Caro Travaglio, la volontà di Zelensky a negoziare con Putin precede l’attentato a Trump (ilfoglio.it)

di ADRIANO SOFRI

PICCOLA POSTA

Travaglio e il Fatto? Dice una wikicitazione che il giornalista è colui che distingue il vero dal falso e pubblica il falso

Un certo numero di testate ieri dava la notizia che “per la prima volta”, e per effetto del grande balzo di Donald Trump vivo per un pelo, Volodymyr Zelensky aveva auspicato la presenza di una rappresentanza russa alla seconda conferenza di pace, programmata per novembre, dopo quella tenuta in Svizzera il 15 e 16 giugno scorsi.

La notizia aveva un particolare risalto sul Fatto quotidiano. Sommario e titolo in prima pagina: “Il primo effetto dell’attentato che favorisce Trump. Ora Zelensky vuole negoziare coi russi (violando la sua legge)”. Firmato: Michela A. G. Iaccarino.

Di spalla Travaglio, che ribadiva i concetti espressi negli adiacenti sommario e titolo, nel fidato stile della festa delle matricole protratta a tarda ora: “Il proiettile esploso sabato sera da Thomas Matthew Crooks ha colpito anche Zelensky. Che ieri, tomo tomo cacchio cacchio, appena riavutosi dallo choc, ha dichiarato con l’aria di dire la cosa più logica del mondo (quale effettivamente è) che, al summit autunnale di pace, ‘dovranno esserci anche rappresentanti russi’.

Prima o poi, ne pronuncerà anche il nome (non è difficile: Vladimir Putin) e revocherà il suo decreto del 4 ottobre 2022 che proibisce a tutti gli ucraini, cioè anche a lui, di negoziare con i russi”. Titolo ed editoriale proclamano due o tre falsità. L’annuncio di Zelensky non era alla sua prima volta, e dunque non veniva dopo, e tanto meno a causa di, “l’attentato che favorisce Trump”.

Questo, tanto per fare un esempio facile facile, è un brano della mia Piccola Posta dello scorso 4 luglio: “In questo contesto non so valutare alcuni segnali recenti. Ieri, all’indomani dell’incontro fra Zelensky e Orbán, il capo dell’ufficio presidenziale, Andriy Yermak, in visita a Washington, ha risposto alle voci sul progetto di Trump di mettere fine ‘in 24 ore alla guerra d’Ucraina in cambio della rinuncia all’ingresso nella Nato di Ucraina e Georgia, ribadendo che il suo paese non è disposto a compromessi su questioni essenziali quali ‘l’indipendenza, la libertà, la democrazia, l’integrità territoriale, la sovranità’.

Nei giorni scorsi sia il consigliere Mychajlo Podolyak che lo stesso Zelensky hanno parlato di una seconda e imminente conferenza di pace internazionale, dopo quella svizzera, alla quale ‘parteciperà anche una delegazione russa’. Che cosa significhi questa dichiarazione è il più singolare interrogativo – è singolare già che non ne sia stato chiesto un chiarimento”.

Dunque Zelensky e Podolyak (e lo stesso Yermak) avevano parlato della “delegazione russa” almeno una dozzina di giorni prima dell’orecchio destro di Trump.

Travaglio e il Fatto? Dice una wikicitazione che il giornalista è colui che distingue il vero dal falso e pubblica il falso. C’è un’altra affermazione di Travaglio che è una mezza verità, dunque peggiore di qualunque falsità. “e Zelensky revocherà il suo decreto del 4 ottobre 2022 che proibisce a tutti gli ucraini, cioè anche a lui, di negoziare con i russi”.

Zelensky emanò il suo decreto il 4 ottobre, e quattro giorni prima Putin, a ridosso dei referendum farsa nelle regioni solo parzialmente occupate dalle sue truppe, le aveva dichiarate – Zaporizhia, Donetsk, Lugantsk, Kherson – territorio della madre Russia, dunque non negoziabili, in nessuna circostanza. Zelensky non si era bruciato i vascelli alle spalle, se non replicando a Putin che l’aveva solennemente fatto per primo, e accompagnandolo con la minaccia dell’atomica.

Mi citerò anche qui, Piccola Posta del 1° ottobre 2022: “Putin deve aver creduto di aver messo l’Ucraina e i suoi alleati con le spalle al muro…  Non so se abbia capito di bruciarsi i vascelli alle spalle, e abbia scelto deliberatamente di farlo, perché azzardo e bluff non possono che rincararsi. C’è la solenne proclamazione dei quattro territori occupati come annessi alla grande patria russa, grazie ai referendum-farsa, e l’implicita pretesa che questo scherzo da Kirill autorizzi il ricorso russo a tutte le armi, nessuna esclusa”.

Da allora, e ancora ieri, Travaglio ripete la storiella di Zelensky che si proibisce il negoziato, e che “ora”, all’indomani dell’orecchio di Trump (e della coda di Biden, nella corrida Usa), vuole “violare la sua legge”.

Grazie a lui, non sono mai stato tentato di pensare a Travaglio come un giornalista, ma mi sorprendo ancora dei suoi collaboratori e collaboratrici. Per esempio, Iaccarino che firma in prima pagina quel titolo, nel testo scrive invece che “La scelta di Zelensky è forse nata dai timori per il sempre più probabile arrivo di Trump alla Casa Bianca”, e ne ipotizza altre possibili motivazioni.

E, ancora nel testo, ricorda i “vascelli bruciati” di Putin: “La formula di pace di Kyiv prevede il ritiro delle truppe russe nel rispetto dei confini del 1991 mentre nella costituzione della Federazione russa le regioni annesse fanno già parte di ciò che la Russia considera suo territorio (e Mosca ha sempre escluso la rinegoziazione di questo punto)”.

I dialetti sono un grosso problema per i tribunali (ilpost.it)

di Isaia Invernizzi

A causa di scarse competenze e trascuratezza spesso 
si generano errori nel trascrivere le 
intercettazioni, che possono portare persino a 
condanne ingiuste

La trascrizione di una conversazione in dialetto intercettata tra un uomo accusato di omicidio e sua madre sembrava una faccenda veloce, che in poco tempo avrebbe permesso di arrivare a una sentenza.

Invece un anno fa il tribunale di Udine si trovò con un problema inaspettato: quando l’interprete del dialetto foggiano scelto dal tribunale iniziò ad ascoltare le conversazioni si rese conto di non capire quasi nulla. L’uomo accusato di omicidio e la madre erano di San Severo, una cittadina della provincia di Foggia, in Puglia, e per questo parlavano in dialetto sanseverese, più peculiare e diverso dal foggiano. L’interprete fu costretto a rinunciare all’incarico e il tribunale dovette cercare un nuovo interprete esperto di sanseverese, perdendo molto tempo.

Quando nei processi c’è di mezzo il dialetto, tuttavia, i ritardi sono la conseguenza più trascurabile. Ce ne sono alcune più gravi, tra cui la più grave di tutte: il dialetto trattato con superficialità può portare a condanne ingiuste, a volte clamorose.

Il dialetto è parte di un problema più generale che riguarda l’utilizzo delle intercettazioni, su cui negli ultimi anni si sono basate moltissime inchieste e che sono servite a motivare molte sentenze di condanna. Il rischio più significativo e trascurato nell’uso delle intercettazioni riguarda la fedeltà della trascrizione delle conversazioni registrate, perché in Italia non ci sono criteri condivisi o prassi ufficiali da seguire.
Ogni persona incaricata fa un po’ come vuole: c’è chi trascrive tutto parola per parola, chi si limita ai dialoghi più interessanti, chi sottolinea alcuni passaggi. Non è prevista nemmeno una professione specifica. Le trascrizioni vengono fatte talvolta dalla polizia giudiziaria, a volte dai trascrittori forensi che però hanno formazioni molto diverse, in altri casi da periti incaricati dalle parti.
Da anni esperti di linguistica forense lamentano queste approssimazioni, che i tribunali invece tollerano e giustificano forti di una sentenza della Cassazione che nel 2018 minimizzò questi problemi, definendo le trascrizioni una «mera trasposizione grafica» delle intercettazioni. In realtà molti studi italiani e internazionali hanno dimostrato che la trascrizione di un’intercettazione è un’operazione molto più complessa di una semplice trasposizione grafica, esattamente come è complesso il parlato.

Oltre al contenuto sono importanti la forma, le pause, il contesto e il non detto, i rapporti tra le persone intercettate. Uno dei motti di chi si occupa di linguistica forense dice che una trascrizione troppo “pulita” non è mai una buona trascrizione. A tutto questo il dialetto aggiunge un ulteriore livello di complessità e di difficoltà, anche in questo caso trascurato dal sistema giudiziario italiano.

Chi trascrive una conversazione in dialetto non può far altro che utilizzare una tastiera da PC e quindi adattare le regole della lingua italiana al dialetto che sta sentendo. A dispetto della sua trascrizione, tuttavia, il dialetto può essere pronunciato in diversi modi non riproducibili precisamente in forma scritta. «Una parola scritta può essere pronunciata in due modi completamente diversi: vale per tutti i dialetti», dice Luciano Romito, professore di glottologia e linguistica, oltre che direttore del laboratorio di fonetica dell’università della Calabria.

«Come si può trascrivere questa differenza? E siamo certi che il magistrato o il giudice capisca questa differenza? Inoltre il nostro parlato è “multi-modale” [cioè avviene in modi diversi che riguardano anche la postura e il tono di voce, ndr] e moltissimo dipende dall’intenzione con cui pronunciamo una parola. Tutto questo è ancora più complicato nei dialetti».

Nelle indagini possono essere commessi molti errori di trascrizione, che spesso si trascinano durante i processi fino alla sentenza definitiva. In alcuni casi gli stessi errori sono la causa di condanne ingiuste. La storia di Angelo Massaro è esemplare in questo senso. Massaro fu arrestato il 15 maggio del 1996 con l’accusa di avere ucciso un uomo, Lorenzo Fersurella, in provincia di Taranto. La procura chiese il suo arresto grazie a un’intercettazione fatta nel 1995 durante un’indagine per spaccio di stupefacenti, in cui Massaro era stato coinvolto e per il quale era stato poi condannato a 10 anni di carcere.

Dalle intercettazioni ambientali per le indagini sui reati di spaccio, venne estratta una frase in particolare. Parlando con la moglie al telefono una settimana dopo che Lorenzo Fersurella era scomparso, Massaro aveva pronunciato una frase che venne fraintesa. Massaro disse, in dialetto: «Sto portando stu muers». Muers, in dialetto pugliese, è una parola che si usa per indicare qualcosa di pesante e che è d’impaccio, come lo slittino da neve che Massaro stava trasportando sulla sua auto. Nei verbali “muers” diventò “muert”, morto. Nel 2017 Massaro venne assolto dopo aver trascorso più di vent’anni in carcere per colpa di quella consonante mal trascritta.

Un altro rischio dovuto al dialetto riguarda l’identificazione della persona intercettata, un lavoro che come nel caso delle trascrizioni viene assegnato a persone senza una formazione specifica. «Quando le voci usano il dialetto la comparazione è più complicata e incerta, anche perché non esiste una banca dati che comprende i dialetti», dice Milko Grimaldi, direttore del centro di ricerca interdisciplinare sul linguaggio dell’università del Salento.

«Servono studi approfonditi sulle peculiarità dialettali di una determinata area geografica, a volte molto piccola. Va analizzato l’uso delle vocali, l’esclusione di alcune precise parole. Insomma, non è affatto semplice».

Nel 2017 Grimaldi realizzò la perizia fonica che portò alla liberazione di Medhanie Tesfamariam Berhe, un uomo eritreo all’epoca 29enne, detenuto per un anno e mezzo in carcere perché accusato di essere Medhanie Yehdego Mered, uomo di 35 anni originario dell’Eritrea, uno dei capi di una grande organizzazione con base in Libia che gestiva il traffico di migranti verso l’Europa.

Le prove presentate dalla procura si basavano sull’uso di un software per l’analisi della voce non in grado di riconoscere la lingua eritrea parlata da Medhanie Yehdego Mered nell’intercettazione, il Tigrinya, e per questo erano poco attendibili. La perizia fonica di Grimaldi confermò che la procura aveva commesso un errore.

Sia Grimaldi che Romito vengono chiamati spesso dagli avvocati per realizzare perizie di parte, o dai giudici per le perizie chieste dai tribunali per risolvere problemi simili che interessano intercettazioni in dialetto. Quando – quasi sempre – vengono fatti errori in fase di trascrizione, i processi durano molto di più e in molti casi non arrivano nemmeno a conclusione: le udienze si trascinano tra i conflitti di difesa e accusa.

«Si affidano a noi periti pensando di trovare una soluzione definitiva, ma se i danni sono stati fatti alla base è tutto più difficile», dice Grimaldi. «L’uso delle intercettazioni è cresciuto moltissimo come fonte di prova, mentre non è cresciuta la sensibilità nel valutare questo materiale. Molti processi che potevano essere risolti in primo grado arrivano perfino alla revisione».

Secondo Romito c’è anche una sorta di dipendenza di magistrati e giudici nei confronti delle trascrizioni, che vengono considerate quasi sempre certe e inconfutabili. «Quando vengo chiamato come perito, se quello che dico non rispetta la linea del pubblico ministero sostenuta dalle trascrizioni il problema divento io e non più la trascrizione», dice. «I giudici potrebbero “tornare sulla bobina”, come si dice in gergo, cioè ascoltare le intercettazioni e magari rendersi conto che si sente poco, che c’è troppo rumore e che quindi le intercettazioni sono inutilizzabili, eppure non lo fanno quasi mai».

Questa generale approssimazione nel trattare le intercettazioni, in particolare quelle in dialetto, dipende molto dal fatto che i trascrittori non sono professionisti certificati: vengono pagati pochissimo per trascrivere ore e ore di intercettazioni e sono tutti precari. Lo scorso 19 marzo i sindacati hanno organizzato uno sciopero nazionale proprio per chiedere condizioni di lavoro migliori.

Oltre a non esserci un albo professionale dei trascrittori, in Italia non esiste un protocollo ufficiale per le buone prassi o un percorso formativo obbligatorio e unico. Una proposta di linee guida per i trascrittori è stata fatta dall’Osservatorio sulla linguistica (OLF) forense, costituito da un gruppo di professionisti e professioniste che lavorano anche nel sistema giudiziario italiano, e che da tempo chiedono maggior attenzione su questo tema.

Sulla base di quel documento, finora soltanto Toscana, Lazio, Marche, Abruzzo, Basilicata e Calabria hanno riconosciuto ufficialmente le figure di “tecnico di analisi e trascrizione di segnali fonici” e “tecnico di gestione della perizia di trascrizione in ambito forense”.

Questo video non mostra un uomo arrestato perché aveva ripreso l’arrivo del missile dell’ospedale pediatrico di Kiev (open.online)

di David Puente

FACT-CHECKING

Si sostiene che sia accusato di aver fornito il video virale usato dai russi per accusare Kiev, ma la vicenda risulta diversa e la narrazione non regge

Circola il video di un uomo arrestato dopo il bombardamento russo dell’ospedale pediatrico di Kiev. Secondo la narrazione, si tratterebbe dell’autore del noto video che riprende il missile mentre scende e colpisce la struttura. Per quale motivo sarebbe stato arrestato?

Secondo i diversi post social, l’aver realizzato il video che avrebbe consentito ai russi di identificare un missile ucraino abbattersi contro l’ospedale pediatrico. La storia risulta ben diversa, anche per quanto riguarda il video del missile.

Analisi

Ecco il testo che circola con le riprese del presunto arresto dell’autore del video:

La Gestapo di Zelensky ha arrestato il ragazzo che ha girato il video dove si vede, senza ombra di dubbio, che il missile che cade sull’ospedale a Kiev è un missile antiaereo AIM-120 in dotazione al sistema di difesa aerea NASAMS dei naziukraini ! Ciò ha vanificato tutti gli sforzi della sporca propaganda nazista e ripresa dai corrottissimi media occidentali che avevano parlato, ovviamente, di un missile russo…

Nel video leggiamo il seguente testo in italiano:

Una notizia dal campo di concentramento di Zelenskij: il ragazzo ucraino di Kiev che dal balcone di casa sua ha girato il video nel quale si vede che l’ospedale pediatrico è stato colpito da un missile statunitense dell’antiaerea ucraina, oggi pomeriggio è stato arrestato dalla polizia e dall’SBU, servizi segreti ucraini.

Grazie a questo ragazzo l’intera operazione di propaganda occidentale ha fallito. Adesso gli ucronazisti si vendicheranno con lui.

La fonte del video

Il video è stato scaricato dal profilo TikTok @liberta.di.parola2.0. Risulta pubblicato «2 giorni fa» (come riportato nello screenshot qui sotto, realizzato in data 11 luglio 2024 alle ore 19:30), pertanto si potrebbe presumere intorno al 9 luglio o al massimo la sera di lunedì 8 luglio 2024.

Nel video è presente un watermark, quello del canale Telegram ucraino “РЕАЛЬНИЙ Київ” (@kievreal1). Lo stesso canale pubblica il video del missile, e in buona risoluzione, in un post di lunedì 8 luglio 2024 alle ore 22:07. Il video dell’arresto viene pubblicato molte ore prima (alle 14:56) con una descrizione che non combacia con quella della narrazione filorussa diffusa sui social.

Secondo il post del canale Telegram, un uomo straniero è stato arrestato vicino all’ospedale. Si sostiene qualcuno lo abbia sentito parlare in russo e che non abbia risposto ad alcuna domanda.

La vicenda è ripresa dai media ucraini

Secondo Rbc.ua sarebbe stato fermato perché parlava in inglese e filmava tutto nei pressi dell’ospedale appena bombardato. Korrespondent.net riporta che l’uomo è stato arrestato in quanto ritenuto sospetto e che l’avrebbero sentito parlare in inglese e in russo.

Un secondo video dell’arresto

Un secondo video, pubblicato lunedì 8 luglio alle 15:08 dal canale Telegram “УКРАЇНА СЕЙЧАС” (@u_now), mostra il volto della persona arrestata. Secondo il canale, i testimoni avrebbero sospettato di lui in quanto parlava in russo. Una volta fermato, avrebbe smesso di parlare in russo per parlare in inglese.

Perché la narrazione non regge

Il video del missile circolava da ben prima dell’arresto. Ci sono diverse pubblicazioni sui canali Telegram ucraini, alle ore 13:31 e 14:23. Uno di questi riporta la clip in alta risoluzione (sotto riportata nello screen), ossia quella che si era rivelata utile per identificare il missile russo sia da Open che da Bellingcat.

Il canale Telegram della propaganda russa “War on Fakes” aveva usato uno dei video, quello a bassa risoluzione (sotto riportato nello screen), per sostenere la teoria del missile ucraino.

Il post dove “War on Fakes” riporta la clip e l’analisi fuorviante risale a lunedì 8 luglio 2024 alle ore 15:39, ossia dopo l’arresto dell’uomo «straniero» a Kiev.

Conclusioni

L’uomo ripreso mentre viene arrestato a seguito del bombardamento dell’ospedale pediatrico di Kiev non viene indicato come l’autore del video del missile. La clip proviene da un canale ucraino dove si sostiene che l’uomo fosse uno straniero sospettato di parlare russo mentre filmava la zona del bombardamento.

Secondo ulteriori post dei canali e media ucraini, al momento del fermo avrebbe iniziato a parlare solo in inglese. La narrazione del principale canale sostenitore della teoria del missile ucraino è iniziata a circolare dopo l’arresto.

Il video, quello ad alta risoluzione, ha in realtà confermato la presenza del missile russo.

L’esclusione delle voci ebraiche dagli spazi progressisti (linkiesta.it)

di

Queer o giudeo?

Kacper Max Lubiewski, attivista cresciuto in Polonia, racconta la sua storia come una testimonianza delle sfide che è costretto ad affrontare chi naviga tra identità multiple, sottolineando l’importanza della solidarietà, della comunità e della lotta continua contro i pregiudizi e l’oppressione

Essere ebrei oggi rappresenta una sfida che spesso passa inosservata, soprattutto all’interno degli spazi dedicati all’attivismo ambientale e queer. Ce lo racconta Kacper Max Lubiewski. Cresciuto in Polonia dove la chiesa cattolica è stata il fulcro di opposizione al regime comunista e la rete che regge la società odierna, Lubiewski ha scoperto solo all’età di dieci anni di essere ebreo.

La madre – nata a ridosso della Guerra dei Sei Giorni e del conseguente risentimento antisemita, e della campagna di pulizia etnica del 1968 che il governo comunista promosse per distrarre gli studenti polacchi in protesta – crebbe con il precetto di celare la sua identità ebraica al mondo, incluso a suo figlio. La rivelazione arrivò con monito severo: «Sei ebreo, ma nessuno deve saperlo».

Frequentando una scuola cattolica dove gli ebrei erano etichettati come “assassini di Cristo”, e il termine “żydzić” (comportarsi da ebreo) significava “imbrogliare”, il giovane Lubiewski tenne per sé la nuova scoperta.

A quattordici anni, quando ogni adolescente cerca di definirsi e di dare un senso alla propria esperienza, Lubiewski iniziò il suo attivismo, consolidò la sua identità queer e riscoprì le sue radici ebraiche. Non avendo nessuno con cui condividere il suo percorso nella cittadina di Opole, si iscrisse al Centro Comunitario Ebraico di Cracovia (Jcc), dove sua madre lo accompagnava ogni venerdì per le cene di Shabbat.

(Sofia Tranchina)

In quella piccola comunità, decimata da anni di repressione e purghe, i membri condividono tra loro quel che si ricordano dei riti e delle tradizioni ebraiche, uniti dall’esperienza condivisa di doversi nascondere e dal desiderio di invertire il corso dell’assimilazione imposta dall’alto.

«Credo che le storie ebraiche siano altamente rilevanti oggi, e in qualche modo sembrano sempre risuonare con ciò che accade nella mia vita. Non sono sicuro della mia fede in Dio, ma mi sento profondamente legato alla cultura ebraica laica e allo Stato di Israele», racconta Lubiewski.

Nel contesto oppressivo della società polacca, la solidarietà tra gruppi minoritari è esemplificata dalla presenza di una bandiera Lgbtq+, una bandiera ucraina e una bandiera israeliana fuori dall’edificio del Jcc. Tuttavia, nei circoli dell’attivismo sociale e queer, l’accoglienza non è stata la stessa. L’identità ebraica di Lubiewski ha affrontato ostilità quotidiane, aggravate dagli eventi che hanno seguito il 7 ottobre. Questo ha portato alla graduale erosione delle amicizie e alla fine della sua relazione.

«I non ebrei hanno il privilegio di disconnettersi dal dibattito su Israele, ma per noi è una questione di esistenza e sopravvivenza. Quando le persone sono a disagio con l’esistenza di Israele, sono, per estensione, a disagio con la mia stessa esistenza», dice Max Kacper Lubiewski.

Spinto dal desiderio di riconnettersi con le sue origini, Lubiewski ha intrapreso un pellegrinaggio solitario a Łomazy, il villaggio d’origine di suo nonno Jankiel – figura resiliente, che sopravvisse alle purghe antisemite, in particolare al massacro del 1942, e all’internamento ad Auschwitz. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Łomazy fu occupata dai sovietici e i suoi residenti, incluso Jankiel, furono espulsi e costretti a migrare verso ovest, nei nuovi territori sottratti alla Germania.

(Sofia Tranchina)

Determinato a difendere la sua identità sfaccettata, Lubiewski ha partecipato al programma Taglit Birthright e successivamente si è trasferito in Israele. Lì, cercando una comunità che condividesse la sua passione per l’attivismo e la giustizia sociale, si è unito alla Solidarity House – un punto di incontro per una nuova generazione di attivisti di sinistra. Gestito da volontari di associazioni no-profit, il centro ospita il cineclub “Resistance Cinema”, che proietta film e documentari offrendo prospettive alternative sui conflitti in corso e le questioni sociali.

«Trovo essenziale confrontarmi con diverse narrazioni – dice Lubiewski –, mettendo in discussione le mie stesse opinioni e ampliando la mia comprensione delle questioni critiche. Mi considero sia pro-palestinese che pro-israeliano, sostenendo il diritto all’autodeterminazione per entrambi i popoli in stati indipendenti e sovrani.

In questo momento storico, credo che spetti alla leadership palestinese muoversi verso la deradicalizzazione della loro società e accettare una convivenza pacifica. Tuttavia, riconosco anche che Israele deve smantellare i suoi sentimenti sciovinisti affinché il conflitto possa terminare».

Per mantenere viva la memoria delle sue radici e della sua identità, Lubiewski ha iniziato a decorare il suo corpo con tatuaggi. Lasciando la Polonia, ha tatuato un poema di Miłosz Biedrzycki sul petto: «Ti prometto, ovunque io sia, ricorderò sempre Akslop».

Akslop – Polska, cioè Polonia, scritto al contrario – evoca un luogo immaginario e idilliaco, intriso di profonde connessioni umane e malinconia nostalgica: «Nonostante le notevoli sfide affrontate in Polonia, dall’omofobia pervasiva all’antisemitismo, dalla brutalità della polizia all’erosione delle norme democratiche, rimango fermamente legato alle mie radici. La complessità di essere ebreo nella sinistra polacca mi ha insegnato resilienza e coraggio», aggiunge Lubiewski.

(Sofia Tranchina)

Un altro tatuaggio sullo stomaco rende omaggio alla Kabbalah, raffigurando tre lettere ebraiche che simboleggiano elementi naturali. «Serve a ricordare – racconta – la nostra interconnessione all’interno di questo vasto ecosistema». Continuando a esplorare e celebrare la sua identità ebraica e queer, Lubiewski mantiene viva la memoria dei suoi antenati e delle loro lotte.

Dal primo incontro al Jcc, al viaggio spirituale a Łomazy, fino al trasferimento in Israele, sono tutti passi su un percorso coerente verso la riconquista dell’identità una volta negata alla sua famiglia. «Di recente, mi sono chiesto: il mio taglio di capelli è abbastanza ebraico? Il mio nome è abbastanza ebraico? Poi mi sono risposto: sono ebreo, quindi tutto ciò che faccio è ebraico. Sono queer, quindi tutto ciò che faccio è queer».

La storia di Lubiewski è una testimonianza delle sfide durature affrontate dalle comunità ebraiche e della resilienza necessaria per navigare tra identità multiple in un mondo che spesso richiede conformità e polarizzazione. Il suo percorso sottolinea l’importanza della solidarietà, della comunità e della lotta continua contro i pregiudizi e l’oppressione.

Prove di caos (corriere.it)

di Paolo Mieli

Questione di un millimetro. 

Fosse andato a segno il colpo di Thomas Matthew Crooks, gli Stati Uniti sarebbero precipitati in una guerra civile.

Probabilmente, con il caso Biden ancora in alto mare, sarebbero andate a monte le elezioni presidenziali previste per il prossimo 5 novembre. E con il sistema statunitense paralizzato, l’intero Occidente sarebbe stato messo in ginocchio. Più di quanto non lo sia già. Impossibile, allo stato attuale, che venga alla luce qualcosa di certo circa l’identità «segreta» (ammesso che ce ne sia una) dell’attentatore.

Ci verranno forniti indizi di sue passate appartenenze per giorni e giorni. Per anni, per decenni. Resta il mistero di come Crooks, dotato evidentemente di un’ottima mira e di un’indiscutibile capacità di usare le armi, abbia potuto avvicinarsi indisturbato ad una distanza di centoventi metri dal bersaglio prescelto, appostarsi e sparare.

Anche qui troveremo, come sempre è accaduto, decine di persone che diranno di aver visto, previsto, avvertito e di non aver ricevuto ascolto. Un copione stranoto. Che ognuno di noi adatterà agevolmente alle proprie convinzioni preesistenti a molto prima che l’atto si compisse.

Quello che ci appare chiaro è, invece, il quadro generale che sta sullo sfondo dell’attentato a Donald Trump. Da anni un Occidente sprovvisto di leader — eccezion fatta per Joe Biden al netto dei problemi ben noti — è sotto scacco di Cina, Russia e Iran che fanno proseliti a man bassa nel cosiddetto Sud del mondo. Abbiamo nominato per prima la Cina perché è con il Paese guidato da Xi Jinping che si arriverà alla sfida finale.

Pechino dà le carte, acquista intere aree economiche in ogni parte del globo, accende la luce verde alle guerre da cui pensa di poter trarre convenienza. Dispone, inoltre, nello stesso mondo atlantico di personalità che in modo più o meno esplicito (sempre ben individuabile, comunque) si son messe al suo servizio. E ha fissato l’appuntamento strategico della partita del secolo che consiste nella riconquista di Taiwan entro e non oltre il 2049. Possibilmente molto prima. Senza sparare un colpo se le cose vanno come stanno andando.

Entro quella data l’Occidente e i partner subalterni della Cina si saranno dissanguati in guerre senza fine talché, quando scoccherà l’ora di Taiwan, nessuno vorrà più saperne di combattimenti, missili, stragi. Neanche per interposto Paese. L’Europa ha dimostrato in margine alla vicenda ucraina di che pasta è fatta.

Qualche buona sorpresa è venuta dai Paesi confinanti con la Russia, c’è stata una sostanziale tenuta della Gran Bretagna, in parte della Germania e, imprevedibilmente, dell’Italia (ma solo fino a qualche giorno fa). Per il resto chiacchiere, rinvii e scarsa disponibilità a spendere in nuove armi. Completato il tutto da corali invocazioni alla pace (cioè, alla resa) accolte da Putin con benevolenza e talvolta qualche cenno di derisione.

Restando al nostro continente dobbiamo però menzionare positivamente le figure apicali della Ue e della Nato che si sono mostrate all’altezza dei tempi. Compensate da due leader, Orbán (in compagnia dello slovacco Robert Fico) nonché Erdogan (solo Nato), che hanno volentieri giocato di sponda con il triangolo di cui si è detto.

La partita, diciamocelo con franchezza, non è ben messa. Resta però l’incognita più importante, quella statunitense. E qui veniamo al punto. Biden, con tutti i problemi su cui torniamo per la terza volta, si è mostrato una roccia ancorché forse eccessivamente prudente nell’inviare armi a Zelensky nei tempi in cui quelle armi servivano. Con ottime ragioni, per carità. Non voleva che gli fosse imputabile lo scatenamento, magari a causa di un’avventatezza ucraina, di una guerra vera e propria con la Russia.

Ma è Trump l’incognita più grande. Putin in ogni sua dichiarazione fa in modo di farcelo apparire come una sua marionetta, come se fosse una sorta di Marine Le Pen o uno di quegli europei ai quali abbiamo accennato che da tempo si sono messi a disposizione dei cinesi. Ma l’uomo, con le sue mattane, potrebbe rivelarsi una sorpresa.

Non è detto che — dovesse tornare alla Casa Bianca — si trasformerebbe in un docile esecutore degli ordini russi, iraniani e cinesi. Beninteso: per quel che ci riguarda consideriamo Biden affidabile e Trump no, assolutamente no. Ma, per andare sul sicuro, a Mosca, Pechino e Teheran una guerra civile che travolga gli Stati Uniti conviene in ogni caso assai più dell’imprevedibilità di Trump.

Con questo sia chiaro non intendiamo insinuare che quei tre Paesi o altre entità a loro collegate abbiano avuto niente a che spartire con l’attentato al Butler in Pennsylvania. Vogliamo solo dire che, se il colpo di Crooks fosse andato a segno, Cina, Russia e Iran avrebbero avuto di che gioirne. Può darsi che un bel caos a Washington ai loro occhi sia preferibile anche a The Donald.

PS. Il dibattito politico sull’attentato a Trump qui in Italia è stato monopolizzato da un’accesa discussione circa l’opportunità dello spostamento di una giornalista dalla conduzione di uno speciale del Tg1 sul caso del giorno. Questo sì che è un modo di mostrarci all’altezza dei tempi in cui viviamo.