Gli scenari
A Londra il primo ministro Rishi Sunak saluta Re Carlo, lacerato fra la sua prima crisi di governo e il tumore che lo condanna, mentre a Washington i giochi si semplificano.
Una pattuglia della leadership democratica è in pressing sul povero Joe Biden costretto ad ammettere il flop del suo dibattito con Donald Trump, un’altra pattuglia -quelli dei “donors” che investono su un candidato per portarlo alla vittoria attraverso la pubblicità-, spinge per Kamala Harris, la vicepresidente puntando su di lei circa 240 miliardi, due rate e mezzo di sostegni militari all’Ucraina.
E sull’Ucraina si è mosso Trump con una dichiarazione diretta a Putin in cui annuncia che in caso di sua vittoria, Zelensky se lo può scordare di portare Kyiv nella Nato.
Putin ha dichiarato che questa è davvero una buona notizia ma si è sbrigato ad aggiungere che non si farà imporre una pace decisa dagli americani ma solo dopo un tavolo delle trattative in cui discutere tutto e in particolare le conquiste militari in corso nel Donbass. Il leader cinese Xi Jinping ha dato segni di apprensione perché il modo in cui finirà la guerra in Ucraina, farà da modello alla contesa su Taiwan.
Ucraina fuori dalla Nato potrebbe significare per Pechino la fine del patto militare fra Stati Uniti, Giappone e Australia a protezione dell’isola contesa. I cinesi stanno già provvedendo a restaurare l’entente cordiale con gli australiani, dopo gli anni del freddo, seguiti al tentativo cinese di mettere le mani su tutta l’economia australiana.
E nel frattempo la caduta del governo Tory a Londra ha riacceso la flebile fiamma dei rapporti speciali con Ottawa perché il Canada di Trudeau non vuole collaborare con governi di destra del mondo di lingua inglese, quello dei “sei occhi” che raggruppa in un legame stretto e segreto Stati Uniti, Regno Unito, Irlanda, Canada, Australia e Nuova Zelanda.
La partita americana e inglese marciano su strade parallele e insieme alla Francia mostrano i segni della vittoriosa avanzata di Putin nei fronti interni. Notizia spettacolare sul fronte inglese è stata quella del passaggio con armi e bagagli di Nigel Farage dal fronte occidentale a quello putiniano.
L’uomo che ha scatenato la Brexit portando il Regno Unito lontano dall’Europa, è stato eletto nel nuovo mini-partito “Reform”, è entrato in Parlamento e il suo primo atto politico è stato quello di annunciare la sua solidarietà a Putin, diventando definitivamente il rappresentante ufficiale di Donald Trump su suolo britannico, se il repubblicano tornasse alla Casa Bianca come oggi sembra sempre più probabile.
Le trattative per convincere Biden a ritirarsi sono avanzate ma sembra che la leadership democratica sia poco contenta di Kamala Harris, come candidato presidente la sosterrebbe solo se il front man fosse un rampollo patrizio come Robert Kennedy Jr, figlio del fratello di John Kennedy, ucciso nel 1968 mentre era in campagna elettorale. I democratici come partito non vanno male come dimostrano i dati di ieri dell‘U.S. labor market da cui si vede che malgrado le difficoltà del mercato nel mese di giugno sono stati coperti 206.000 nuovi posti di lavoro.
Il fatto non nuovo, ma sempre più evidente in questi giorni, è il graduale compattamento per popoli ed etnie che sta rivoluzionando il pianeta: Putin ha di fatto tranquillizzato la sua opinione pubblica con delle vittorie militari che unificano simbolicamente (ciò di cui i russi sembrano avere uno strenui bisogno) e i popoli di lingua inglese di quattro continenti sono alla ricerca di una unità cultuale come si vede ad esempio dalla primavera dei comici stand-up che trasmettono cariche di umorismo sempre più duro e feroce, ma che corrisponde a uno spirito comune.
La Francia fa parte di questo quadro in maniera complementare non troppo lontana e diversa da quella che la legava in guerra e pace al mondo anglosassone dalla guerra dei Sette Anni (in America “la guerra indiana” perché i nativi combattevano in uniforme inglese sia centro i francesi che contro i ribelli americani) alle guerre napoleoniche che riallacciano di nuovo questo mondo conflittuale ma consanguineo anglo-francese, con l’invasione della Russia, di nuovo a Tolstoj, di nuovi a Guerra e Pace.
Se la parola non fosse sputtanata si potrebbe parlare di rivoluzione (o evoluzione? o involuzione?) identitaria. E tutto ciò ci esclude, a meno che l’Italia non vari una possibile ma imprevista impennata culturale nel mondo della comunicazione, della genialità, dell’indipendenza.
I laburisti inglesi hanno ieri annunciato una rivoluzione energetica green che di per sé costituisce una sfida a tutti, mentre la Cina cerca disperatamente in Europa i clienti delle sue auto elettriche da mille euro, che gli americani hanno appena ammazzato con i dazi. Ma è il campo della comunicazione e cultura quello che – deponendo per un artiamo le armi – fa la differenza. Michael Flynn, che è stato uno dei consiglieri per la sicurezza di Trump, ha messo su un’azienda miliardaria ma non profit dove tutti lavorano gratis vendendo il modello comunicativo di Trump stesso, immagine e capacità performante.
I numeri? Mister Flynn ricava una paghetta (e con lui gli altri soci) di 60 mila dollari per due ore di lavoro in un progetto che vive solo di idee e fantasie sulle idee. Il mondo delle idee e delle startup non vede l’ora che l’impulso americano faccia ripartire gli Accordi di Abramo e Israele, essendo lo Stato ebraico il massimo produttore di idee innovative e lucrative.
I Cinesi vengono dietro, ma arrancano e i russi per ora sognano, ma sagnano sul serio perché l’ultima trovata di Putin è un corso di sei anni per genialità amministrative che per ora indica soltanto l’intenzione di seguire un trend americano.
Questi esempi sono di oggi, degli ultimi dieci giorni e milioni di nuovi fatti stanno creando un’alternativa vitale alla prospettiva della guerra va sempre forte, con una produzione bellica che stuzzica tutti, dai francesi ai cinesi, i rozzi ma efficienti iraniani e tutto quel mondo che si è coalizzato contro l’Occidente a guida americana composti dall’asse Russia, Iran, Cina e dal più vasto schieramento dei Brics, con l’India che ha sempre un piede dentro e uno fuori dall’occidente ma che guarda in cagnesco la Cina con cui è sua alleata che in guerra di frontiera.
Concludo questa nota con un dato noto ma poco notato: l’India è il più grande Paese di lingua inglese del mondo con Salman Rushdie ha rivelato una lingua letteraria inglese autonoma tanto quanto il nuovo francese dell’Africa occidentale che vive di vita sua, separato e integrato a quello del francese europeo e di quello canadese.
La Terra gira molto in questi mesi, gli Stati Uniti si confermano per ora il paese leader nella produzione delle idee, ma siamo tornati a Tolstoj: guerra o pace? Distruzione o evoluzione? Il bene e il male ci attendono con pari entusiasmo.