Trump dice no all’Ucraina nella Nato, se venisse rieletto sarebbe la migliore notizia possibile per Putin (ilriformista.it)

di Paolo Guzzanti

Gli scenari

A Londra il primo ministro Rishi Sunak saluta Re Carlo, lacerato fra la sua prima crisi di governo e il tumore che lo condanna, mentre a Washington i giochi si semplificano.

Una pattuglia della leadership democratica è in pressing sul povero Joe Biden costretto ad ammettere il flop del suo dibattito con Donald Trump, un’altra pattuglia -quelli dei “donors” che investono su un candidato per portarlo alla vittoria attraverso la pubblicità-, spinge per Kamala Harris, la vicepresidente puntando su di lei circa 240 miliardi, due rate e mezzo di sostegni militari all’Ucraina.

E sull’Ucraina si è mosso Trump con una dichiarazione diretta a Putin in cui annuncia che in caso di sua vittoria, Zelensky se lo può scordare di portare Kyiv nella Nato.

Putin ha dichiarato che questa è davvero una buona notizia ma si è sbrigato ad aggiungere che non si farà imporre una pace decisa dagli americani ma solo dopo un tavolo delle trattative in cui discutere tutto e in particolare le conquiste militari in corso nel Donbass. Il leader cinese Xi Jinping ha dato segni di apprensione perché il modo in cui finirà la guerra in Ucraina, farà da modello alla contesa su Taiwan.

Ucraina fuori dalla Nato potrebbe significare per Pechino la fine del patto militare fra Stati Uniti, Giappone e Australia a protezione dell’isola contesa. I cinesi stanno già provvedendo a restaurare l’entente cordiale con gli australiani, dopo gli anni del freddo, seguiti al tentativo cinese di mettere le mani su tutta l’economia australiana.

E nel frattempo la caduta del governo Tory a Londra ha riacceso la flebile fiamma dei rapporti speciali con Ottawa perché il Canada di Trudeau non vuole collaborare con governi di destra del mondo di lingua inglese, quello dei “sei occhi” che raggruppa in un legame stretto e segreto Stati Uniti, Regno Unito, Irlanda, Canada, Australia e Nuova Zelanda.

La partita americana e inglese marciano su strade parallele e insieme alla Francia mostrano i segni della vittoriosa avanzata di Putin nei fronti interni. Notizia spettacolare sul fronte inglese è stata quella del passaggio con armi e bagagli di Nigel Farage dal fronte occidentale a quello putiniano.

L’uomo che ha scatenato la Brexit portando il Regno Unito lontano dall’Europa, è stato eletto nel nuovo mini-partito “Reform”, è entrato in Parlamento e il suo primo atto politico è stato quello di annunciare la sua solidarietà a Putin, diventando definitivamente il rappresentante ufficiale di Donald Trump su suolo britannico, se il repubblicano tornasse alla Casa Bianca come oggi sembra sempre più probabile.

Le trattative per convincere Biden a ritirarsi sono avanzate ma sembra che la leadership democratica sia poco contenta di Kamala Harris, come candidato presidente la sosterrebbe solo se il front man fosse un rampollo patrizio come Robert Kennedy Jr, figlio del fratello di John Kennedy, ucciso nel 1968 mentre era in campagna elettorale. I democratici come partito non vanno male come dimostrano i dati di ieri dell‘U.S. labor market da cui si vede che malgrado le difficoltà del mercato nel mese di giugno sono stati coperti 206.000 nuovi posti di lavoro.

Il fatto non nuovo, ma sempre più evidente in questi giorni, è il graduale compattamento per popoli ed etnie che sta rivoluzionando il pianeta: Putin ha di fatto tranquillizzato la sua opinione pubblica con delle vittorie militari che unificano simbolicamente (ciò di cui i russi sembrano avere uno strenui bisogno) e i popoli di lingua inglese di quattro continenti sono alla ricerca di una unità cultuale come si vede ad esempio dalla primavera dei comici stand-up che trasmettono cariche di umorismo sempre più duro e feroce, ma che corrisponde a uno spirito comune.

La Francia fa parte di questo quadro in maniera complementare non troppo lontana e diversa da quella che la legava in guerra e pace al mondo anglosassone dalla guerra dei Sette Anni (in America “la guerra indiana” perché i nativi combattevano in uniforme inglese sia centro i francesi che contro i ribelli americani) alle guerre napoleoniche che riallacciano di nuovo questo mondo conflittuale ma consanguineo anglo-francese, con l’invasione della Russia, di nuovo a Tolstoj, di nuovi a Guerra e Pace.

Se la parola non fosse sputtanata si potrebbe parlare di rivoluzione (o evoluzione? o involuzione?) identitaria. E tutto ciò ci esclude, a meno che l’Italia non vari una possibile ma imprevista impennata culturale nel mondo della comunicazione, della genialità, dell’indipendenza.

laburisti inglesi hanno ieri annunciato una rivoluzione energetica green che di per sé costituisce una sfida a tutti, mentre la Cina cerca disperatamente in Europa i clienti delle sue auto elettriche da mille euro, che gli americani hanno appena ammazzato con i dazi. Ma è il campo della comunicazione e cultura quello che – deponendo per un artiamo le armi – fa la differenza. Michael Flynn, che è stato uno dei consiglieri per la sicurezza di Trump, ha messo su un’azienda miliardaria ma non profit dove tutti lavorano gratis vendendo il modello comunicativo di Trump stesso, immagine e capacità performante.

I numeri? Mister Flynn ricava una paghetta (e con lui gli altri soci) di 60 mila dollari per due ore di lavoro in un progetto che vive solo di idee e fantasie sulle idee. Il mondo delle idee e delle startup non vede l’ora che l’impulso americano faccia ripartire gli Accordi di Abramo e Israele, essendo lo Stato ebraico il massimo produttore di idee innovative e lucrative.

I Cinesi vengono dietro, ma arrancano e i russi per ora sognano, ma sagnano sul serio perché l’ultima trovata di Putin è un corso di sei anni per genialità amministrative che per ora indica soltanto l’intenzione di seguire un trend americano.

Questi esempi sono di oggi, degli ultimi dieci giorni e milioni di nuovi fatti stanno creando un’alternativa vitale alla prospettiva della guerra va sempre forte, con una produzione bellica che stuzzica tutti, dai francesi ai cinesi, i rozzi ma efficienti iraniani e tutto quel mondo che si è coalizzato contro l’Occidente a guida americana composti dall’asse Russia, Iran, Cina e dal più vasto schieramento dei Brics, con l’India che ha sempre un piede dentro e uno fuori dall’occidente ma che guarda in cagnesco la Cina con cui è sua alleata che in guerra di frontiera.

Concludo questa nota con un dato noto ma poco notato: l’India è il più grande Paese di lingua inglese del mondo con Salman Rushdie ha rivelato una lingua letteraria inglese autonoma tanto quanto il nuovo francese dell’Africa occidentale che vive di vita sua, separato e integrato a quello del francese europeo e di quello canadese.

La Terra gira molto in questi mesi, gli Stati Uniti si confermano per ora il paese leader nella produzione delle idee, ma siamo tornati a Tolstoj: guerra o pace? Distruzione o evoluzione? Il bene e il male ci attendono con pari entusiasmo.

«Contestare Netanyahu non è antisemitismo» e altre balle antisemite (linkiesta.it)

di

Di piazza e di talk show

Il guaio è che non c’è solo l’immenso esercito di quelli che amano tanto la democrazia israeliana: ci sono anche, purtroppo, infime e sparute minoranze secondo cui Israele è uno Stato colonialista che fa apartheid e pulizia etnica da settantacinque anni

Lo ignora l’imbecille e fa mostra di ignorarlo il mascalzone: ma attribuire la guerra di Gaza alla responsabilità di Benjamin Netanyahu e della sua compagine governativa di fondamentalisti non solo offende la verità di un popolo in armi per la propria sopravvivenza, ma rappresenta inoltre l’ennesima pagina dell’inesausto romanzo antisemita con fascetta from the river to the sea.

Per quale motivo, infatti, se non per pregiudizio antisemita, ci si esercita nella ricognizione delle malefatte di Bibi? Perché è un trafficone? Lui, Netanyahu: non il medio autocrate arabo o asiatico che organizza il proprio potere e il proprio lusso nei Paesi mangiati dalla corruzione, col popolo alla fame e analfabeta. Oppure perché è un genocida.

Lui, Netanyahu: non il macellaio siriano né questo o quel signore delle decine di guerre di sterminio che in Africa e in Medio Oriente hanno fatto tranquillo corso nell’assopimento di “Sua Eccellenza” Antonio Guterres e nella distrazione dell’editorialismo pacifista. Oppure ci si occupa del manigoldo Netanyahu perché si ama troppo la democrazia israeliana per assistere a come muore sotto quel tiranno. Forse il motivo è proprio questo.

È per questo, infatti, che dai cortei, dalle università, dalle prime pagine e dai talk show si chiede agli israeliani di farsi guidare da un altro nella guerra per neutralizzare i miliziani e i civili palestinesi che hanno fatto il pogrom del Sabato Nero. È per questo che da quelle tribune, senza sosta, si ingiunge al popolo israeliano di dotarsi di un altro primo ministro che distrugga i tunnel del terrore costruiti con i soldi della cooperazione internazionale.

È per questo che l’Italia progressista ispirata alla Costituzione antifascista fondata sulla resistenza antifascista reclama per Israele l’avvento di un premier diverso, non più Bibi, ma finalmente un altro capace di fare la guerra a quelli che hanno incenerito la Galilea facendo sessantamila profughi in terra propria.

È per questo che si indugia sull’impresentabilità di Netanyahu: perché si vuole che Israele abbia un leader diverso, meno in puzza di traffici societari ed elettorali, per stanare i terroristi dagli ospedali e dalle scuole dell’Unrwa. Uno come Yitzhak Rabin, ci vorrebbe. Un ebreo diventato buono, buonissimo da quando è stato ucciso. E buonissimissimo siccome l’ha ucciso un fondamentalista “de destra”.

Ora sbrogliamo la matassa. Se è un trafficone tra i tanti, un “genocida” (pensa te) tra i tanti, un antidemocratico tra i tanti, com’è che fanno le bucce a lui e non ai tanti? Come sopra: «Eh no, quella è una meravigliosa democrazia, che amiamo tanto, ovvio che ci indigna il fatto che a governarla sia uno come lui». Ma certo, sicuro.

Il guaio è che non c’è solo l’immenso esercito di quelli che amano tanto la democrazia israeliana: ci sono anche, purtroppo, infime e sparute minoranze (senza partiti, senza tv e senza giornali, per fortuna) secondo cui Israele è uno Stato colonialista che fa apartheid e pulizia etnica da settantacinque anni.

Aho, giovani, quello è un filibustiere: ma lo capite che, per come è usata, e per il pulpito da cui è usata, la fregnaccia «contestare Netanyahu non è antisemitismo» rappresenta la versione più pura e subdola della solita rogna antisemita?

La sinistra di Salis e Fratoianni dietro le quinte: “Soviet di quartiere” e lotta ai giornali critici

di Edoardo Sirignano

Occupazione sovietica. 

Con queste due parole possiamo indicare il nuovo corso di Sinistra Italiana, quello prospettato dal segretario Fratoianni, dopo l’inatteso risultato delle europee.

Basta farsi un giro nella sala semivuota del centro congressi Frentani di Roma, per capire il sentiment dominante fra i  compagni di Nicolone. La svolta regna intorno a un solo profilo: Ilaria Salis. La neo eletta eurodeputata ed ex detenuta a Budapest, in shorts jeans e canotta, accompagnata chi l’ha liberata dalle carceri ungheresi, è la star indiscussa.

Tutti la cercano, tutti le rivolgono la parola e la ringraziano dal palco. Le sue dichiarazioni sulle invasioni di proprietà, a vantaggio dei meno abbienti, hanno fatto breccia nei cuori di quelli che si definiscono «gli eredi della Rifondazione del 1996», come evidenzia il dirigente campano Roberto Montefusco.

A quelle persone, che la stringono e l’abbracciano, riferisce: «Siamo solo all’inizio. La rivoluzione è appena iniziata». Ragione per cui un’anziana dirigente la considera addirittura una Robin Hood 2.0. L’ex deputata Serena Pellegrino spiega dal leggio, mentre i suoi capi mordicchiano un panino, (che tanto ricorda quello di Franceschini, quando lanciò la segretaria Serracchiani), come «una persona diventa ricca quando ha una chiave per entrare in casa.

Da sempre l’essere umano ha cercato un’abitazione». Ragione per cui le occupazioni della paladina Ilaria non solo devono essere giustificate, ma addirittura diventare modello per i pochi giovani rimasti.

A spiccare, nell’assemblea, d’altronde, è soprattutto il ritorno della 94enne Luciana Castellino, che pur avendo difficoltà a spostarsi, esorta quello che dovrebbe essere il «nuovo Pci» a distinguersi per «i soviet di quartiere». Standing ovation quando la presidente onoraria dell’Arci chiede alle «borgate romane» di attivarsi per «ridisegnare le città», proprio come accadeva ai tempi della lontana Urss.

Le sezioni utilizzate per anni e non pagate nella capitale sono, dunque, solo l’inizio di un percorso. L’obiettivo è partire dai bilocali per giungere ai palazzi del potere. A partire dalle prossime regionali, c’è chi sostiene che sia giunto il momento che Avs pretenda quanto le spetta, come qualche presidenza di Regione.

«Ogni intesa – vocifera un segretario provinciale – ha un prezzo». Pur essendo una netta minoranza, nella sala mensa, allestita per l’occasione, comunque, non manca qualche critica: «Chi dall’adolescenza monta i gazebo – riferisce un sostenitore della prima ora – ha le briciole, mentre gli ultimi arrivati sono padroni indiscussi». La ragione, che accomuna la classe dirigente di Si, è una soltanto: la lotta contro i nuovi e vecchi nemici.

C’è chi ne fa addirittura una gerarchia. Al primo posto ci sono i giornaloni della destra, che denunciano i debiti e le storture degli intoccabili e poi ovviamente i soliti poteri forti, il capitalismo e gli immancabili israeliani. Qualcuno addirittura propone una «festa nell’ambasciata palestinese a Roma». Insomma, prende il via il nuovo corso.

L’alleanza con il Movimento 5 Stelle, secondo il senatore Giuseppe De Cristofaro, «può solo far espandere una forza, che cresce di giorno in giorno». Riferisce l’ex governatore della Puglia Nichi Vendola, sottovoce, ad alcuni dei suoi raggruppati nella hall della sala congressi: «Sono gli altri, che stanno venendo dietro a noi e non viceversa».

Il problema, però, è come armonizzare il rapporto con gli alleati, soprattutto con i pentastellati di Giuseppe Conte. «Adesso – riferisce un esponente pugliese del partito – ci va il segretario a discutere con Beppe Grillo e i suoi sodali».

Schlein e la visione del garantismo che farebbe infuriare nonno Agostino: da Toti a Santanché, Elly è un disco rotto (ilriformista.it)

di Francesca Sabella

Dimissioni, dimissioni, dimissioni

Deve avere avuto una notte agitata la segretaria del Pd che ieri mattina si è svegliata gridando: dimissioni, dimissioni, dimissioni per tutti.

Il garantismo, invece, è sprofondato in un lungo sonno in casa Pd ormai da mesi, da anni. Il sonno del giusto processo, dei diritti degli indagati, dei tre gradi di giudizio.

Sveglissima invece la vena giustizialista e populista di Elly: “Toti si deve dimettere, è assurdo che non si sia ancora dimesso, non può tenere bloccata l’intera regione. E stiamo ancora aspettando che la presidente del Consiglio firmi un atto dovuto, la sospensione, non ci sono precedenti di attese così lunghe di un atto dovuto”.

Il governatore della Liguria invece lo ha detto chiaro e tondo: io non ho fatto niente e da qui non mi muovo. Se ne sono fatti una ragione persino i magistrati che avevano lasciato intendere: se ti dimetti, ti liberiamo. Niente. Lui non cede. Rimane lì.

Se ne farà una ragione anche la segretaria del Pd. Quanto alla Meloni, aveva già detto: “Se come dice lui è innocente, far dimettere un uomo che è stato scelto dai cittadini perché viene accusato di una cosa che è falsa è una mancanza di rispetto verso i cittadini”.

Già. “Giovanni Toti è l’unico che può decidere cosa fare in questa situazione – aveva detto ancora la Premier – è l’unico che conosce la verità, lui sa cosa è giusto fare”. Sta a vedere che qua la garantista è Giorgia Meloni? Tutto può succedere, anzi, è già successo perché Giorgia quella sospensione non l’ha firmata e non la firmerà. Giustamente.

Poi a Elly deve essere andato di traverso il caffè e così è stata la volta della ministra del Turismo Daniela Santanché. “Dopo il secondo rinvio a giudizio continuiamo a chiedere un passo indietro di una ministra accusata di truffa aggravata ai danni dello Stato”.

Volevamo ricordare a Elly che in Italia (sì, siamo in Italia) ci sono tre gradi di giudizio e rinvio a giudizio non vuol dire condanna definitiva. Ma niente, anche la Santanché deve dimettersi. Per la verità qui la Meloni fa compagnia a Elly: “Santanché via del governo solo se rinviata a giudizio”. Però di Giorgia non ci si stupisce, di Elly invece un po’ sì. Proprio lei disse: “Sono garantista come mio nonno”. 

Agostino Viviani fu un grande avvocato e poi membro laico del Csm. Fece della battaglia per il garantismo la sua ragione di vita. Parlò senza timore di degenerazione del processo penale, perché era convinto che le vittime della “giustizia ingiustizia” fossero tanto vittime come le persone che non ottengono giustizia. Pare che la segretaria del Pd si sia dimenticata dell’album di famiglia. D’altronde mio nonno era milionario. E no, io non lo sono.

La prevalenza dell’ottuso (corriere.it)

di Massimo Gramellini

Il caffè

Non me ne vogliano i diretti interessati, ma la vicenda di Rainews che ignora le elezioni francesi perché le ha vinte la sinistra mi ha riportato alla mente una scena raccontata da Montanelli.

Avendo appreso della nomina di Achille Starace a segretario del partito fascista, il gerarca Leandro Arpinati, amico personale del Duce, si precipita a Palazzo Venezia: «Benito, perché Starace? Lo sai che è un cretino!» E Mussolini: «Sì, ma un cretino obbediente».

A quel punto Montanelli ricordava come sia proprio circondandosi di «cretini obbedienti» che si finisce a piazzale Loreto. Ora, prima che si scateni la canea destra-sinistra, rilevo che episodi simili sono sempre accaduti alla corte di qualsiasi potente, da Napoleone a Stalin, e anche nelle democrazie come la nostra.

Potremmo chiamarla la prevalenza dell’ottuso (non del cretino: non mi permetterei mai). Se sei serio, dai tutte le notizie. Se sei furbo, quelle scomode le dai lo stesso, ma con taglio critico: enfatizzando l’antisemitismo del leader della sinistra francese Mélenchon o le difficoltà della variopinta maggioranza anti-lepenista nel formare un governo.

Se invece sei ottuso, le nascondi per puro automatismo d’obbedienza, senza neanche renderti conto che la tua capa, Giorgia Meloni, trarrà vantaggi politici enormi dalla sconfitta di Marine Le Pen.

Cambiano i colori dei governi, ma immutabile rimane la sfumatura di grigio degli ottusi, mastice e zavorra di ogni potere, che adora circondarsene mentre dovrebbe considerarli i suoi peggiori nemici.