeriani”.

Per Spataro, infatti, il tweet è arrivato a indagini ancora in corso, col rischio quindi di comprometterle. Spataro ha anche dovuto rettificare l’allora ministro dell’Interno: “la polizia giudiziaria non ha fermato ’15 mafiosi nigeriani’, ma sta eseguendo un’ordinanza di custodia cautelare”.

Un altro problema riguarda proprio la tendenza di Salvini a usare i propri i privilegi come scudo per insultare e delegittimare, poiché come nel caso dei “mafiosi nigeriani” si ha un ministro dell’Interno che attribuisce dei reati o delle condotte penalmente rilevanti a persone che non sono state condannate, ancora prima che inizi qualunque processo.

Qualcosa che quindi cozza frontalmente con lo Stato di diritto, in nome dell’engagement. Ricordiamo infine uno dei casi più emblematici, le parole rivolte a Carola Rackete, definita “fuorilegge”, “pirata”, “criminale”. Non solo l’ex comandante della Sea Watch non ha mai subito condanne che rendano giustificabili a qualunque livello questi epiteti, ma Salvini stesso, dopo essere stato denunciato da Rackete per diffamazione, è stato soccorso dal Senato, che ha votato contro l’autorizzazione a procedere.

Dopo una stagione di così elevata conflittualità, il fatto che nel governo Conte II e Draghi ci fosse una ministra dell’Interno senza profili social, Luciana Lamorgese, venne evidenziato come una netta cesura, la fine di una sbornia comunicativa che non era certo utile per i cittadini, anzi.

Matteo Piantedosi: il ministero dei meme

La comunicazione di Piantedosi conosce due importanti una novità: nel febbraio 2023 è creata la Pagina Facebook Viminale – Ministero dell’Interno, andando quindi a presidiare una piattaforma tra le più diffuse in Italia.

La seconda novità è che i contenuti diventano più omogenei tra pagine istituzionali e i profili di Piantedosi stesso, in particolare da dopo l’estate 2023. Questo punto va evidenziato, per un motivo molto semplice: gli staff di comunicazione, i ministri e gli indirizzi politici vanno e vengono, ma le istituzioni e il loro ruolo rimangono.

Dall’estate 2023, sulla pagina del ministro si cerca di veicolare una comunicazione più immediata, non più incentrata sulla classica foto accompagnata a una descrizione. Compaiono quindi le classiche card, immagini accompagnate da un testo pensate per essere virali. In teoria potrebbe rappresentare un modo per sintetizzare comunicati e note normalmente reperibili sul sito del ministero dell’Interno.

Naturalmente anche questa comunicazione di tipo istituzionale segue degli indirizzi strategici (la scelta di comunicare i rimpatri, per esempio, o i tipi di reati perseguiti evidenziati).

Ma il formato card tende a eliminare ogni possibile inferenza, rendendo centrale l’enfasi, ossia quell’elemento retorica teso ad evidenziare accentuando, a scapito delle informazioni e del contesto. In questi casi l’enfasi non lavora solo sulla sintassi, ma su elementi come grafica, colore e dimensioni del testo.

In questo caso, nella gerarchia delle informazioni, a essere enfatizzata è l’azione compiuta: “smantellata una rete di spaccio” (infliggendo, si legge sotto, “duri colpi alle organizzazioni criminali”).

Guardando quindi alla cronaca locale del periodo, si deduce che la card si riferisca a un’operazione antidroga nell’ambito della quale, riporta il Resto del Carlino, sono stati arrestati “21 cittadini nordafricani (18 marocchini e 3 tunisini)” [il grassetto è nell’originale, NdA].

Nella didascalia della card, invece, si leggono su Facebook le parole del ministro Piantedosi: “Un’azione portata avanti senza inutili annunci, con la professionalità e l’abnegazione con cui lavorano i nostri operatori di polizia per garantire sicurezza e legalità nelle zone cittadine più esposte ai fenomeni criminali. La conferma dell’assoluto impegno del Governo per dare risposte concrete ai nostri cittadini”.

Sempre a luglio, un’altra card annuncia stavolta il sequestro di un peschereccio contenente “5,2 tonnellate di cocaina”. Anche qui l’enfasi è posta sul colpo inflitto dalle forze dell’ordine al traffico di stupefacenti, con tanto di foto dei finanzieri di fronte al carico sequestrato. Anche qui è stato inferto “un duro colpo” alla criminalità organizzata.

In questa cornice enfatica non esistono quelle procedure attraverso cui si attesta la colpevolezza e quindi la pertinenza di certi termini (“criminalità organizzata” presuppone la violazione di specifici articoli del codice penale, per esempio).

Poliziotti, finanzieri e lo stesso ministro non sono perciò funzionari dello Stato, ma sono forze del bene impegnate a garantire l’ordine e la legge contro chi la minaccia. Non esistono gradi di giudizio, non esistono avvocati, ricorsi: in una parola, diritti.

Questo è vero su un piano quantitativo, per cui il numero di arresti è una sorta di certificato di buon operato. Ma anche su un piano qualitativo, secondo una gerarchia che vede enfatizzata ove possibile tratti specifici delle persone contro cui le forze dell’ordine hanno agito.

Qui, per l’appunto, i reati evidenziati (“furto e spaccio”) non importa che siano stati commessi o siano solo  contestati: l’arresto ha un valore morale, basta a definire i nemici della legge e dell’ordine. Ha invece importanza distinguere tra italiani e non, dando le cifre esatte (4 e 3). In altri casi abbiamo solo il numero: vorrà forse dire che erano tutti italiani?

Diventa facile intuire dunque quali sono i cattivi di elezione: gli stranieri. Abbiamo dunque “pakistani arrestati” per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, e solo in un secondo ordine di informazione si viene a sapere che sono accusati. Naturalmente il cattivo per eccellenza non è solo straniero, ma extracomunitario. Meglio ancora se musulmano ed estremista.

La didascalia dell’immagine così recita: “Espulso un 38enne tunisino, radicalizzato e in contatto con soggetti vicini all’autoproclamato Stato Islamico. Dopo essere stato trattenuto presso il CPR, è stato rimpatriato nel suo Paese d’origine”.

Qui non è nemmeno importante la nazionalità, sono infatti enfatizzati quattro tratti: “pericoloso”, “estremista”, “islamico”, “rimpatriato”. L’ultima parola è in pratica il lieto fine che ci racconta di pericoli sventati grazie al rimpatrio.

A novembre viene invece espulso un “23enne marocchino” che, si legge nella card, “voleva vendicare le morti nel conflitto israelo-palestinese”. Una frase che suscita immagini di attentati, rischio di stragi e antisemitismo; forse di armi ed esplosivi ritrovati in qualche nascondiglio.

Tuttavia la stessa didascalia sembra sgonfiare di molto queste immagini, e cercando la notizia nel periodo si arriva a telegrafici lanci di agenzia. L’uomo è stato “espulso dal Prefetto di Alessandria per motivi di pericolosità sociale”, ma si legge poi:

Negli ultimi giorni, lo straniero era stato denunciato per i reati di offesa a una confessione religiosa, rompendo tre crocifissi, e resistenza a pubblico ufficiale. Inoltre, nel corso dell’identificazione in Questura, aveva minacciato gli operatori di polizia e la popolazione cristiana affermando di voler vendicare le morti nel conflitto israelo-palestinese.

Insomma, non siamo in presenza di una comunicazione istituzionale, per quanto semplificata, ma di una vera e propria pedagogia morale, che deve celebrare il trionfo dei custodi dell’ordine. I quali, quando colpiscono, sono infallibili, fosse anche contro dei minori.

Che si tratti di una pedagogia morale, e quindi di un’ideologia, lo si capisce per contrasto, quando a parlare sono le reticenze. Non troveremo mai la card che dice “Corruzione. Arrestato presidente di Regione”, per esempio, poiché i reati evidenziati seguono una direttrice di classe o razzializzata. Roba che riguarda il popolo, nel bene o nel male, o quelli che vengono da fuori.

Ma un caso che riguarda le scelte linguistiche più che i silenzi sui profili social è la recente aggressione subita dal giornalista della Stampa Andrea Joly, accerchiato, rincorso e pestato a Torino mentre filmava una festa organizzata dal movimento CasaPound in un circolo di estrema destra. Per l’aggressione, riporta la stessa Stampa sono stati identificati quattro degli aggressori legati a Casapound.

Un caso molto grave, in un periodo in cui i rapporti tra i partiti di governo e neofascismo sono sotto i riflettori dopo l’inchiesta di Gioventù meloniana di Fanpage. Senza contare come siano finiti sotto i riflettori anche i comportamenti delle forze dell’ordine verso i giornalisti, con episodi di fermi e perquisizioni.

Come ha parlato del caso il ministro Piantedosi? Attraverso il suo profilo X, per una volta senza card.

Piantedosi per l’occasione spolvera un misto di iper-garantismo e lessico burocratico, quel linguaggio inflazionato di locuzioni e tecnicismi il cui principale effetto è di allontanare le parole dai significati, dalle cose concrete. Il focus è sulla Questura.

Nessuna menzione per il giornalista aggredito, nessuna menzione del diritto di informazione, nessun attestato di solidarietà: al suo posto troviamo una lunga e articolata perifrasi, che tratta l’aggressione squadrista immortalata da diversi video come semplice “violenza” (da condannare a prescindere dalla “matrice”) con “finalità discriminatorie”. Resta da capire se Joly e i giornalisti in generale siano considerati “soggetti fragili”, o che svolgono “particolari e fondamentali funzioni”, o tutte e due le cose.

Le questioni politiche che potrebbero stare sul tavolo, come lo scioglimento di CasaPound o la chiusura del circolo Asso di Bastoni (“cuore della Torino nera”), o il diritto dei giornalisti a svolgere il proprio lavoro in sicurezza, così come la sicurezza di quei cittadini che hanno provato a fermare l’aggressione, non sono nemmeno lontanamente prese in considerazione.

Per capire bene il senso della comunicazione istituzionale del ministero dell’Interno, bisogna perciò setacciare silenzi e omissioni, muovendosi il più lontano possibile dall’enfasi o dai giri di parole, o tra le sue pieghe. L’importante è non stare sintonizzati su questa ondata “retequattrista”, per usare un’azzeccata intuizione linguistica del giornalista Sergio Scandura, che ben sintetizza la deriva politica che stiamo vivendo.

(Immagine anteprima via ministero dell’Interno)

La sinistra italiana ignora l’euforia democratica per Kamala (e si sa perché) (linkiesta.it)

di

Fattore K

Il partito di Schlein non sembra partecipare all’entusiasmo che circonda i dem americani. Forse è colpa di quell’ala radicale che si professa anticapitalista e non sostiene la causa ucraina

Il fattore K per ora sta scivolando sulla sinistra italiana come l’acqua sulla pietra. Sarà colpa del caldo torrido. Il Partito democratico si dà da fare sul referendum sull’autonomia differenziata e organizza le Feste dell’Unità dove si respira un clima nuovo, moderatamente ottimista.

Elly Schlein ha catturato Giuseppe Conte nella sua rete e attirato nella medesima rete Matteo Renzi. Non male. Ma del fattore K – che non è il kommunism ma Kamala Harris – nessuna traccia. L’entusiasmo che improvvisamente si è riacceso tra i democratici americani non ha minimamente contagiato i democratici italiani.

Non risultano agli atti riflessioni particolari o discussioni sulla Grande Novità Americana che può spegnere l’interruttore trumpiano che fino a venti giorni fa brillava sul mondo.

Nel provincialismo del dibattito italiano fa più rumore la polemica procedurale (congresso sì o no?) dentro Italia Viva che non una riflessione aggiornata a quanto sta avvenendo negli Stati Uniti, e forse Matteo Renzi avrebbe più voglia di parlare di questo, e magari anche Luigi Marattin e Carlo Calenda.

Ecco uno spunto per un bel dibattito estivo per i leader dell’opposizione. Anche gli scritti più impegnati, come quello di Michele Salvati pubblicato ieri dal Foglio, non considerano il fattore K come potenzialmente determinante per il futuro del progressismo mondiale.

In una riunione che si è tenuta a Fiano Romano di amici di Goffredo Bettini, quest’ultimo ha posto l’esigenza di dar vita a «un’area di pensiero» (ovviamente da non chiamare «corrente») della sinistra interna del Partito democratico «larga, popolare, innovativa e con solide radici. Intrecciata alle domande che giungono dal mondo cattolico e cristiano», di cui non è difficile immaginare l’afflato “pacifista” declinato in senso anticapitalista e antiatlantista.

Dalle parti della sinistra del Partito democratico questo è un orientamento abbastanza radicato. Confina con il “pacifismo” di Conte e del Fatto, che nella vittoria di Donald Trump vede la premessa per riportare la “pace” in Ucraina (svendendola, s’intende).

Qualche tempo fa gli iscritti di un circolo del Partito democratico a Roma rimasero esterrefatti davanti a un intervento violentemente anti-Zelensky pronunciato dal presidente della Fondazione Gramsci, il professor Giuseppe Vacca, negli anni molto vicino a Massimo D’Alema. Joe Biden non era amato da tutti, tra i dem nostrani.

Evidentemente nemmeno Harris. D’altra parte, con la bella eccezione della iniziativa di Lia Quartapelle e Filippo Sensi, “benedetta” da Paolo Gentiloni (l’instant book “La Quarta Via – Il Changed Labour”), nemmeno sulla vittoria di Keir Starmer il Partito democratico ha prodotto chissà che.

Per non parlare della sinistra radicale o di un giornale come il Manifesto, pronti a diffidare dei successi, reali o potenziali, dei riformisti. Il quotidiano comunista anzi ha molto lavorato per sminuire la forza della vittoria dei laburisti.

Eppure Elly Schlein è culturalmente “americana”, ma forse più della sinistra liberal (venne accostata ad Alexandria Ocasio-Cortez più che a Harris), ovviamente ha salutato subito la scesa in campo della vice di Biden, ed è vero che manderà Peppe Provenzano alla Convention di Chicago ad agosto. Ma forse poteva andare lei: avrebbero potuto incontrarsi, le due leader.

È ovvio che Schlein ha tutto da guadagnare dalla rimonta, e non parliamo poi di una vittoria, di Kamala. Perché allora questa non diciamo freddezza ma scarsa attenzione a un fenomeno che davvero può cambiare il mondo? È probabile che la sconfitta di Donald Trump non venga ritenuta possibile, quindi meglio non sbracciarsi a fare il tifo.

Metti però che vince, allora tutti “kamaliani”. Ma per ora il “fattore K” è acqua fresca.

(Colin Lloyd)

Quali sono i pericoli dell’autonomia differenziata (lavoce.info)

di  e 

Con l’autonomia differenziata non diminuiranno 
le risorse per il Sud. 

Preoccupa invece la mancanza di criteri per l’attribuzione delle materie. E il fatto che in futuro a decidere sui finanziamenti sia una commissione paritetica tra governo e singola regione.

Le critiche alla legge Calderoli

Nell’ultima settimana abbiamo assistito a un vivace confronto tra maggioranza e opposizione sulla legge approvata recentemente sull’autonomia differenziata, la n. 86/2024.

L’opposizione si è già mobilitata per un referendum abrogativo. Le motivazioni e preoccupazioni sembrano riguardare essenzialmente la possibilità che una parte maggiore di risorse rispetto a quella attuale vada alle regioni del Nord: visto che la legge impone assenza di aggravio per le finanze pubbliche, ciò implicherebbe che diminuiscano i fondi per le regioni del Sud.

Un’ attenta analisi della legge, tuttavia esclude questa possibilità, a meno che non si contempli la possibilità che il governo nella fase attuativa non rispetti i vincoli imposti dalla stessa legge. Se lo facesse, sarebbe ben grave. Casomai, andrebbe sottolineata la difficoltà pratica di attuare la nuova distribuzione di risorse che la legge richiede, basata su costi e fabbisogni standard per i vari servizi (conseguenti all’attuazione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni).

Ma i problemi veri della legge sull’autonomia differenziata sono in realtà altri, di cui poco si discute. Vediamo i due principali.

Le commissioni paritetiche

Un primo tema riguarda la previsione, contenuta nella legge, di commissioni paritetiche bilaterali che ogni anno, e ciascuna in modo indipendente dall’altra, definiscono in una contrattazione tra stato e la singola regione la compartecipazione ai tributi erariali che dovrebbe garantire il finanziamento delle funzioni delegate alla regione stessa.

Poiché ogni regione può chiedere un insieme diverso di funzioni su diverse o sulle stesse materie, la potenziale complessità del sistema che ne risulta è enorme.

Per esempio, nel caso in cui si convenga su un aumento del fabbisogno per una particolare funzione attribuita a una particolare regione, questo dovrà essere riflesso nelle risorse da destinare a tutte le altre regioni, dato il vincolo dell’invarianza finanziaria e dovrà tenere conto anche del vincolo di bilancio nazionale.

Come può funzionare un sistema simile con potenzialmente 15 diverse commissioni paritetiche su 15 insiemi differenziati di funzioni su diverse materie? E in realtà, 21, perché da un punto di vista logico si dovrebbero considerare nella partita anche le cinque regioni a statuto speciale (con il Trentino-Alto Adige diviso nelle due province autonome di Trento e Bolzano).

Le regioni a statuto speciale hanno funzioni tutte diverse e anche un sistema di finanziamento diverso (le compartecipazioni sono ad aliquota fissa, benché anch’esse partecipino al consolidamento delle finanze pubbliche), ma anch’esse dovranno rispettare i Lep, una volta che questi siano definiti. Come minimo, parrebbe necessaria una struttura nazionale che coordini il funzionamento di tutte le commissioni paritetiche e monitori la situazione finanziaria di tutte le regioni d’Italia.

Inoltre, come decidono queste commissioni paritetiche? La legge non lo specifica. Ma è rischioso, perché si può ben immaginare che una regione che veda le entrate dalle proprie compartecipazioni superare la spesa per le funzioni devolute resista all’ipotesi di restituirle allo stato, come in teoria dovrebbe fare sulla base della legge. Chi decide in questo caso, lo stato o la regione?

Le materie da affidare alle regioni

Il secondo tema, forse ancora più importante, riguarda l’opportunità di decentrare funzioni nelle ventitré materie potenziali.

La teoria economica suggerisce che una politica dovrebbe essere decentrata quando 1) influisce solo localmente e non crea esternalità su altri territori limitrofi 2) le preferenze dei cittadini residenti sono simili all’interno dei diversi territori, mentre differiscono da un territorio all’altro e infine 3) quando non produce economie di scala, tali da generare importanti risparmi di costo nel caso in cui le decisioni vengano prese a livello nazionale.

Ora, anche un rapido sguardo alle materie potenzialmente «decentrabili» dopo la quantificazione dei Lep, che dovrebbe avvenire nei prossimi due anni, suggerisce che ce ne siamo molte che non soddisfano questi criteri e che dovrebbero essere decise a livello nazionale, se non addirittura europeo.

Si pensi ad esempio alla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. È chiaro che non si può pensare a una normativa per l’ambiente che sia valida solo all’interno dei confini regionali, se si vuole che sia efficace. Vi sono poi altre materie come porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, che hanno tutte pesanti ricadute sul territorio nazionale.

Vale soprattutto quando, per la fornitura di un servizio, è necessaria una rete che si estende su tutto il territorio nazionale. In questo caso spezzettare la responsabilità della rete nelle varie regioni potrebbe portare a una gestione meno efficiente di quella garantita da un decisore nazionale.

Ma anche tra le nove materie su cui si è deciso che non sono necessari i Lep e su cui le regioni possono quindi già inviare le loro richieste (come già hanno annunciato di voler fare subito Veneto, Piemonte e Lombardia), ce ne sono molte che suscitano perplessità.

Per esempio, il trasferimento del potere di regolamentazione nel commercio con l’estero, tutela e sicurezza del lavoro, previdenza complementare e integrativa, banche di interesse regionale. In un paese con un tessuto economico territorialmente integrato, un’impresa che operi a livello nazionale, magari con diverse succursali nelle varie regioni, si potrebbe trovare ad affrontare situazioni con diversi accordi commerciali con l’estero a seconda della regione ove opera o a differenti normative sulla sicurezza del lavoro e di previdenza complementare.

Ciò creerebbe confusione e difficoltà nel raggiungere equilibrate decisioni di investimento. Si potrebbe inoltre innescare un processo di competizione tra regioni, che spinga per esempio alcune ad abbassare gli standard sulla sicurezza sul lavoro o a proporre regolamentazioni più convenienti per attrarre investimenti.

Per non parlare degli istituti di credito, dove addirittura dal momento dell’entrata in vigore del nuovo Titolo V la regolamentazione è in buona parte transitata a livello europeo; non avrebbe molto senso trasferirla a livello regionale. E si potrebbe continuare a lungo.

Il problema è che la legge non contempla alcun criterio per decidere se ha senso o meno delegare una particolare funzione alle regioni; tutto è demandato alla contrattazione politica tra gli esecutivi, con il Parlamento che si limita ad approvare le intese raggiunte.

Il rischio che si decentri troppo e male è dunque molto serio.

Il sindaco Tarzan ma il G8 no (corriere.it)

di Marco Marozzi

Il sindaco di Bologna è il barone di Greystoke. 

Ovvero un Tarzan che si fa «civilizzare» ma poi si accorge che ha perso la sua «cultura».

Matteo Lepore sa cosa significano per la Scuola di Francoforte (e molti altri, da Mann a Nietzsche) Kultur und Zivilisation. Theodor Adorno ha tentato di spiegare il rapporto fra spontaneità e apprendimento, natura e società: faccenda complessa, che da Rousseau in poi ha combinato bei grattacapi. Lepore-Greystoke ha cercato un connubio fra i due valori, difficili da affrontare filosoficamente, figurati amministrativamente.

Di fronte ai Tarzan antagonisti che si apponevano al progetto per le nuove scuole Besta, prima ha difeso una visione tecnologico-modernista, zivilisation alla bolognese: poi ha deciso di salire (metaforicamente) anche lui sugli alberi dove si erano asserragliati i suoi contestatori, kultur metropolitana-glocal. Ha abbandonato l’idea di abbattere e ricostruire, ha spiazzato gli stessi avversari tramutandosi in un barone di Greystoke, Tarzan colto o almeno acculturato che si immerge nella natura.

La sintesi è brutale, sarebbe stato bello che dai rami gli antagonisti avessero declamato Il Barone rampante, a cui Lepore rispondeva con Il Visconte dimezzato. Calvino a cose fatte meriterà una statua: figlio di botanici, ribelle aggraziato. Preleporiano, rampante dimezzato. L’opposizione tuona contro i soldi «buttati via», e si rivolge all’Unione europea. «Solo gli stupidi non cambiano idea» è il nuovo mantra di Lepore.

Il suo dietrofront rappresenta una nuova cultura amministrativa: parlare (volare) alto per spiazzare tutti quanti. Diversa dai Re Tentenna che l’hanno preceduto. «Una protesta eterodiretta per far male a Bologna» ha detto a proposito della contestazione.
«Si rischiava un G8 e Bologna non lo merita». Evocazione apocalittica. Nel 2001 al G8 di Genova ci furono scontri con migliaia di partecipanti, una città a ferro e fuoco, plotoni di polizia e carabinieri, provocazioni, premeditazioni (di Stato comprese), pestaggi. Un morto, Carlo Giuliani. E «protesta eterodiretta» che significa? I Tarzan dei collettivi sociali bolognesi copiano dai Black Block, 23 anni dopo, quando Genova fu annunciata e preparata da antagonisti che ora hanno fra i 40 e i 50 anni? Besta è come una riunione dei capi delle otto nazioni «più sviluppate»?
Forse era più storicamente corrispondente se Lepore avesse ricordato la rivolta bolognese dell’11 marzo 1977 con le molotov, l’uccisione di Lorusso, «Bologna rossa di vergogna» di studenti e agit-prop. E anche in questo caso la drammatizzazione è enorme.
Offensiva per tutti i coinvolti. Gli scontri alle Besta, i contusi, la «battaglia» che si annunciava in caso di sgombero non potevano prevedere una Bologna sconvolta. Nel caso stava a chi di dovere impedire ogni tragedia. Lepore è sicuramente cosciente che ha creato un precedente, se non indicato una linea di manovra.
La protesta, almeno minacciosa, paga? La giunta, il Pd, appendici come Coalizione civica cercano di inglobare, neutralizzare i centri sociali con fondi, sedi, attenzione, iniziative. Successe anche nel ’77 con quelli che Berlinguer aveva bollato come «untorelli».
Lezione da studiare nei suoi metodi, in questi tempi pur cambiati. I cantieri piacciono solo a chi ci lavora, contestarli è diffuso dovunque. Dalla Tav alle tangenziali cittadine. Che cosa succederà se la rivolta imparerà dalle Besta?
La mediazione è un compito da giganti. Occorre spiegare, moderare, non offendere né arrabbiati né pacifici. «La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone. La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione» cantava Gaber. Partecipazione di quanti? E come? Studiare, studiare, studiare.
La presunzione della gioventù è bellissima, ma è Kultur und Zivilisation .
(Foto LaPresse)