Il brivido della notizia, la profezia di Scandal e il Trump caravaggesco (linkiesta.it)

di

Pallottole e fricicchi

Comunque sia andata, provo grande gratitudine per averci ricordato come possono essere interessanti i giornali quando non si occupano delle beghe giudiziarie di Morgan, dei lapsus di Biden, dei concerti di Taylor Swift

«Fermi, mi serve un virgolettato». Lo dice il giornalista in “Civil war”, il più noioso film con gli spari della storia del cinema, fermando i soldati che stanno procedendo a un’esecuzione sommaria del presidente nel suo ufficio alla Casa Bianca. Il presidente dice «Non lasci che mi uccidano», quello è soddisfatto della frase in esclusiva, e i soldati possono dunque procedere ad ammazzarlo (mentre la giovane fotoreporter scatta).

Non credevo avrei mai citato “Civil war” nella mia vita, e non solo perché l’abbiamo visto in quattro: perché chi mai si aspetta che un sabato notte, mentre hai appena finito di vedere una puntata di “West Wing” in cui una tizia della Casa Bianca, al poligono di tiro, chiede alla sua guardia del corpo come faccia ad avere una mira così precisa, chi si aspetta che dal nulla compaiano sul sito del New York Times quelle foto di Donald Trump.

Portato via dalle guardie del corpo col pugno alzato e il sangue che gli colava in faccia. Foto che, non riesco a crederci io stessa, nel momento in cui scrivo questo articolo e dalla notizia e dalle foto sono passate quindici ore, nessuno ha ancora definito «caravaggesche».

L’adrenalina dei fotoreporter, ormai rassegnati a una campagna elettorale noiosissima in cui al massimo potevi appostarti fuori dalla Casa Bianca per vedere se entrava un neurologo, e improvvisamente trovatisi per caso ad assistere al farsi della storia a un qualunque comizio a Butler, Pennsylvania, quella è stata il mio primo pensiero.

Il secondo non è stato il tizio di “West Wing” che a domanda sulla mira rispondeva «Ci danno lezioni»: uno dei servizi segreti ha più mira e uccide più rapidamente un attentatore che, non essendo professionalmente addestrato, è riuscito solo a graffiare un orecchio a Trump (ammazzando oltretutto un tizio del pubblico: particolarmente scarso come cecchino).

Non è stato neanche, il secondo pensiero, per Silvio Berlusconi che scendeva dalla macchina su cui lo stavano portando via, e saliva sul predellino, col sangue che gli colava in faccia, per rassicurarci tutti: si era preso un modellino del Duomo in faccia, ma era vivo e determinato a rompere i coglioni ancora a lungo.

Era il 2009, Filippo Ceccarelli in “B.” la definisce «una presenza rafforzata dal martirio, un’auto-ostensione che riaffermava il patto con il suo mondo e con sé stesso». È sempre sfogliando “B.” che ricostruisco che fu quella la volta in cui Berlusconi disse «L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio», più memorabile del «fightfightfight» (o «fuckfuck fuck»? Le lectio divergono) di Trump con l’orecchio sanguinante.

Il secondo pensiero non è stato neppure per Elon Musk, precipitatosi a dichiarare che hanno provato ad ammazzare anche lui, due volte di recente. Musk l’amico che abbiamo tutti, quello al quale raccontiamo il nostro problema del giorno e lui ne ha sempre uno uguale ma più grosso, uguale ma più urgente, uguale ma più degno d’essere raccontato.

Il secondo pensiero non è, sorprendentemente, stato per Jack Schlossberg, figlio di Caroline Kennedy e quindi nipote di JFK, che pochi giorni fa è stato annunciato come nuovo giornalista politico di Vogue America (un po’ perché unico nipote maschio di Kennedy, moltissimo perché famosetto su TikTok). Jack, abbiamo un primo incarico per te: coprici l’attentato, ma in modo glamour (se non scrive «caravaggesque» lui, non so proprio chi).

E, me ne rammarico, il secondo pensiero non è stato per la regina Elisabetta, giacché solo ieri mi sono ricordata di Elisabetta a cavallo, alla solita cerimonia del Trooping the colour alla quale quest’anno abbiamo sbirciato il ritorno in pubblico di Kate Middleton. Era il 1981, un tizio sparò sei colpi, il cavallo s’imbizzarrì, Elisabetta lo tenne a freno e proseguì la parata come nulla fosse. Tra i pochi vantaggi d’una monarchia che t’impone d’essere all’altezza del ruolo, il ritrovarti più addestrata a certe circostanze di quanto lo fossero le guardie del corpo in “West Wing”.

Il secondo pensiero è stato per Cyrus. Cyrus è il personaggio più strepitoso di “Scandal”. Omosessuale repubblicano che si finge etero fino oltre l’elezione del presidente cui fa da capo dello staff, capo dello staff che ha assai più fiuto politico del presidente, ambizioso frustrato e cattivissimo. A un certo punto Cyrus individua un giovane governatore ispanico perfetto per candidarsi a prossimo presidente. Solo che fuori dal suo Stato non lo conosce nessuno.

Ingaggia un neonazista (lo ingaggia ricattandolo: gli fa rapire il figlio) acciocché spari al governatore che eroicamente si frapporrà tra le persone del suo ufficio e il tizio armato: deve solo ferirlo, e le immagini faranno il resto. E così va. Certo, però, se quello avesse sbagliato mira e l’avesse ucciso.

È ancora niente rispetto a quel che accade molte puntate di “Scandal” dopo, quando Cyrus è diventato vicepresidente ma si accorge che la sua capacità di influenzare la presidente è arginata dal di lei debole per un capo dello staff belloccio. Organizza l’hackeraggio dell’aereo vicepresidenziale sul quale sta andando a un convegno. Sapendo bene che la regola dice che, se si perde il controllo dell’aereo di Stato che potrebbe quindi essere usato come arma contro la popolazione, dalla Casa Bianca bisogna abbatterlo.

Tutto funziona, naturalmente: da terra quelli su cui contava per il controhacking sono efficienti, i caccia mandati ad abbattere il suo jet vengono fermati all’ultimo istante, e il cellulare della giornalista – che lo riprende mentre fa il suo discorso eroico sulla necessità del sacrificio a chi è sull’aereo con lui – riesce a inviare il filmato. La sua popolarità è alle stelle, ma se il controhacking avesse tardato un altro istante sarebbe morto.

La realtà mi pare non possa essere all’altezza di “Scandal”, e Donald Trump sicuramente non è all’altezza di Cyrus Beene: se l’attentato se lo fosse organizzato da solo, probabilmente qualcosa sarebbe andato storto, e sicuramente i giornali americani lo scoprirebbero in meno di due giorni. (Ma poi non sarebbe presto, con la memoria da pesce rosso dell’elettorato? Per avere efficacia elettorale, doveva farsi graffiare l’orecchio a ottobre).

Comunque sia andata, grande gratitudine per averci ricordato cos’è una notizia, e come possono essere interessanti i giornali quando ne hanno una, invece di accontentarsi delle beghe giudiziarie di Morgan, dei lapsus di Biden, dei concerti di Taylor Swift. Non ho guardato i siti italiani, sabato notte, e quindi non so chi abbia fatto gli articoli sull’attentato. Immagino uno stagista, visto che tutti i professionisti erano a San Siro a occuparsi dei braccialetti delle swifties.

Il mio terzo pensiero, mentre mi si riempiva il telefono di messaggi che dicevano vabbè, basta, è finita, con questa ha vinto le elezioni, povero Biden e povero pure chiunque dovesse sostituirlo, il mio terzo pensiero è stato di nuovo per l’adrenalina.

Per quel “Civil war” cui credevo non avrei pensato mai. Per la giovane fotoreporter che, dopo una giornata passata a fotografare gente che le hanno ammazzato davanti, dice che non ha mai avuto tanta paura e non si è mai sentita così viva. In fondo cos’è mai la fine della democrazia, se in cambio ne otteniamo un friccico che movimenti le nostre noiosissime giornate.

(Max Letek)

L’America profonda non esiste (rivistastudio.com)

di Andrea Beltrama

In Italia l'espressione ritorna ogni volta che 
si devono spiegare la politica negli Usa o 
personaggi come J.D. Vance. 

Ma la formula non descrive l’America reale, solo una versione esotica del Paese che esiste negli occhi di chi lo osserva da lontano.

Dal primo dibattito presidenziale non sono nemmeno passate tre settimane. Il tempo di assistere a un attentato, esaminare minuziose perizie psichiatriche a distanza sulla salute di Joe Biden, e registrare la nomina freschissima di J.D. Vance come candidato alla vice-presidenza per i Repubblicani. In buona sostanza, dopo una stanca fase di studio, la corsa alla presidenza americana sembra essere finalmente entrata nel vivo.

E con essa, ha iniziato a consumarsi a velocità sempre crescente uno dei rituali più classici dei mesi di campagna elettorale: la grandinata di commenti, previsioni, saggi di sociologia in in cui esperti di varia estrazione e appartenenza politica articoleranno la loro ricetta per spiegare l’America.

Mentre tormentoni linguistici inossidabili torneranno a darci materiale per partite di bingo all’ultimo sangue. “Un paese diviso”; la “working class”; le “elite costiere” e i loro “prestigiosi atenei”; “il voto dei latinos”. Oppure ancora “le casalinghe di periferia” — perché “donne dei quartieri residenziali suburbani” suonerebbe effettivamente malissimo; o i “rednecks”, con i loro fucili ovviamente spianati e pronti a sparare

Tutto impallidisce, però, di fronte alla regina di tutte le ossessioni: l’America profonda. Un termine elusivo, magnetico, che si è fatto strada nei generi testuali più vari. Blog di viaggio, articoli di fondo, recensioni di concerti di Bruce Springsteen e Bob Dylan, reportage fotografici.

Fino alle opere, quelle davvero illuminanti, dei grandi studiosi della cultura americana – da Alessandro Portelli Marco D’Eramo. Ma il cui significato continua però a rimanere piuttosto difficile da afferrare.

Cosa si intende, esattamente, per America profonda? Attestata nell’editoria italiana già dagli anni ’80, l’espressione ha avuto un’impennata a cavallo del nuovo millennio, in concomitanza con la prima vittoria elettorale di George W. Bush. Il termine si riferisce essenzialmente a qualsiasi area del Paese non faccia parte delle città costiere principali: New York, Washington e Boston a Est; Los Angeles, San Francisco e Seattle a Ovest.

Un’accozzaglia eterogenea di biomi, paesaggi, insediamenti, economie, tutti racchiusi nel territorio sconfinato che si estende dai monti Appalachi al deserto della California. Ma i cui abitanti, a fronte di tanta diversità, finiscono spesso con l’essere rappresentati come un blocco monolitico, quasi caricaturale: conservatori, isolazionisti, religiosi fino al bigottismo.

Il tutto, inserito in una prospettiva di paternalismo marcato, tanto affranto quanto morboso. In cui l’America Profonda diventa “ineffabile regina dei parcheggi per camionisti” e “santa miracolosa per viaggiatori solitari”; una terra di “atmosfere torbide e intrise di sotterranea violenza” e “sudici motel”;  di “casalinghe ed operai” e “intensi traumi nell’anima”.

Per citare giusto alcune espressioni che parrebbero il frutto di un malfunzionamento di ChatGPT, ma accompagnano in realtà alcune tra le prime venti occorrenze di “America profonda” prese a caso dal database ItWac – con oltre un miliardo e mezzo di parole la più grande raccolta digitale annotata di testi in italiano.

È proprio questo ossessivo evocare atmosfere da beat generation – riguardo a luoghi che in certi casi non sono poi troppo diversi da un paese di provincia italiano – a illustrare come il termine abbia una funzione espressiva, più descrittiva. Non serve a identificare degli aspetti tangibili della realtà esterna; ma ad esprimere l’atteggiamento di chi lo usa.

Dando voce alla modalità ambivalente che abbiamo di rapportarci alla parte del continente americano che conosciamo meno, eppure ci attrae di più. Un mondo che immaginiamo come puro e autentico, ma pure inaccessibile e selvaggio – geograficamente e, soprattutto, culturalmente.

Non è un caso che, alla prova dei fatti, l’America profonda sia una categoria in larga misura esogena. Che nella società americana – che pure di tempo ad auto-analizzarsi ne trascorre parecchio – non esiste. O almeno, non negli stessi termini. L’espressione stessa, del resto, sembra la fusione ideale di due nozioni simili ma assolutamente distinte, quelle sì, invece, molto salienti nell’immaginario statunitense.

Una è quella di rural America. Un termine che gli analisti d’oltreoceano usano per identificare tutto quanto sfugge al tessuto urbano, e che tende a portare il grosso dei voti conservatori. L’espressione è apparentemente simile alla nostra, ma presenta due importanti differenze: rappresenta una categoria demografica ben più precisa – St. Louis e Chicago sono America profonda, ma non certo rurale; e non si porta dietro una valenza emotiva particolarmente forte – a parte l’occasionale spruzzata di disprezzo classista che permea il discorso liberale.

L’altra è quella di deep South. Il nocciolo degli Stati meridionali compresi tra l’Atlantico e il Mississippi: Louisiana, Mississippi, Alabama, South Carolina and Georgia. Questi sì “profondi”, e infatti rappresentati nell’immaginario americano attraverso una prospettiva estremamente simile alla nostra. Da una parte retrogradi e reazionari, aggrappati a una nostalgia del passato che spesso sconfina nel razzismo più becero.

Ma dall’altra misteriosi e magnetici. Come le paludi sconfinate, le verande coloniali, le fritture ciclopiche, e le fascinose note di jazz e blues che sono diventate delle icone globali di questi territori. L’effetto finale è quello di generare una sorta di matrioska degli stereotipi. Ricreando dall’interno, e su una regione molto più ristretta, quello stesso sguardo esoticizzante che gli stranieri adoperano per parlare dell’intero Paese.

Eppure, l’essenza di un’espressione assimilabile a “deep America” nel lessico americano non deve trarre in inganno. Anche oltreoceano, fantasie nostalgiche molto simili alle nostre sono ben documentate, e vanno ben oltre i confini del profondo Sud. L’esempio più fulgido, e di cui nei prossimi mesi si parlerà di più, è quello di J.D. Vance.

Appunto, fresco candidato alla vicepresidenza repubblicana, che ha vissuto sulla propria pelle due delle incarnazioni più vivide del concetto di America Profonda: le impenetrabili montagne dell’Appalachia, teatro di estrazione mineraria incontrollata prima, e dell’altrettanto violenta epidemia degli oppiacei qualche decennio dopo; e le pianure dell’Ohio orientale, dove l’industria pesante della Rust Belt prima è esplosa, e poi è caduta vittima dell’abbandono.

Proprio di questi luoghi Vance ha parlato a lungo nel suo memoriale Hillbilly Elegy (uscito in Italia per Garzanti con il titolo Elegia americana). Una raccolta di ricordi in cui, tra aneddoti surreali e analisi antropologiche sommarie, ha cercato di mettere assieme l’affetto nostalgico per quegli ambienti rustici, presentati come una jungle sociale in cui i cazzotti e gli insulti erano gli unici strumenti efficaci per comunicare; e la voglia disperata di smarcarsi da quelle dinamiche.

Da un lato l’esperimento ha funzionato, come mostrato dal successo, e dal genuino apprezzamento, che ha accompagnato la pubblicazione del libro, anche da buona parte parte del pubblico progressista. Dall’altra, qualcuno ha prontamente smascherato il giochino, accusando Vance di essere un grifter, un approfittatore che ha sfruttato la propria posizione per imbastire una gigantesca operazione nostalgia, volta essenzialmente ad accumulare capitale politico – una tesi che, dopo tre anni da senatore, vari voltafaccia ideologici, e una candidatura da vice-presidente, appare sempre più difficile da confutare.

E proprio il desiderio di smontare le fantasie esoticizzanti di Vance ha ridato linfa a uno dei filoni giornalistici e letterari più interessanti delle scienze sociali americane: una serie crescente di saggi e articoli volti a decostruire l’immagine dell’Appalachia bifolca e primitiva dipinta dall’elegia, e a inquadrare la sofferenza dei suoi abitanti nelle devastanti dinamiche storiche ed economiche che da sempre mettono in ginocchio la regione (per chi fosse interessato, qui un ottimo esempio)

E così, da qualsiasi parte la si guardi, si fa strada un dubbio: se l’America profonda non si sa bene cosa sia e forse non esiste nemmeno, ha davvero senso parlarne? Probabilmente sì, almeno dalla nostra parte dell’Oceano. Un po’ perchè è comunque una categoria utile per farsi un’idea di massima – seppur estremamente approssimativa – di certe dinamiche geografiche e culturali.

Che è poi la funzione cognitiva che permette a molti stereotipi, pur nel loro conclamato pressapochismo, di continuare a sopravvivere. E un po’ perché il termine stesso presenta una preziosa occasione di riflessione, facendo emergere un sottile nesso linguistico che accomuna il nostro modo di associare la provincia all’esotico – dalle praterie degli Stati Uniti al cortile del nostro vicino.

Così come essere profonde non sono mai Manhattan o Hollywood, non lo sono nemmeno Milano o Roma quando si parla di Italia. Profondo è invece tutto lo spazio che riempie gli interstizi, inglobando luoghi che percepiamo come tanto inquieti quanto irresistibili. Raramente la persona che scrive si identifica con queste realtà profonde.

E se lo fa, se ne distacca e riavvicina con sguardo straniante, come se non gli appartenessero davvero. Come il profondo Veneto cantato dalle Luci della Centrale Elettrica, “quello senza traffico, dove il cielo è limpido”. O il profondo Molise, “dove la banda ultra-larga è ancora un miraggio”.

In fin dei conti, proprio come in molte contee del Mississippi.