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I siti dei giornali italiani sono realmente accessibili a tutti? (giornalettismo.com)

di Enzo Boldi

Utilizzando il tool di AccessiWay, abbiamo 
scandagliato tra le homepage dei principali 
organi di informazione. 

E il risultato non è esaltante

Sono tra i portali più visitati, consultati e frequentati nel nostro Paese, subito dopo le piattaforme social. Sono tra quelli che, per definizione, dovrebbero essere accessibili a tutti, soprattutto in vista di quella scadenza – il 28 giugno del 2025 – in cui si arriverà alla piena applicazione dello European Accessibility Act. Eppure, la situazione reale racconta una storia molto diversa, probabilmente figlia anche di una normativa recepita in modo non chiarissimo che lascia spazio a troppe intermediazioni. Ed ecco che l’accessibilità ai siti online dei principali giornali italiani rappresenta – almeno in parte – la lentezza del nostro Paese a recepire correttamente una norma che si basa su un diritto inalienabile dell’uomo.

Utilizzando un tool messo a disposizione di tutti da AccessiWay, abbiamo scandagliato nelle homepage dei principali siti di informazione italiani. Questo strumento consente di scansionare quel che è presente in una determinata pagina online, restituendo una scheda sintetica delle criticità in termini di accessibilità digitale, seguendo i criteri delle linee-guida WCag2.1 inseriti all’interno dello European Accessibility Act.

Accessibilità siti giornali italiani, qual è la situazione?

Piccola premessa: la redazione di Giornalettismo non si è tirata indietro. L’analisi sull’accessibilità siti giornali italiani, infatti, parte proprio dall’homepage della nostra testata. Questo è il risultato che ci ha restituito lo strumento messo a disposizione da AccessiWay.

Il nostro portale, dunque, risulta non completamente conforme alle linee-guida sull’accessibilità digitale. Un risultato che porterà, possiamo assicurarlo, a un impegno maggiore per rispettare tutti i paletti previsti dallo European Accessibility Act. Si tratta di un risultato che non può lasciarci soddisfatti, ma anche di una rarità nell’ecosistema dell’informazione online in Italia. Infatti, come spiegheremo tra poco, sono pochissime le testate a essere semi-compliant, mentre sono tantissime quelle che sono completamente non conformi alle suddette linee-guida. Nessuna, tra le dieci (oltre Giornalettismo) analizzate, risulta essere completamente conforme.

I non-compliant

La nostra analisi parte dalla principale agenzia di stampa italiana: l’ANSA. Nonostante sia uno degli organi di informazione online più consultati dagli utenti italiani, i problemi sono molti, come sottolineato da questo risultato.

Un discorso simile si può fare per un altro quotidiano – nella sua versione online – che ha ottenuto lo stesso risultato. Parliamo de il Corriere della Sera.

Stesso discorso vale per l’altra testata online tra le più lette dai cittadini italiani: il quotidiano La Repubblica. Anche in questo caso, appare evidente come si debba correre ai ripari.

Lo stesso paradigma dovrà essere seguito da SkyTG24, il cui portale online che risulta essere non-compliant alle linee guida WCag2.1.

E anche per quel che riguarda il giornale interamente online più letto nel nostro Paese, Fanpage, le criticità in termini di accessibilità digitale sembrano essere molte.

Rimanendo all’interno dell’ecosistema dell’informazione completamente sul web (testate che non hanno una versione anche cartacea), anche Open ha i suoi problemi.

Dunque, sei testate online su dieci (campione analizzato), risultano avere degli importanti problemi in termini di conformità alle linee-guida sull’accessibilità digitale.

I semi-compliant

Come detto, anche Giornalettismo ha delle pecche che dovrà necessariamente sistemare. E nel calderone di quelle testate che risultano semi-compliant ci sono anche altri organi di informazione a farci compagnia. A partire da Il Fatto Quotidiano.

La testata diretta da Peter Gomez (Marco Travaglio è direttore del cartaceo) risulta essere – più o meno – nelle stesse condizioni (in termini di conformità alle linee guida sull’accessibilità digitale) di TgCom24.

Discorso analogo per quel che riguarda due testate (nella versione online) che hanno come area politico-ideologica di riferimento nel Centrodestra italiano. Come Libero Quotidiano.

Stesso discorso si può fare anche per l’altro giornale di proprietà della holding che fa riferimento al senatore Antonio Angelucci e alla sua famiglia: Il Giornale.

Dunque, su dieci (undici considerando che Giornalettismo) siti di informazione online analizzati, nessuno risulta essere conforme alle linee guida sull’accessibilità digitale e la maggior parte (sei) risulta essere completamente non-compliant.

Il commento sull’accessibilità ai siti dei giornali italiani

Detto che il problema dell’accessibilità digitale non riguarda solamente i siti di informazione, abbiamo chiesto a Edoardo Arnello – CEO di AccessiWay – un commento su questa situazione: «Il giornalismo è una zona particolare, anche dal punto di vista normativo. Sono obbligati a essere perfettamente accessibili a tutti quegli enti che hanno preso dei finanziamenti pubblici per la digitalizzazione. Quindi, molti giornali rientrano all’interno di questa “categoria”, anche se sono ancora organismi privati sotto le soglie di fatturato. Oggi è obbligatorio per la Pubblica Amministrazione e per le multinazionali. Sostanzialmente i privati ricchi devono già farlo e si è dato tempo fino al 2025 per le PMI. Questo, però, significa che anche i giornali sono a pochi mesi dall’obbligo normativo effettivo».

Ma qual è il problema dell’accessibilità ai siti di informazione? «Sono tra i siti più navigati in Italia e sono sviluppati su grosse infrastrutture informatiche che non sono state concepite in maniera accessibile fin dall’inizio – ha sottolineato Arnello -. Hanno fatto molto per quel che riguarda la responsiveness (reattività, ndr), le performance e la leggibilità, ma c’è un enorme problema di organizzazione dei contenuti, e delle gerarchie. Tutto ciò, evidentemente, impedisce a moltissimi utenti l’accesso alle informazioni e il problema che noi riscontriamo di più dal settore giornalistico è che non c’è budget».  

Dunque, mancanza di soldi e di una campagna informativa che faccia capire l’importanza del raggiungimento di una totale accessibilità digitale: «Uno dei punti del nostro Manifesto, riguarda proprio questo argomento: gli incentivi che possono essere dati ai privati per intraprendere questo percorso farebbero molto. È chiaro che se uno riceve un incentivo fiscale per rendere accessibile il proprio sito web, lo fa. Allo stato attuale, è ancora molto difficile farlo percepire come investimento, perché ovviamente l’accessibilità rende i siti più navigabili e li apre a più utenti, che poi sono fidelizzati, perché una persona che trova cento porte chiuse e finalmente trova uno sito accessibile, ci torna. Dunque, gli incentivi sono uno dei punti fondamentali, diciamo “raccomandazioni”, che abbiamo messo nel manifesto perché sono necessari per innescare movimento».

La riforma Nordio è il minimo sindacale della civiltà giuridica, un primo passo contro le toghe-primedonne (ilriformista.it)

di Sergio Talamo

Una svolta culturale e di civiltà

Cos’è lo Stato di Arbitrio, se non quello in cui i reati sono vaghi e indefiniti, dove l’abuso d’ufficio si tiene per mano con il concorso esterno in mafia, la concussione ambientale e il traffico di influenze illecite?

Dove un Consiglio comunale può essere sciolto dal tratto di penna di un prefetto? Dove spesso il carcere non è l’esito ma la premessa di un’accusa? Dove la vita privata degli innocenti è merce buona per sputtanamenti, ricatti e scandali? Dove un processo guarda l’eterno, perché anche essere assolti in secondo grado può non bastare?

E di cosa c’era bisogno, ancora, per capire di aver passato il segno, dopo tre decenni di fumo e di gogna, dopo 5000 accuse all’anno di abuso d’ufficio che finivano nel nulla, dopo la paralisi delle attività pubbliche dovuta al terrore di firmare un atto, dopo paginate di intercettazioni buone solo a eccitare i guardoni, dopo le umilianti censure della Corte di giustizia europea?

Le domande finiscono qui. Perché oggi c’è una prima risposta. Non è il caso di scomodare paroloni come svolta storica. La riforma Nordio è solo un passo iniziale, il minimo sindacale della civiltà giuridica. Però è un passo solido e coerente. È una svolta culturale, questo sì. Perché finalmente si esce dalla dannazione italiana del tiro al piccione contro la politica, dal cono d’ombra della presunzione di colpevolezza e dei processi mediatici e di piazza.

Perché si tutelano insieme la rappresentanza democratica e i cittadini che hanno diritto a una pubblica amministrazione efficiente. E mentre si spuntano le unghie a certe toghe-primedonne, si porta beneficio alla gran parte della magistratura italiana, che agisce senza altri fini che il rispetto delle norme e il rigore delle inchieste e delle prove.

Un giorno qualcuno si interrogherà sull’oscuro periodo in cui in Italia si difendeva un articolo del codice penale (il 323) non in quanto proteggeva la collettività da reati, ma in quanto – secondo i suoi tifosi – permetteva di scoprirne altri. Il “reato spia”, le intercettazioni sul privato dei “terzi estranei”, il “processo a vita” dove sono appellabili dal pm persino le assoluzioni in appello, le carcerazioni prima anche di essere interrogati sono distorsioni della logica e non solo del diritto.

Oggi finiscono in soffitta, grazie a un ex pm che ha un’idea ben precisa dell’equilibrio dei poteri, della reputazione delle persone e del ruolo della pubblica accusa.

P.S. Italia Viva e Azione hanno votato per questa riforma. Ulteriore conferma che il riformismo delle idee funziona, al contrario di quello delle formule e dei personalismi.

L’antisemitismo e il peso delle parole: effetto collaterale della guerra a Gaza (tpi.it)

di 

Immagine di copertina
(Credit: AP Photo)

Da più parti gli ebrei in quanto tali sono stati considerati corresponsabili delle azioni belliche israeliane ma non hanno il dovere di discolparsi da ciò che fa Tel Aviv

C’è una parola che speravamo vedere relegata al passato e che, purtroppo, in questo momento storico è particolarmente presente: quella parola è antisemitismo. Odio e pregiudizi nei confronti degli ebrei sono qualcosa che con matrici differenti accompagna la storia da secoli e colpisce un pezzo di popolazione che, tranne rare eccezioni, si è sempre trovata a essere minoranza e a dover vivere con una vera e propria necessità di sopravvivenza.

Oggi, gli occhi del mondo intero guardano al Medio Oriente, al dramma in corso a Gaza, e al fianco delle critiche a Israele per il modo in cui sta conducendo questa guerra, per l’elevato numero di civili morti e per le numerose dichiarazioni di stampo estremista arrivate da partner di governo di Netanyahu, si è aperto un vaso di Pandora di azioni ostili rivolte in generale alla popolazione di religione ebraica.

I dati a riguardo parlano chiaro: in tutto il mondo i casi di antisemitismo sono aumentati notevolmente. In Italia sono passati dai 241 del 2022 ai 454 del 2023, negli Stati Uniti dai 3.697 ai 7.523. Il rabbino della Grande Sinagoga di Parigi Moshe Sebbag ha addirittura detto che oggi «non c’è futuro per gli ebrei in Francia».

Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, intervistato da La Stampa ha individuato diverse forme di antisemitismo presenti in Italia, a dimostrazione di quanto variegato sia il fenomeno, fatto che ha contribuito a renderlo a tratti incontrollabile.

Da più parti è sembrato vedere gli ebrei in quanto tali corresponsabili delle azioni belliche israeliane a Gaza, al punto che persino il Giorno della Memoria, in cui si ricorda il dramma dell’Olocausto, è divenuto quest’anno terreno di scontro. Lo ha spiegato Liliana Segre, che la Shoa l’ha vissuta in prima persona: mischiare quella giornata a quanto avviene a Gaza è un errore. Così come gli ebrei non hanno un dovere in quanto tali di discolparsi delle azioni di Israele.

Sempre Segre ha messo in luce la facilità con cui si usa la parola genocidio, uno dei crimini più infami esistenti, rischiando di svuotarla del significato originale. Nella società rapida e manichea di oggi non è facile chiarire questo punto, col rischio che negare di essere di fronte a un genocidio rappresenti non essere davanti a niente di grave.

Quanto succede a Gaza è gravissimo e ogni vita persa è una tragedia, non una statistica. Anche le parole però sono importanti. Si usa con leggerezza la parola “antisionista” per criticare l’operato israeliano, rischiando di sdoganare un altro fraintendimento: essere antisionisti significa mettere in discussione la legittimità dell’esistenza dello Stato di Israele (con tutto ciò che comporta), non essere oppositori di Netanyahu. Non sono leggerezze grammaticali: anche per come si usano le parole Roberto Cenati ha lasciato la guida dell’Anpi milanese e Daniele Nahum ha lasciato il Pd.

Non sempre ci ricordiamo una cosa. Gli ebrei sono circa venti milioni in tutto il mondo e circa 30mila in Italia. Pochissimi. Intorno alla loro storia e cultura, forse, si conosce soprattutto il patrimonio comune col cristianesimo e il dramma dell’Olocausto. Si faccia più informazione, si mettano più punti fermi, o altrimenti anche dell’antisemitismo non capiremo più la gravità.

Le due maschere di Meloni e quer pasticciaccio brutto sulla von der Leyen (linkiesta.it)

di

Disfatta a Bruxelles

La leader sovranista si trova in un paradosso politico: come capo dei Conservatori europei è rimasta fuori dai giochi delle nomine e non può far votare a favore della presidente della Commissione Ue, ma come presidente del Consiglio non può permettersi un voto contrario, come una Vannacci qualsiasi

C’è una commedia di Pirandello intitolata “La signora Morli uno e due”. Se al nome “Morli” sostituiamo “Meloni” abbiamo la fotografia della penosa situazione in cui si trova la presidente del Consiglio italiana a una settimana dalla votazione del Parlamento europeo per la conferma di Ursula von der Leyen come presidente della Commissione europea.

Meloni ha costruito un bel pasticcio con la formazione del gruppo dei Conservatori che non è minimamente riuscito a entrare nel grande gioco europeo, rimasto saldamente nelle mani dei vincitori delle elezioni di giugno, popolari, socialisti e comunque liberali.

Caso mai, nella partita stanno entrando i Verdi – un po’ di voti in più a Ursula, terrorizzata dai franchi tiratori, servono come il pane – che hanno posto, come in precedenza aveva fatto Renew Europe, un aut aut recepito dalle tre grandi famiglie: se entriamo noi non ci dovrà essere nessun rapporto con i Conservatori.

Dunque il gruppo meloniano, tra l’altro umiliato dai “Patrioti” parafascisti capitanati da Viktor Orbàn con madame Le Pen e Matteo Salvini al seguito, è tenuto ai margini dal grande accordo europeo per la semplice ragione che non si è staccato dalla destra nella quale peraltro è in minoranza.

L’operazione dei Conservatori pertanto è risultata come una scorciatoia trasformistica che le tre grandi famiglie democratiche non hanno avuto difficoltà a smascherare, così che il cordone sanitario è scattato anche per loro.

In questa situazione, “Meloni uno” come leader di Fratelli d’Italia non può votare a favore di Ursula, ma “Meloni due” in quanto capo del governo italiano non può nemmeno votarle contro come se fosse un Roberto Vannacci qualsiasi. Conclusione: gli europarlamentari di Fratelli d’Italia avranno libertà di scelta, cioè una scappatoia penosa per sfuggire alla micidiale contraddizione in cui la presidente del Consiglio italiana li ha ficcati.

Insomma, dal punto di vista strategico la vicenda europea per Meloni è stata una débacle. Con  la prospettiva non esaltante di essere totalmente ininfluente nelle dinamiche reali di Bruxelles oppure di subire il cannoneggiamento dei populisti di Orbàn-Salvini e dei nazisti a guida Adf (“Europa delle nazioni sovrane”) ogniqualvolta tentasse di avvicinarsi alla nuova maggioranza che si appresta a confermare Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea.

Un capolavoro pirandelliano, quello di Giorgia Meloni, solo che qui non siamo a teatro.