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La scrittrice che “odia gli ebrei” ospite del Pd: la Schlein non ha nulla da dire?

di

Cecilia Parodi è diventata tristemente famosa per 
un video ricco di esternazioni antisemite. 

Ma c’è di più: pochi giorni fa è intervenuta a un evento promosso da Culture Rome…

“Odio tutti gli ebrei, odio tutti gli israeliani, dal primo all’ultimo, odio tutti quelli che li difendono, tutti tutti, tutti i giornalisti, tutti i politici, tutti i paraculi. Vi odio perché mi avete rovinato la vita, la fiducia, la speranza”. E ancora: “Spero di vederli tutti impiccati! Giuro che sarò la prima della fila a sputargli addosso!”.

Questo quanto affermato in dei video pubblicati su Instagram – e poi scomparsi nel nulla – dalla scrittrice Cecilia Parodi.

Nel pieno delle polemiche dell’inchiesta Fanpage in rete è scoppiato il dibattito sul classico caso di pro-Pal tendente all’antisemitismo. Parole di odio da condannare senza se e senza ma, ma c’è un altro aspetto ancora più grave. Sì, perché Cecilia Parodi è stata anche ospite delle iniziative del Partito Democratico.

Cecilia Parodi non ha mai fatto mistero delle sue posizioni, come testimoniato dai post pubblicati sui social, tra il paragone Hitler-Netanyahu e l’ampio sostegno a Gaza. Ebbene, lo scorso 15 febbraio la scrittrice ha preso parte all’evento “Colonialismo & Apartheid in Palestina – Una lunga storia di occupazione illegale e Resistenza” in programma al Circolo Nilde Iotti dei Giovani Democratici a Milano.

In altri termini, la Parodi insieme ad altri volti conosciuti per le loro posizioni pro-Pal come Francesca Albanese e Moni Ovadia. Sempre attenta ai fenomeni antisemiti Elly Schlein non ha niente da dire su quel video della scrittrice? Del resto non parliamo di una personalità estranea agli ambienti dem. Ma non è tutto.

Sì, perché Cecilia Parodi è stata protagonista anche in quel di Roma come ospite speciale. E in qualche modo torniamo sempre al Pd. La scrittrice, infatti, lo scorso 30 giugno ha preso parte a “Dialogues for Gaza”, giornata pro-Pal promossa da Culture Roma in collaborazione con Oxfam e Medici senza Frontiere.

Insieme a Michele Riondino, Marisa Laurito e Francesca Albanese, a Villa Ada il pubblico ha avuto la possibilità di ascoltare pensieri e parole di un’autrice che ha ammesso senza troppi giri di parole di odiare gli ebrei e di volergli sputare addosso una volta impiccati. Dettaglio da non sottovalutare: come recita il sito ufficiale, Culture Roma è “un sistema di canali di comunicazione che raccontano la pluralità, e allo stesso tempo l’unità, di un insieme di luoghi, attività, servizi ed eventi promossi da Roma Capitale.

La programmazione culturale cittadina è assicurata, sotto l’indirizzo dell’Assessorato alla Cultura, da una struttura a più articolazioni che comprende il Dipartimento Attività Culturali, l’Istituzione Sistema Biblioteche Centri culturali, la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali”. Insomma, anche qui si gioca in casa dem.

Il progetto fotografico che racconta la vita quotidiana degli ucraini, nonostante la guerra (linkiesta.it)

di

Kintsugi

Nella serie fotografica “The strength of hope”, il fotografo Domingo Nardulli ripercorre la quotidianità degli abitanti di Kyjiv e la forza emotiva di un popolo che da due anni e mezzo resiste agli orrori dell’aggressione russa: «Bisogna raccontare l’umanità delle persone, la quotidianità di chi resiste. È questo l’unico antidoto all’orrore»

(“The strength of hope”, Domingo Nardulli)

Nel luglio 1932, nel carteggio epistolare tra Freud e Einstein sul “perché della guerra”, alla domanda del matematico su come gli uomini potessero liberarsi, o anche solo resistere, alla follia bellica, il neuroscienziato aveva sostenuto l’importanza dei legami emotivi, ribadendo come a sanare le crepe generate nel tessuto sociale di un popolo dalle assurdità della guerra fosse lo sviluppo di una forza emotiva collettiva.

A dimostrarlo è la serie fotografica realizzata da Domingo Nardulli, fotografo, fondatore di doubleone_studio e autore di “The strenght of hope”, realizzata nella capitale ucraina lo scorso maggio. Negli scatti di Nardulli c’è tutta la forza emotiva di un popolo che da due anni e mezzo si trova a resistere agli orrori della guerra.

«La speranza che ho visto negli occhi delle persone a Kyjiv, la loro volontà indomita di lottare per la libertà e per il futuro dei loro figli, è una testimonianza potente della forza dello spirito umano. In un momento di grande difficoltà, gli ucraini continuano a combattere non solo per la loro terra, ma anche per un ideale di libertà che ispira e commuove.

La solidarietà tra le persone era ed è ancora evidente. Chi aveva perso tutto trovava conforto e aiuto in chi, pur avendo poco, era disposto a condividere», spiega Domingo a Linkiesta.

(Domingo Nardulli)

Domingo è un fotografo paesaggistico e documentarista, non un fotoreporter di guerra, ma ha scelto comunque di andare a Kyjiv e per undici giorni ha cercato di raccontare la vita degli abitanti della capitale ucraina, la loro quotidianità in un contesto di guerra.

Le immagini scattate offrono un preciso contesto, una voce alle storie individuali. La sua non è soltanto una testimonianza visiva, ma la narrazione umana e toccante di un popolo che da più di due anni lotta per la sua libertà.

«I racconti di guerra sono sempre impostati in un altro modo, con colori cupi che scandalizzano, bianchi e neri che tra loro contrastano. Io ho voluto dare alle mie fotografie un tono più accogliente, che facesse capire a chi le guarda la solidarietà del popolo ucraino. Conosciamo tutti gli orrori dell’aggressione russa, abbiamo visto le immagini delle torture a Bucha. Bisogna però anche far vedere gli sguardi di chi resiste», così Domingo spiega perché ha deciso di discostarsi dalle narrazioni classiche dei fotoreporter di guerra e realizzare una serie fotografica che parli di resilienza più che di distruzione.

(Domingo Nardulli)

In una delle sue fotografie colpiscono due donne che si abbracciano mentre guardano dall’alto la città, in un’altra due uomini che si scambiano un pacco di pasta, due bambini che giocano a girotondo e un altro che fa il gesto delle corna mentre parla a un walkie-talkie come fosse in qualche missione speciale. E in fondo forse lo è.

E poi i segni dei proiettili sulle macchine, le cucine da campeggio in cantine diventate rifugi anti-bomba, un uomo che piange di fronte a quella che probabilmente è la tomba di un parente, forse il figlio, e le donne accanto che, tra lapidi e croci, hanno allestito un pic-nic con coca-cola e pasticcini, nella speranza di rendere più a misura d’uomo un dolore che umano non è.

«Tra i miei scatti preferiti, il bambino che mostra il bicipite all’obiettivo. Tutta la sua forza risiede però nel suo sorriso, non in quel braccio minuto ma al tempo stesso così potente. È qui la resilienza del popolo ucraino, la forza della speranza. E da qui il titolo dell’intera serie fotografica», racconta Domingo.

«Nonostante la paura palpabile nelle strade della capitale, ho subito percepito che in questa nazione c’è un senso di casa e di resilienza che non potrà mai essere spezzato. La loro speranza non è semplicemente un’aspirazione vaga, ma una forza concreta che guida le loro azioni e alimenta la loro resistenza», aggiunge.

(Domingo Nardulli)

Nelle sue fotografie, Domingo ha deciso di raccontare «con la spontaneità di un bambino», come tiene a sottolineare, non tanto gli orrori della guerra, presenti nei fori di proiettile sulle auto e nei sacchi di sabbia agli ingressi degli edifici, nei vetri distrutti e nella morte che si affaccia dalle foto dei cimiteri troppo affollati di un paese che a febbraio 2024 registrava più di diecimila civili morti, quanto il senso di umanità che ha percepito sin dal suo arrivo.

«Stiamo combattendo per la libertà dei nostri figli, perché possano crescere in un paese libero e sovrano. Non possiamo permettere che la guerra rubi anche i loro sogni», racconta a Linkiesta ripercorrendo l’incontro con un signore residente nella capitale e padre di due bambini.

«Le strade di Kyjiv sono animate da cittadini intenti a proseguire la loro vita quotidiana con dignità e coraggio. Nonostante le sirene che risuonano a intervalli regolari, le metropolitane usate come rifugi e la presenza visibile delle forze armate, continuano a vivere. Io appena posso torno. Non basta. Bisogna raccontare l’umanità delle persone, la quotidianità di chi resiste. È questo l’unico antidoto all’orrore».

Ebrei “nei forni a gas”: famiglia israeliana respinta dal B&B. Scoppia il caso

Una famiglia israeliana è stata respinta da un 
B&B nel Bellunese per il suo Paese di provenienza. 

A riportare l’episodio di antisemitismo è stato il sito Ynet.

Dopo aver prenotato un posto nella struttura tramite Airbnb per trascorrere le vacanze in Italia, il padre di famiglia si è reso conto che qualcosa non era andato a buon fine. Il proprietario dell’appartamento, infatti, ha deciso di non accettarli come ospiti. Non capendone il motivo, l’uomo ha voluto vederci chiaro. Restando anonimo e identificandosi come A., ha chiesto se ci fossero problemi.

“Siamo una famiglia di cinque persone e saremmo felici di soggiornare nel suo appartamento”, ha digitato. La risposta, stando a quanto si legge, è stata quella di invitare il gruppo a “tornare nei forni”.

Un’allusione, questa, al metodo usato dai nazisti per far sparire i corpi degli ebrei durante la Shoah. La vicenda è presto balzata agli onori di cronaca e che ha attirato la reazione del governatore del Veneto, Luca Zaia.

“Un gesto estremamente grave, un inaccettabile atto di odio e discriminazione che ferisce non solo la dignità delle persone coinvolte ma anche i valori fondamentali della nostra comunità”, ha dichiarato.

Censurare la Russia è sbagliato: va isolato il piagnone Putin, il “Chaplin dittatore” che ha sterilizzato la cultura (ilriformista.it)

di Paolo Guzzanti

Non si può reagire comportandosi come lo Zar

I russi purtroppo sono ricaduti in una loro antica malattia da cui non si riescono a schiodare e che li fa affondare sempre di più.

Il loro capo e mentore Vladimir Vladimirovic Putin (superato solo da Milhail Medvedev, con cui Putin faceva la spola tra primo ministro e presidente, un po’ di girotondo intorno alla Costituzione) ha lanciato la versione più aggiornata della pubblicità piagnona: i russi non sono amati dai cavernicoli benché abbiamo regalato al mondo i migliori scienziati e letterati, al punto da denigrarci mentendo e umiliandoci con sanzioni.

Quando Putin risponde a queste accuse totalmente inventate e paranoiche fa come il Charlie Chaplin nel Grande Dittatore, che lanciava in aria un mappamondo di gomma, mentre lui – più moderno – fa bowling con le testate nucleari.
Negli ultimi giorni la Federazione russa ha chiuso i siti di una quantità di testate giornalistiche e televisive europee. Il motivo è la ripicca: voi ci mettete al bando? E noi vi rendiamo la pariglia. Putin però non ha tutti i torti. I lettori del Riformista sanno quanta simpatia generi l’uomo del Cremlino, ma ho trovato triste e inutile il fatto che le autorità italiane hanno tolto dai miei schermi RT, un bellissimo network televisivo in inglese – zeppo di notizie false e manipolate – fatto funzionare come le grandi rete americane.

Solo che invece è russo e tratta i fatti come li raccontano i russi a casa loro. Quasi sempre bastava rovesciare le affermazioni e le negazioni di quanto dicevano i giornalisti per avvicinarsi alla verità. Tra i giornali italiani nel serbando in Russia ci sono La Stampa, La Repubblica, la Rai e La7.

C’è una ragione specifica perché un tale provvedimento sia stato preso? Sì, il dispetto, la mancanza di rispetto nei confronti dei lettori e ascoltatori russi più fortunati che parlano più lingue affinché possano leggere la versione europea delle notizie.

Questa operazione di censura brutale e autolesionista (nel caso avessero a cuore i vantaggi dei cittadini russi a conoscere più fonti del racconto della storia) è stata definita come una sanzione.

La parola sanzione ha un significato univoco e non ha niente a che fare con la censura. Chiudere in Italia alcune emittenti russe in seguito alla guerra in Ucraina è stato uno sciocco e degradante atto di censura: ha dato l’impressione, del tutto sbagliata, che noi italiani non possiamo accedere al giornalismo altrui.

Ma chiamare sanzione la censura è un’ingiuria alla morale, al diritto e alla storia. Quando l’Italia fascista aggredì il Regno di Abissinia – membro della Società delle Nazioni – Mussolini aggiunse l’aggettivo “inique” e da allora chi ha memoria le ricorda col nome posticcio di “inique sanzioni”, cui i laboriosi italiani risposero facendo diventare Piazza Venezia un campo di grano.

Dunque esprimere ai colleghi de La Stampa, della Rai, de La Repubblica e de La7 la nostra indignata solidarietà è poco ma va fatto a voce alta. Sodali e indignati per ciò che è stato fatto attraverso la censura per rappresaglia al giornalismo italiano, è il minimo sindacale.

Ma è anche un’occasione per tornare sui nostri passi nella scena del delitto: il delitto di reagire alla prima invasione di uno Stato europeo da parte di un altro Stato europeo (lasciamo perdere le invasioni in Cecenia e in Georgia, le aggressioni in Siria) dopo quella di Hitler (e di Stalin) in Polonia nel 1939.

Abbiamo campato in pace per più di settant’anni grazie alla glaciazione. La nostra colpa è stata quella di stare al gioco delle ripicche anziché spiazzare, imbandendo la Grande Festa della cultura russa. Tutto cominciò quando decisero di non far cantare dei russi alla Scala.

Dominique Meyer, sovrintendente, annunciò che in seguito alla guerra scatenata da Putin non avrebbe più avuto luogo la prima del Boris Godunov di Modest Musorgskij, che sarebbe dovuta andare in scena il 7 dicembre del 2021. Fu la più meschina occasione persa. Censurare lascia un buco e puzza di acido. Mentre con intelligenza sfrontata si sarebbe potuto aggiungere al programma una rassegna storica sul più importante teatro di Mosca, il Bolshoi.

Nei 22 vergognosi mesi dell’alleanza attiva nazi-sovietica (durante i quali in Urss sparirono i libri degli ebrei comunisti e vennero chiusi in magazzino tutti i film antifascisti) al Bolshoi cantavano sempre donne nibelunghe, per la gioia del personale diplomatico e militare del Terzo Reich. Putin nel 2019 dichiarò che tutto quel che successe allora non accadde mai e comminò anni di galera a chi sostenesse il contrario.

E poi a Milano come a Roma, Venezia, Napoli, Torino e Palermo si sarebbero potuti ingolfare di Cechov, Puskin, Gogol, Dostoevskij, proiezione di Zivago, esposizione dei libri di Bulgakov, Ostrovsky, le sale piene dei pittori (specialmente quelli d’avanguardia che Stalin trattò alla maniera di Hitler).

Questo elenco di getto è minuscolo perché non contiene scienziati popolari come Mendeleev, con la sua tavola degli elementi non ancora scoperti, e tutti i fisici che hanno guidato il primo round dell’esplorazione spaziale. Si sarebbe potuto allestire uno stand sui nuovi stabilimenti iraniani in terra russa dove si costruiscono bagnarole volanti, dette shahid, piene di tritolo con cui far saltare i denti ai bambini ucraini quando sono a tavola.

E’ Putin che va isolato

Sarebbe stata meravigliosa una mostra sulla censura russa ai tempi del MVD e del NKVD (che restituì alla Gestapo i comunisti tedeschi rifugiatisi sotto le ali appiccicose di Stalin), col diavolo di Bulgakov sotto i tram di Mosca e poi la suprema istituzione del KGB.

Una mostra fotografica anche sul conclave delle Ziguli nere alle porte di Mosca per selezionare il giovane Papa Vladimir Vladimirovic (perché aveva tutte le competenze giuste) e metterlo al fianco di Boris El’cin, l’ultimo imperatore che avrebbe ammainato la bandiera sovietica.

Perché sarebbe stato un bene agire così anziché al contrario? Primo: perché la censura è il mestiere di Putin e con lui non si deve competere. Poi per veicolare questa notizia: noi amiamo la Russia e vorremmo sapere che cosa accadrà di questo immenso (da Berlino a Tokyo) impero incapace di produrre geni.

Un matematico, un creatore tecnologico come Steve Jobs, un poeta, un musicista, un pittore alla via Arbat che poi diventa Pollock. La Russia non deve sentirsi sola, ma è Putin che deve essere isolato come sostiene l’ex primo ministro laburista inglese Tony Blair.

Cultura sterilizzata

Due o tre note da ricordare. Già molto prima del patto nazi-sovietico, il ministro degli Esteri nazista Von Ribbentrop rimase stupito atterrando nella Mosca di Stalin, vedendola tappezzata di bandire, svastiche e composizioni che unificavano i simboli nazisti con quelli della Rivoluzione d’ottobre. Con tanto di ghirlande, di falci e martelli.

Cosa poi ripetuta nella città ex polacca di Brest-Litovsk, dove le bande e i vessilli vennero graficamente mescolati. Quell’età oscura va illuminata: il ministro degli Esteri sovietico Maxim Litvinov, che aveva tentato la strada dell’alleanza anti-nazista con le disprezzate democrazie, fu cacciato e sostituto dall’impassibile Molotov che rilanciò (d’accordo con Stalin) l’adorabile aggettivo “socialfascisti” per indicare i socialisti riformisti. Sarebbe ancora interessante illuminare anziché oscurare. Mettere in scena anziché umiliare. Fare della cultura russa il punto di forza.

Quindi, certo, solidarietà ai colleghi censurati, ai quali non è certo sfuggita la crescente propaganda putiniana sui social. Che fare? Oscurare? Troppo debole. Forse rilanciare le bottiglie inesplose sarebbe la cosa giusta per far fiammeggiare la cultura russa. Ma nei tempi di Putin il rubinetto è rimasto a secco: escono poche gocce e qualche formica. 

Putin ha sterilizzato la cultura, arresta gli omosessuali, arresta chi protesta e arresta le ragazze russe come fa arrestare i suoi generali per corruzione. Dove sono i vignettisti? Dove abita la propaganda della verità, sempre pendente dalla parte sbagliata? La butto lì. Io ci sto. Chi ci sta?