PICCOLA POSTA
La magistratura di sorveglianza fiorentina si è appena fatta conoscere con l’ordinanza in cui il desiderio di avere l’acqua calda in cella viene trattato come un’arbitraria pretesa.
Magistrati che, se frequentassero la galera, saprebbero che spesso manca anche l’acqua fredda
Mia cara, penso a te. Penserei a te comunque, e per giunta succedono cose. La magistratura di sorveglianza fiorentina, quella che fu di Alessandro Margara, ha appena trovato il modo di farsi conoscere con l’ordinanza in cui il desiderio di avere l’acqua calda in cella viene trattato come un’arbitraria e scostumata pretesa: l’acqua calda è un diritto solo dei clienti degli alberghi (e da quante stelle in su?).
La protervia e la meschinità sono attributi frequenti delle autorità competenti, e la circostanza conferma che a certi impieghi dai quali dipendono, pressoché alla lettera, vita e morte del prossimo – carcerieri, giudici, medici, infermieri, psicologi, badanti, donne e uomini… – ci si candida per tre motivazioni essenziali: o di passaggio, perché gli altri posti sono al momento occupati (insegnanti di sostegno, magistrati di sorveglianza, connotati essenzialmente dall’indifferenza, al male come al bene, non sono fatti loro, sono lì per andarsene); o per una vocazione alla simpatia e alla compassione per il prossimo, se non addirittura alla giustizia sostanziale, e allora sono persone benedette – nelle galere, nel sostegno scolastico, nelle case delle persone invalide, nelle corsie degli ospedali; o per una sentita e frustrata cattiveria, e allora sono persone basse, che infieriscono o si infastidiscono per la pretesa dell’acqua calda (prevista dal regolamento, come ha ricordato il professor Emilio Santoro) in un clima torrido fisicamente per un luglio accanito e torrido moralmente per un ragazzo di vent’anni che a Sollicciano si è appena ucciso.
Ha scritto anche, l’Ufficio di Sorveglianza – chiamiamolo così, come se fosse un’entità astratta, disincarnata, dev’esserlo – per respingere una domanda di liberazione anticipata, prevista anche lei dal regolamento, anzi dalla legge, che “il tentativo di togliersi la vita mediante impiccagione è incompatibile con il presupposto della liberazione anticipata che è la partecipazione all’opera educativa”.
Se ti suicidi senza intoppi, la liberazione anticipata te la guadagni, e infatti è la strada che i detenuti hanno deciso di imboccare sempre più all’ingrosso. Siamo a 60. Se non ci riesci, ti giochi la liberazione anticipata al minuto, quella dei giorni. E il diavolo di sorveglianza si fa conoscere dai dettagli: “mediante impiccagione”, ha scritto; se ti squarci le vene a morsi l’affare si può riesaminare.
Sono solo degli esempi, le punte dell’iceberg, come si dice, benché evocare iceberg faccia venire i brividi. Quella risposta sull’acqua calda la danno magistrati cui, se facessero il loro dovere e il carcere lo frequentassero anche nei luoghi e nelle ore di punta, non sfuggirebbe che non di rado a mancare è anche l’acqua fredda.
Che a mancare sarebbe tutto, se non fosse che ci sono, nell’ordine, le zanzare, le cimici e i topi. Un detenuto esasperato o spiritoso a Sollicciano ne ha acchiappato uno e l’ha allevato in una bottiglia, così da esibirlo come corpo del reato dell’amministrazione penitenziaria. Dovrebbe essere liberato solo per questo – lui e il topo.
Sollicciano, basta nominarla, e il ribrezzo chiude la gola.
Io la conobbi due volte, a distanza di anni, ma solo per ore, il tempo di lasciare anche lì profilo e impronte ed essere trasferito a Pisa – vicino a te. Sono stato fortunato a non restarci, ma anche a esserci passato: sono stazioni della via crucis di ogni vita che vale la pena di sperimentare e immunizzarsi per sempre dalla lingua dell’ufficio di sorveglianza.
La ragione per cui te ne scrivo è che a distanza di poco meno di un ventennio misuro il mio personale fallimento anche in questo chiuso e forzato fronte della continua lotta per migliorare il mondo.
Mi diedi molto da fare, infatti, e anche prima e dopo, a piedi liberi. Ma la galera di oggi è molto più squallida e infame della galera di ieri. E sai perché? Perché è più squallido e infame anche il mondo di fuori. Basta guardare alla galera, per misurare il fuori.
Quando, ogni giorno, ogni notte, da sveglio o in sogno, leggo le parole dei carcerati e dei carcerieri, ne ascolto i rispettivi suoni e rumori, grida, ferri battuti, stridor di denti, chi li ha conservati, unghie che scavano muri – e di là frasi stizzite per il rischio di macchiarsi la camicia bianca, ho il privilegio di capire bene che cosa significano, di saperlo.