Non è vero che solo il 10 per cento dei migranti ha diritto all’accoglienza (pagellapolitica.it)

di CARLO CANEPA

Secondo il ministro Piantedosi, il 90 per cento 
delle persone che chiede protezione in Italia e 
in Europa non ne ha diritto.
I numeri dicono che non è così
Il 27 giugno, in un’intervista con La Stampa, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha difeso l’accordo siglato tra il governo italiano e il governo albanese per costruire in Albania strutture dove esaminare le richieste d’asilo di una parte dei migranti diretti verso l’Italia.
Secondo Piantedosi, i costi di questo progetto vanno rapportati ai suoi benefici, in particolare alla riduzione delle risorse spese dall’Italia e dall’«intera Europa» a «beneficio di persone che poi, al 90 per cento circa, si riveleranno non averne diritto».
Come già successo l’anno scorso, il ministro dell’Interno sottostima il numero di persone che ricevono una forma di protezione dopo essere arrivate nel nostro Paese o in un Paese dell’Unione europea.

I dati sull’accoglienza nell’Ue

Secondo i dati di Eurostat, nel 2023 il 52,8 per cento delle domande d’asilo presentate per la prima volta in tutti e 27 gli Stati membri dell’Ue ha ricevuto una risposta positiva. Questa percentuale era pari al 48,8 per cento nel 2022 e al 38,2 per cento nel 2021. Detto altrimenti, più della metà delle richieste d’asilo esaminate nel 2023 nell’Ue ha ricevuto come risposta la concessione di una tra le tre forme di protezione che possono essere concesse ai richiedenti d’asilo (Grafico 1).
Grafico 1. La distribuzione delle risposte alle domande d’asilo esaminate nel 2023 nell’Unione europea – Fonte: Eurostat

(Grafico 1. La distribuzione delle risposte alle domande d’asilo esaminate nel 2023 nell’Unione europea – Fonte: Eurostat)

Al 22,4 per cento dei richiedenti è stato riconosciuto lo status di rifugiato, una forma di protezione internazionale riconosciuta se c’è il timore che un migrante, ritornando nel suo Paese d’origine, possa essere perseguitato per vari motivi, tra cui quelli di religione, nazionalità o appartenenza a un determinato gruppo sociale. Al 19,2 per cento è stata riconosciuta la protezione sussidiaria.

Questa è la seconda forma di protezione internazionale che può essere concessa ai migranti che, sebbene non abbiano i requisiti per essere riconosciuti come rifugiati, correrebbero un rischio a tornare nel proprio Paese di origine. Infine, all’11,2 per cento dei richiedenti è stata riconosciuta la protezione per motivi umanitari, che ha regole diverse nei vari Stati europei (alcuni di questi non concedono questa forma di protezione).

Eurostat fornisce anche i dati sull’esito dei ricorsi fatti dai richiedenti asilo che hanno visto respinta la loro prima domanda di protezione. Nel 2023 circa il 27 per cento dei ricorsi a livello di Unione europea ha ricevuto un esito positivo [1].

Si potrebbe obiettare che la percentuale del «90 per cento» citata da Piantedosi è scorretta se calcolata sulle risposte delle richieste d’asilo in tutta l’Ue ed è invece corretta per l’Italia. I dati di Eurostat smentiscono però questa ipotesi. Nel 2023 il 46,3 per cento delle richieste d’asilo presentate per la prima volta nel nostro Paese ha ricevuto una risposta positiva, quindi poco meno di una su due. Il 10,4 per cento dei richiedenti ha ricevuto lo status di rifugiato e il 13,8 per cento la protezione sussidiaria, mentre al 22,2 per cento è stata concessa la protezione per motivi umanitari.

L’accordo con l’Albania

Si può fare un’altra obiezione, visto che la dichiarazione di Piantedosi è poco chiara: la percentuale del «90 per cento» citata dal ministro dell’Interno potrebbe fare riferimento alla percentuale di risposte negative ricevute dai migranti provenienti solo da alcuni Paesi. L’intesa siglata dal governo italiano con quello albanese, infatti, prevede che le strutture costruite in Albania, dove saranno esaminate le richieste d’asilo presentate da una parte dei migranti diretti verso l’Italia, saranno equiparate alle zone di frontiera italiane. In queste zone può essere svolta una procedura accelerata delle domande di protezione internazionale dei migranti che provengono dai Paesi considerati “sicuri” dall’Italia.

La lista più aggiornata di questi Paesi comprende: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Camerun, Capo Verde, Colombia, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia.

Nel 2023 la percentuale di richieste d’asilo presentate da persone provenienti da questi Paesi che hanno ricevuto una risposta positiva nei 27 Paesi Ue è più bassa del 52,8 per cento visto sopra, ma non raggiunge comunque il 10 per cento, come lasciato intendere da Piantedosi.

Vediamo alcuni esempi, partendo dal caso della Tunisiasecondo Paese tra le nazionalità dei migranti sbarcati in Italia nel 2023 [2]. L’anno scorso il 17 per cento delle domande d’asilo presentate per la prima volta da cittadini tunisini nell’Ue ha ricevuto una risposta positiva. Questa percentuale sale al 27,8 per cento per i migranti provenienti dal Camerun, al 29,4 per cento per quelli della Costa d’Avorio, al 21,4 per cento per quelli del Senegal e al 22,1 per cento per quelli della Nigeria. Percentuali più basse sono invece registrate tra i richiedenti asilo provenienti dall’Egitto (12,1 per cento) e dal Bangladesh (12,9 per cento).

La resistenza degli ulivi palestinesi (rivistastudio.com)

Il libro Anchors In The Landscape di Adam Broomberg 
e Rafael Gonzalez, edito da MACK, è un viaggio tra 
ciò che rimane degli ulivi centenari e millenari 
nei territori occupati.

L’ulivo è più di un albero, per l’identità palestinese. È un totem culturale, oltre che una fondamentale fonte di resilienza economica per un territorio che, dal 1967, è sotto l’occupazione israeliana.

Sono più di centomila le famiglie palestinesi che dipendono economicamente da questi alberi, che in molti casi sono antichi di secoli, e non solo di anni. Essendo così importanti, sono purtroppo anche vittime della brutalità dell’occupazione: si stima che, dal 1967, circa 800 mila ulivi siano stati distrutti dalle forze israeliane e dai coloni.

Il libro Anchors In The Landscape è il risultato di viaggio fatto nel corso di diciotto mesi dai fotografi Adam Broomberg e Rafael Gonzalez nei Territori occupati di Palestina, con cui ci si riferisce alla Cisgiordania, Gerusalemme Est inclusa, e la Striscia di Gaza.

Ancore nel paesaggio, dice il titolo: alcuni di questi alberi hanno migliaia di anni, e sono cresciuti in quella terra, quindi, da prima ancora che nascesse l’impero ottomano, per dirne una. Impressionante, pensarci, e immaginarli come testimoni di tutta questa quantità di storia.

Testimoni non come le chiese, le moschee, i palazzi e i muri, però: testimoni vivi, con radici che si sono nutrite – e si nutrono ancora ora – del sottosuolo di quella terra, di quell’ossigeno e di quella pioggia. Le fotografie sono in bianco e nero, al centro dell’immagine c’è l’albero, sullo sfondo dipende: a volte un palazzo, a volte una moschea, a volte il profilo brullo e arso di una collina, talvolta la compagnia di altri ulivi.

Il libro è uscito per l’editore inglese MACK a maggio 2024, tempismo – tragicamente – perfetto in un anno in cui l’offensiva israeliana a Gaza si è fatta sempre più violenta, causando – mentre scriviamo queste righe – circa 35 mila morti, interi quartieri rasi al suolo, e quasi 80 mila feriti.

Durante la cosiddetta guerra di Gaza, iniziata – lo diciamo per tracciare dei confini convenzionali e storiografici – con la strage del 7 ottobre compiuta da Hamas e proseguita, dal giorno dopo, con la ritorsione israeliana e poi l’invasione di Gaza, sono stati commessi diversi crimini di guerra.

Diversi esperti della Corte penale internazionale e delle Nazioni Unite hanno citato la strage di Hamas e poi l’evacuazione forzata della popolazione di Gaza nord, l’assedio completo della Striscia in cui sono stati tagliati acqua, elettricità, cibo e carburante.

Intanto, la violenza continua anche in Cisgiordania: solo nel mese di aprile i villaggi di al-Mughayyir, Duma, Deir Dibwan, Beitin e Aqraba sono stati assaliti da centinaia di coloni, che hanno bruciato abitazioni, automobili e anche alberi. Almeno quattro cittadini palestinesi sono stati uccisi, racconta Amnesty International.

Il loquace Sangiuliano (corriere.it)

di Massimo Gramellini

Il caffè

La differenza tra Sangiuliano e Socrate è che uno diceva «so una cosa sola, di non sapere nulla» mentre l’altro è talmente convinto di sapere tutto che spinge il suo sfoggio di erudizione fino a un punto in cui cominci a sospettare che davvero non sappia niente.

La sua ultima lectio magistralis riguarda Colombo (l’ammiraglio, credo, non il tenente) che voleva raggiungere le Indie circumnavigando la Terra. Nessuno avrebbe fiatato, se il ministro non avesse sentito l’esigenza di aggiungere che Colombo si era ispirato alle teorie di Galileo, nato 72 anni dopo lo sbarco delle caravelle. Peccato, perché Sangiuliano parte sempre bene.

Ricordate?

«Quando uno pensa a Parigi, pensa all’Arco di Trionfo». Chiunque non sia comunista e in malafede riconoscerà che la frase era pertinente. Se fosse finita lì. Purtroppo, non finì lì: «E quando uno pensa a Londra, pensa a Times Square».

Stessa solfa al premio Strega: «Le storie dei libri finalisti fanno riflettere». Un po’ vago, ma perfettamente intonato al contesto. Ancora una volta sarebbe bastato fermarsi. E invece lo sventurato aggiunse: «Proverò a leggerli».

Da dove nasce questo bisogno di infilare sempre qualche sdrucciolevole postilla? Forse da un complesso di inferiorità che lo porta a strafare. Sangiuliano non si rivolge a noi comuni mortali, ma agli intellettuali di sinistra da cui vorrebbe tanto essere apprezzato.

Però quelli sono ancora più furbi di lui. Parlano complicato: così, quando non sanno qualcosa, nessuno se ne accorge.

Bibbiano, la frase shock dei carabinieri al minore: «Altolà, sei in galera!» (ildubbio.news)

di Simona Musco

ANGELI E DEMONI

Durante le indagini, i carabinieri hanno accolto il piccolo A. con una battuta inappropriata. Il padre, ancora oggi, non vede i figli: anche per i nuovi servizi il ricongiungimento è da evitare

«Altolà, sei in galera!». È così che i due carabinieri che hanno guidato le indagini sui presunti affidi illeciti in val d’Enza hanno accolto il piccolo A. il giorno in cui si è recato nell’ufficio della consulente della procura, la psicologa Rita Rossi, per essere preparato all’incontro con gli inquirenti. Una battuta detta ridendo, ma rivolta ad un bambino, in quel momento impegnato nella non facile esperienza di doversi confrontare con magistrati e carabinieri, pur essendo solo un adolescente.

Un bambino che, inoltre, suo malgrado aveva già sentito parlare del carcere, per via delle vicende personali del padre. La circostanza è stata scoperta da Oliviero Mazza e Rossella Ognibene, difensori di Federica Anghinolfi, ex responsabile dei servizi sociali della val d’Enza.

E si sente nell’audio registrato quel giorno, che inizia ben prima della parte dedicata all’incontro con la psicologa. Rossi, rispondendo alle domande di Ognibene, ha affermato di non essere presente nel momento in cui tale frase è stata pronunciata. Ma l’audio che la psicologa ha allegato alla propria consulenza è chiaro: nel momento in cui i carabinieri entrano in stanza, Rossi si trovava proprio lì.

LE SOMMARIE INFORMAZIONI DI A.

Ma non si tratta dell’unico documento multimediale che il Tribunale dovrà valutare: agli atti c’è anche il video della sit di A. – che il Dubbio ha avuto modo di visionare -, nel quale il ragazzo viene sottoposto ad un’ora di domande dagli inquirenti. A. ha al suo fianco, a sinistra, il maresciallo Giuseppe Milano, principale investigatore del caso Bibbiano, e a destra la psicologa Rossi. Di fronte ad A., non inquadrata dall’obiettivo, la pm Valentina Salvi.

Le domande rivolte al ragazzo mirano a sapere cose precise: è stata la dottoressa Nadia Bolognini – uno degli psicoterapeuti imputati nel caso Angeli e Demoni – a dirgli che il padre aveva abusato di lui? Era stata lei a dirgli che era in galera? Era stata lei a descriverlo come un mostro? E lo aveva ipnotizzato, con quella che è stata impropriamente definita la “macchinetta dei ricordi”? A. ha le idee chiarissime: la risposta a queste domande è sempre no. Anche perché è stato lui a raccontare dei presunti abusi commessi dal padre alla madre e solo dopo, sulla base di quel racconto e dopo la denuncia, è finito in terapia.

E A. scopre del padre in carcere nello stesso momento in cui lo scopre Bolognini, come si evince da un’intercettazione chiesta e ottenuta dalla procura, in cui la donna dice davanti al bambino che l’ex marito «per quel che so io, adesso è in carcere» in Calabria. Eppure per la procura sarebbe stata Bolognini ad indicare ad A. «falsamente» che il padre si trovava in prigione.

Tutti questi argomenti hanno tenuto banco venerdì scorso nel corso del lunghissimo controesame di Rita Rossi, che ha risposto per quattro ore e mezza alle domande di Luca Bauccio, avvocato di Bolognini.

Un’udienza ancora una volta tesa, durante la quale il legale ha sottoposto stralci di quell’incontro tra il minore e gli inquirenti contestando la natura suggestiva e inducente delle domande rivolte da Rossi ad A., modalità che invece la procura contesta a Bolognini, che secondo l’accusa avrebbe prodotto “falsi ricordi” in A.. Rossi aveva già ammesso, nelle scorse udienze, che nessun falso ricordo era stato generato dalla psicoterapia. Un assunto che, da solo, basterebbe a sgonfiare il capo d’imputazione. Ma le sorprese, nel lungo controesame che continuerà lunedì, non sono finite.

L’IPNOSI

Rossi, nel corso delle sommarie informazioni raccolte dalla procura, associa la “macchinetta dei ricordi” all’ipnosi. «Secondo lei questa macchinetta produce l’ipnosi? – ha chiesto Bauccio – Perché insinua, induce il bambino a ritenere, ad associare le due cose?». A. è ovviamente consapevole che il tipo di terapia fatto con Bolognini non è ipnosi e lo conferma a domanda degli inquirenti.

Che però insistono, con domande chiuse, mentre le uniche domande ammesse con un minore sono quelle aperte. Un principio teorizzato da tutta la letteratura scientifica, compresa quella di riferimento di Rossi. La prima domanda aperta arriva, però, solo al minuto 39 sui 60 totali. «Ti faccio proprio una domanda che si chiama, nel nostro linguaggio, aperta – dice Milano -.

Parlaci di questa cosa che prima ricordavi o pensavi di ricordare e adesso la ricordi diversamente». Si tratta dunque di una domanda solo in apparenza aperta, ma comunque la prima, per stessa ammissione degli inquirenti. Tant’è che dopo la lettura di 25 domande di quella sit Rossi ha dovuto ammettere, su domanda di Bauccio, che non si trattava di domande aperte.

«CON BOLOGNINI STAVO BENE»

Ma non solo: sono almeno 12 le volte in cui ad A. viene chiesto come stesse con Bolognini, domanda alla quale risponde «bene». Ed è Rossi a parlare del carcere, per scongiurare paure che A. non dichiara di avere.

Ma lo fa dopo che i carabinieri avevano dichiarato in arresto il ragazzino per scherzo: «Beh se vengono i carabinieri e mi parlano è perché poi dopo mi portano in carcere… in carcere non devi andare… così lo sapevo che questo non era un tuo timore però per sicurezza i carabinieri non parlano con te perché vogliono farti qualcosa, come ha detto il maresciallo, altrimenti uno arriva e si spaventa giustamente».

Di fronte alle risposte del bambino – che mai lascia intendere di essere stato “manipolato” da Bolognini – viene introdotto il tema della verità: «Noi vogliamo la verità, quindi se prima l’hai detta la ridici, se prima non l’hai detta la dici adesso, se prima l’hai detta in maniera diversa la dici come è, la verità precisa, se non te lo ricordi dici non te lo ricordi… noi ci accontentiamo anche di un non ricordo che però sia un vero non ricordo okay?», si sente dire a Milano nel video.

«Ma lei non ritiene che sia un modo indiretto per terrorizzare un bambino? Per avvertirlo che c’è qualcosa che non va?», ha chiesto Bauccio in aula. Ma la versione sulla verità, nel video, cambia presto: gli inquirenti chiedono infatti come A. sapesse che il padre non pagava il mantenimento. E di fronte alla sua risposta – che non incolpava Bolognini di averlo informato di una cosa comunque vera – gli inquirenti insistono per sapere chi fosse la fonte dell’informazione. È a questo punto che Rossi cambia versione sulla verità: «Non serve la risposta giusta, vogliamo sapere quello che pensi tu».

Un altro passaggio importante è quello in cui gli inquirenti chiedono ad A. se sa dove si trova il padre, domanda alla quale il ragazzo risponde «in Calabria, penso». A., infatti, non ha contatti con il padre. Milano prova dunque ad ipotizzare scenari immaginari: «Se uno non si fa sentire (…) uno può essere in carcere e non si fa sentire. Non hai mai avuto questo dubbio suppongo (…) ma ne hai mai parlato di questa possibilità che magari è per questo che non si fa sentire?».

Parole che lasciano il ragazzo interdetto e che, secondo Rossi, servivano «per vedere la sofferenza del bambino».
«Ma lei non ritiene – ha chiesto Bauccio – che siano state queste domande ad aver creato nel bambino questo stato d’animo di ansia, di confusione?».

Altra frase contestata da Bauccio quella pronunciata verso il minuto 49, quando Milano dice ad A. «guarda che noi lo sappiamo che tu sei un bambino bravo. E noi non ti faremmo queste domande se non sapessimo che tu sei in grado di sostenerle». Per Rossi, si tratta di una «affermazione di supporto». Il che significa che A. era realmente in grado di sostenere le domande degli inquirenti.

«Ma perché allora lei non gli ha fatto dei test?», chiede Bauccio, ricollegandosi a quanto già detto nelle udienze precedenti, quando aveva evidenziato le norme disattese da Rossi. Per la psicologa, quei test potevano danneggiare psicologicamente il ragazzo, sottoposto però poi ad un’ora di domande nel corso di un’indagine penale.

UN PADRE ASSENTE, NONOSTANTE BIBBIANO

A domanda di Mazza, Rossi ha affermato che il trauma gravissimo subito da A. derivava dalla separazione dei genitori. Non, dunque, dalla psicoterapia, né dai presunti abusi o dalla lontananza dal padre.

Padre che, stando a quanto scoperto dalla difesa Anghinolfi, continua a non vedere i figli, cosa della cui responsabilità era stata imputata agli assistenti sociali oggi a processo: il servizio sociale subentrato dopo gli arresti ha tentato per due anni di ricongiungere il padre con i figli, concludendo, con una relazione datata 8 agosto 2021, che l’uomo «sembra essere poco consapevole di quanto queste lunghe attese possano compromettere lo sviluppo psicologico dei suoi figli e nonostante le proposte avanzate in questi ultimi mesi, non ha mostrato alcun concreto interesse nel ricucire le incomprensioni» con i due bambini.

«Alla luce di quanto sopra esposto e dei precedenti aggiornamenti non si ritiene che al momento ci siano le condizioni per poter accompagnare» padre e figli «ad un riavvicinamento».