Meloni si è comportata al meglio, ora la sua maschera sta iniziando a scivolare (politico.eu)

di NATHALIE TOCCI

Il primo ministro italiano e i suoi colleghi 
euroscettici ora vogliono "cambiare" l'UE 
dall'interno, 

traendone benefici e svuotando il suo vero spirito di unificazione.

Cutro, la procura di Crotone: “Il naufragio si poteva evitare”, sei persone rinviate a giudizio (euronews.com)

di Michela Morsa

A 17 mesi dalla tragedia che costò la vita ad 
almeno 94 persone, tra cui 35 bambini, 

la procura di Crotone ha chiuso le indagini preliminari evidenziando “profili di negligenza” in quattro membri della Guardia di finanza e due della Guardia costiera

Falso, omissione in atto d’ufficio, strage come conseguenza di altro reato. Con questi capi di imputazione la procura di Crotone ha chiesto il rinvio a giudizio di sei persone, quattro membri della Guardia di finanza e due della Guardia costiera, per il mancato soccorso all’imbarcazione carica di migranti che si rovesciò a largo della spiaggia di Steccato di Cutro il 26 febbraio 2023, provocando la morte di almeno 94 persone, di cui 35 bambini.

A 17 mesi dalla tragedia, che causò anche un numero imprecisato di dispersi, con le sue conclusioni la procura di Crotone afferma che il naufragio si poteva evitare e ricostruisce tutto ciò che non funzionò nella catena dei soccorsi quella notte.

I livelli di responsabilità sono diversi, maggiori per la Guardia di finanza che quella sera decise di rientrare in porto interrompendo le ricerche del caicco senza avvertire la Guardia costiera, che aveva mezzi più adatti alle condizioni meteo proibitive ed era nelle condizioni di intervenire, e poi falsificando i diari di bordo.

L’avviso di conclusione delle indagini preliminari sul ritardo dei soccorsi, diffuso dalla procura anche con una nota stampa, è stato notificato a Giuseppe Grillo, capo turno della sala operativa del Comando provinciale di Vibo Valentia della Guardia di finanza e del Roan, il Reparto operativo aeronavale delle fiamme gialle, Alberto Lippolis, comandante del Roan di Vibo Valentia, Antonino Lopresti, ufficiale in comando e controllo tattico nel Roan di Vibo Valentia, Nicolino Vardaro, comandante del gruppo aeronavale di Taranto, Francesca Perfido, ufficiale di ispezione in servizio nel Centro di coordinamento italiano di soccorso marittimo di Roma, e Nicola Nania, ufficiale di ispezione nel centro secondario di soccorso marittimo di Reggio Calabria.

Cosa dice l’avviso di conclusione delle indagini preliminari

Nel ricostruire le varie fasi dell’intervento, effettuato con colpevole ritardo, sono stati evidenziati “profili di negligenza nel dare attuazione alle regole che la normativa europea e nazionale impone in casi del genere”, più specificamente nelle azioni da svolgere in seguito all’avvistamento di un’imbarcazione.

Mentre è risultata corretta la scelta iniziale di qualificare l’evento come operazione di polizia (“law enforcement”) invece che soccorso in mare, alla Guardia di finanza “è stata contestata l’omessa completa comunicazione delle difficoltà di navigazione incontrate a causa delle condizioni meteomarine, nonché il ritardo nella predisposizione delle operazioni di intercetto del caicco, in assenza di un effettivo ed efficace monitoraggio radar”.

Per quanto attiene, invece, ai membri della Guardia Costiera, “la contestazione ruota attorno alla mancata acquisizione di informazioni necessarie per avere un quadro effettivo di quanto la Guardia di finanza stava facendo. Mancata acquisizione da cui derivava una carente valutazione dello scenario operativo e delle conseguenti disposizioni da impartire ai natanti della Guardia costiera che pure erano in condizioni di intervenire”.

La procura di Crotone conferma anche che la presenza del caicco carico di migranti e chiaramente in difficoltà “era stata tempestivamente segnalata dall’agenzia europea Frontex in navigazione verso le coste calabresi”.

Quali sono i pericoli dell’autonomia differenziata (lavoce.info)

di  E 

Con l’autonomia differenziata non diminuiranno 
le risorse per il Sud. 

Preoccupa invece la mancanza di criteri per l’attribuzione delle materie. E il fatto che in futuro a decidere sui finanziamenti sia una commissione paritetica tra governo e singola regione.

Le critiche alla legge Calderoli

Nell’ultima settimana abbiamo assistito a un vivace confronto tra maggioranza e opposizione sulla legge approvata recentemente sull’autonomia differenziata, la n. 86/2024. L’opposizione si è già mobilitata per un referendum abrogativo.

Le motivazioni e preoccupazioni sembrano riguardare essenzialmente la possibilità che una parte maggiore di risorse rispetto a quella attuale vada alle regioni del Nord: visto che la legge impone assenza di aggravio per le finanze pubbliche, ciò implicherebbe che diminuiscano i fondi per le regioni del Sud.

Un’ attenta analisi della legge, tuttavia esclude questa possibilità, a meno che non si contempli la possibilità che il governo nella fase attuativa non rispetti i vincoli imposti dalla stessa legge. Se lo facesse, sarebbe ben grave. Casomai, andrebbe sottolineata la difficoltà pratica di attuare la nuova distribuzione di risorse che la legge richiede, basata su costi e fabbisogni standard per i vari servizi (conseguenti all’attuazione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni).

Ma i problemi veri della legge sull’autonomia differenziata sono in realtà altri, di cui poco si discute. Vediamo i due principali.

Le commissioni paritetiche

Un primo tema riguarda la previsione, contenuta nella legge, di commissioni paritetiche bilaterali che ogni anno, e ciascuna in modo indipendente dall’altra, definiscono in una contrattazione tra stato e la singola regione la compartecipazione ai tributi erariali che dovrebbe garantire il finanziamento delle funzioni delegate alla regione stessa.

Poiché ogni regione può chiedere un insieme diverso di funzioni su diverse o sulle stesse materie, la potenziale complessità del sistema che ne risulta è enorme.

Per esempio, nel caso in cui si convenga su un aumento del fabbisogno per una particolare funzione attribuita a una particolare regione, questo dovrà essere riflesso nelle risorse da destinare a tutte le altre regioni, dato il vincolo dell’invarianza finanziaria e dovrà tenere conto anche del vincolo di bilancio nazionale.

Come può funzionare un sistema simile con potenzialmente 15 diverse commissioni paritetiche su 15 insiemi differenziati di funzioni su diverse materie? E in realtà, 21, perché da un punto di vista logico si dovrebbero considerare nella partita anche le cinque regioni a statuto speciale (con il Trentino-Alto Adige diviso nelle due province autonome di Trento e Bolzano).

Le regioni a statuto speciale hanno funzioni tutte diverse e anche un sistema di finanziamento diverso (le compartecipazioni sono ad aliquota fissa, benché anch’esse partecipino al consolidamento delle finanze pubbliche), ma anch’esse dovranno rispettare i Lep, una volta che questi siano definiti. Come minimo, parrebbe necessaria una struttura nazionale che coordini il funzionamento di tutte le commissioni paritetiche e monitori la situazione finanziaria di tutte le regioni d’Italia.

Inoltre, come decidono queste commissioni paritetiche? La legge non lo specifica. Ma è rischioso, perché si può ben immaginare che una regione che veda le entrate dalle proprie compartecipazioni superare la spesa per le funzioni devolute resista all’ipotesi di restituirle allo stato, come in teoria dovrebbe fare sulla base della legge. Chi decide in questo caso, lo stato o la regione?

Le materie da affidare alle regioni

Il secondo tema, forse ancora più importante, riguarda l’opportunità di decentrare funzioni nelle ventitré materie potenziali.

La teoria economica suggerisce che una politica dovrebbe essere decentrata quando 1) influisce solo localmente e non crea esternalità su altri territori limitrofi 2) le preferenze dei cittadini residenti sono simili all’interno dei diversi territori, mentre differiscono da un territorio all’altro e infine 3) quando non produce economie di scala, tali da generare importanti risparmi di costo nel caso in cui le decisioni vengano prese a livello nazionale.

Ora, anche un rapido sguardo alle materie potenzialmente «decentrabili» dopo la quantificazione dei Lep, che dovrebbe avvenire nei prossimi due anni, suggerisce che ce ne siamo molte che non soddisfano questi criteri e che dovrebbero essere decise a livello nazionale, se non addirittura europeo.

Si pensi ad esempio alla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. È chiaro che non si può pensare a una normativa per l’ambiente che sia valida solo all’interno dei confini regionali, se si vuole che sia efficace. Vi sono poi altre materie come porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, che hanno tutte pesanti ricadute sul territorio nazionale.

Vale soprattutto quando, per la fornitura di un servizio, è necessaria una rete che si estende su tutto il territorio nazionale. In questo caso spezzettare la responsabilità della rete nelle varie regioni potrebbe portare a una gestione meno efficiente di quella garantita da un decisore nazionale.

Ma anche tra le nove materie su cui si è deciso che non sono necessari i Lep e su cui le regioni possono quindi già inviare le loro richieste (come già hanno annunciato di voler fare subito Veneto, Piemonte e Lombardia), ce ne sono molte che suscitano perplessità.

Per esempio, il trasferimento del potere di regolamentazione nel commercio con l’estero, tutela e sicurezza del lavoro, previdenza complementare e integrativa, banche di interesse regionale. In un paese con un tessuto economico territorialmente integrato, un’impresa che operi a livello nazionale, magari con diverse succursali nelle varie regioni, si potrebbe trovare ad affrontare situazioni con diversi accordi commerciali con l’estero a seconda della regione ove opera o a differenti normative sulla sicurezza del lavoro e di previdenza complementare.

Ciò creerebbe confusione e difficoltà nel raggiungere equilibrate decisioni di investimento. Si potrebbe inoltre innescare un processo di competizione tra regioni, che spinga per esempio alcune ad abbassare gli standard sulla sicurezza sul lavoro o a proporre regolamentazioni più convenienti per attrarre investimenti. Per non parlare degli istituti di credito, dove addirittura dal momento dell’entrata in vigore del nuovo Titolo V la regolamentazione è in buona parte transitata a livello europeo; non avrebbe molto senso trasferirla a livello regionale. E si potrebbe continuare a lungo.

Il problema è che la legge non contempla alcun criterio per decidere se ha senso o meno delegare una particolare funzione alle regioni; tutto è demandato alla contrattazione politica tra gli esecutivi, con il Parlamento che si limita ad approvare le intese raggiunte.

Il rischio che si decentri troppo e male è dunque molto serio.

L’arte di mascherare l’antisemitismo criticando le politiche israeliane (linkiesta.it)

di

Il nome della Knesset

L’esplosione di sentimenti antisemiti negli anni Venti del ventunesimo secolo è dovuta alla risposta militare di Gerusalemme all’attentato del 7 ottobre. Ma questa narrazione ormai dominante ignora violenze e discriminazioni quotidiane contro gli ebrei

Quando sarà scritta la storia dell’esplosione antisemita sulla metà degli anni Venti del ventunesimo secolo, qualcuno spiegherà che essa trovava innesco nella sproporzione della reazione israeliana ai fatti del 7 ottobre del 2023.

Esisteranno ancora le foto e i video delle manifestazioni che da Times Square alle belle vie della Roma antifascista, ben prima dell’inizio dell’iniziativa genocidiaria, celebravano il colpo portato al cuore dell’Entità coloniale sionista; e in qualche angolo della rete sarà sopravvissuto l’audio del corteo meneghino in cui il giovanotto bardato di kefiah urlava, a proposito del pogrom del Sabato Nero, che «Abbiamo insegnato a tutto il mondo il significato di resistenza».

Ma il recupero di quelle evidenze non sarà sufficiente a cancellare la realtà in via di consolidamento già quando la sabbia del Nova Festival era ancora pregna del sangue di trecento giovani ebrei massacrati, e cioè che se proprio occorresse discutere di antisemitismo ebbene si tratterebbe tutt’al più di quello comprensibilmente generato dalla sbrigliatezza sterminatrice di quello Stato sopraffattore.

Non basterà, come non bastò mentre quella violenza antisemita si sviluppava in faccia al mondo discretamente impassibile, osservare che qualcosa non fila per il verso giusto se le devastazioni delle sinagoghe e dei cimiteri ebraici, le mani rosse sul Memoriale di Parigi, le stelle gialle pittate sulle case degli ebrei italiani, tedeschi, francesi, olandesi e insomma le delizie da kristallnacht nella cara Europa che fu della Shoah sono messe in rapporto con la guerra di Gaza.

Non basterà, come non bastò mentre questo oltraggio supplementare placidamente si consumava, osservare che il genocidio dei palestinesi prende il posto e adempie alla funzione di venti secoli di deicidio. Non basterà perché quella storia sarà scritta con il materiale maggioritario e contraffattorio che va accumulandosi, ed è destinato a durare, grazie ai tanti che sorvegliano la costruzione del cantiere con le mani dietro alla schiena.

Quelli che «l’antisemitismo è inaccettabile», diciamo, fino al 1948, perché poi mica vorrai confonderlo con la sacrosanta critica delle «politiche di Israele»

Nessuno come Trump ha istigato alla violenza politica negli Stati Uniti (valigiablu.it)

di

Pochi giorni prima del tentato assassinio a 
Donald Trump il 13 luglio a Butler, in Pennsylvania, 
la rivista The New Republic stava per uscire con 
una copertina che raffigurava l’ex presidente con 
le fattezze di Adolf Hitler. 

“Oggi noi di The New Republic”, si legge nell’editoriale di presentazione del numero, “pensiamo di poter passare quest’anno elettorale in due modi. Possiamo passarlo a discutere se Trump soddisfi i nove o i diciassette punti che definiscono il fascismo. Oppure possiamo passarlo dicendo: Ci è dannatamente vicino, e faremmo bene a combattere”.

Sfiorata per appena pochi millimetri la tragedia della morte dell’ex presidente, il Partito repubblicano aveva già pronta la linea d’attacco. “Il principale presupposto della campagna di Biden è che il presidente Donald Trump è un fascista autoritario che deve essere fermato a tutti i costi.

È una retorica che ha portato direttamente al tentato assassinio”, ha dichiarato il candidato vicepresidente J.D. Vance su X. Per il senatore Tim Scott l’attentato sarebbe stato “favorito e istigato dai grandi media, che incessantemente definiscono Trump una minaccia per la democrazia, un fascista, se non peggio”.

Altri esponenti trumpiani sono stati ancora più espliciti nell’addossare a Biden e ai Democratici la responsabilità degli spari, tuttavia, in generale, non ci sono state variazioni significative dal copione vittimista: la sinistra e i suoi organi di stampa hanno creato un clima d’odio che ha ispirato la violenza.

È una strategia argomentativa che rischia di essere terribilmente efficace e di menomare la campagna dei Democratici, già in salita per le incognite sulle condizioni di salute di Biden, la fronda interna che spinge per un suo passo indietro e l’indignazione dell’elettorato musulmano e giovanile per il sostegno alla guerra del premier israeliano Netanyahu a Gaza.

I Democratici, che necessitano della massima mobilitazione possibile, perderebbero la più importante freccia al proprio arco, se rinunciassero, anche in parte, ad agitare il pericolo autoritario posto da una nuova presidenza Trump.

Molti segnali lasciano presagire che il refrain vittimista possa funzionare, inducendo i media a sorvolare sul programma illiberale del partito repubblicano per paura di partecipare alla spirale d’odio che avrebbe sobillato il giovane Thomas M. Crooks, registrato come Repubblicano, anche se a 17 anni figura  una sua donazione di 15 dollari per per un comitato elettorale del Partito democratico.

“Possiamo aspettare di vedere qualche prova concreta prima di dichiarare Trump il nuovo Mandela?”, ha scherzato Tim Miller di The Bulwark. In effetti, nulla lascia trasparire che Trump abbia intenzione di rinunciare ai suoi propositi: essere un dittatore, ma solo per un giornoperseguire penalmente Biden per brogli elettorali; sospendere la Costituzione; ricorrere a una legge del 1807 per inviare l’esercito nelle strade a reprimere le proteste; legare il potere giudiziario a quello esecutivo; sostituire migliaia di dipendenti federali con suoi fedelissimi. Il discorso pronunciato giovedì alla Republican National Convention, il primo da dopo l’attentato, non ha certo sconfessato questi aspetti.

È il paradosso di questa allarmante campagna elettorale, che la stampa internazionale tiene a sottolineare come la prima fra due candidati ottantenni, ma che, in realtà, è la prima nella Storia americana a svolgersi dopo un colpo di Stato fallito, quello del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill.

Oggi i suoi mandanti politici non solo sono rimasti impuniti, ma sono anche riusciti a rovesciare sugli avversari la responsabilità della violenza. E il giornalismo sembra impreparato all’autoritarismo.

Mentre il partito repubblicano è da tre anni impegnato in una sfacciata operazione di revisionismo storico sull’assalto al Campidoglio, variamente definito come una “normale gita turistica” o un “inside job” organizzato dall’FBI, e sui suoi partecipanti, martirizzati dallo stesso Trump al livello di “patrioti”, “ostaggi” e “prigionieri politici”, la società americana viene caricaturalmente descritta come polarizzata da due opposti ed equivalenti estremismi.

Sì, è vero, gli Stati Uniti sono un paese pieno di armi, e sempre più cittadini giustificano il ricorso alla violenza come mezzo di risoluzione dei conflitti politici. Un adulto su cinque pensa che occorra la violenza per riportare in carreggiata il paese, una percentuale che sale al 28% fra gli elettori repubblicani e scende al 12% fra i democratici.

Tuttavia, nessuno più di Trump e della sua fazione MAGA ha agito attivamente per incoraggiare la violenza. Lo hanno fatto con le teorie del complotto, la demonizzazione degli oppositori, anche interni, e l’individuazione di precisi bersagli contro cui aizzare i sostenitori.

Nell’autunno 2020, pochi mesi dopo che Trump aveva invocato la “liberazione” del Michigan, in disaccordo con le misure anti-pandemiche di distanziamento sociale, una milizia di estrema destra ha pianificato di rapire la governatrice democratica del Michigan, Gretchen Whitmer, ed eventualmente ucciderla.

Quando, l’8 agosto 2022, gli agenti federali sono entrati a Mar-a-Lago, per sequestrare documenti riservati sulla sicurezza nazionale indebitamente trasferiti nella residenza privata dell’ex presidente, Trump ha accusato l’FBI di aver piazzato prove false nella sua abitazione e il deputato Paul Gosar ha chiesto di “distruggere l’FBI”.

Tre giorni dopo, un uomo armato di AR-15 ha tentato l’irruzione nella sede del Bureau a Cincinnati ed è infine morto in una sparatoria con le forze dell’ordine. Gli investigatori hanno successivamente scoperto che su Truth, il social network di proprietà di Trump, aveva auspicato la guerra civile.

Per gli esperti siamo di fronte a casi di “terrorismo stocastico”: si incita, cioè, allusivamente ad atti di violenza casuale contro un obiettivo specifico, salvaguardando, allo stesso tempo, la possibilità di negare qualsiasi responsabilità diretta quando qualcuno passerà all’azione.

D’altronde, questo è stato fin dall’inizio il manuale con cui Trump ha sbaragliato le basse difese immunitarie dei media e della democrazia americana. È lo stesso candidato del 2015, quando, in corsa per le primarie, prometteva di pagare le spese legali a chi avesse picchiato i contestatori ai suoi comizi.

Il fatto che il sistema mediatico si allarmi per il rischio di una strumentalizzazione elettorale dell’attentato e abbocchi alla favola di un Trump spiritualizzato dalla mano divina che ha deviato la pallottola ci dice, in realtà, tutto della sua pregressa apatia nel riconoscere il carattere eversivo del trumpismo.

Viene da chiedersi cosa dovrebbero ancora dire i repubblicani perché i commentatori politici si scuotano, forse appellarsi al soccorso di una milizia armata privata ed evocare la guerra civile (anzi no, lo hanno già fatto).

Mentre veniva celebrata una fantomatica atmosfera di unità nazionale alla convention repubblicana, i delegati sventolavano cartelli con scritto “espulsioni di massa ora” e “basta col bagno di sangue di Biden al confine”. Lo stesso Trump non tratteneva la propria natura e ripeteva la bugia che i democratici abbiano commesso frodi alle presidenziali del 2020.

Il tentato assassinio sta, insomma, favorendo la rinormalizzazione del trumpismo e la rimozione della sua stretta relazione con la violenza. Secondo un rapporto stilato dal Brennan Center, dopo l’assalto al Campidoglio, il 43% dei legislatori locali ha subito intimidazioni e quasi la metà dei funzionari statali pensa di rinunciare alla ricandidatura.

Una tendenza che, su scala nazionale, ha trovato il suo picco nell’aggressione al marito dell’ex speaker democratica della Camera, Nancy Pelosi – colpito con un martello da uno squilibrato e più volte deriso da Trump –, e nelle minacce di morte rivolte agli unici due repubblicani impegnati nella Commissione parlamentare sull’insurrezione del 6 gennaio, Adam Kinzinger e Liz Cheney.

In passato, Trump ha infatti chiesto di giustiziare per tradimento Mark Milley, l’ex capo di Stato maggiore; ha ricondiviso sui social il video di un pick-up di suoi sostenitori con un’immagine di Biden sequestrato e legato nel bagagliaio; ha messo in guardia da “morte e distruzione” se fosse stato incriminato per aver illegalmente comprato il silenzio dell’attrice hard Stormy Daniels; ha paragonato gli immigrati a un veleno per il sangue della nazione; ha promesso di “estirpare comunisti, marxisti, fascisti e radicali di sinistra che vivono come parassiti nel paese”; ha ripostato un’immagine in cui si pretende un tribunale militare in diretta televisiva contro Liz Cheney, e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Il senatore Repubblicano Mitt Romney ha rivelato che alcuni senatori del suo partito, pur volendo votare per l’impeachment di Trump, hanno avuto paura per la propria incolumità e si sono quindi allineati al resto del partito.

Un attentato, per quanto ignobile e spaventoso, non ripulisce il trumpismo dal marchio della violenza, né gli conferisce il credito per una patente di moderazione, soprattutto se i suoi ideologi, come il presidente del think tank Heritag Foundation, Kevin Roberts, avvertono in modo inquietante che i conservatori sono impegnati in una “seconda rivoluzione americana, che resterà senza spargimenti di sangue se la sinistra lo permetterà”.

Gli americani si avviano, così, alle elezioni di novembre terrorizzati dalla prospettiva della violenza di una parte, tuttora ostinata nel rifiutarsi di riconoscere un’eventuale sconfitta, ma imbrigliati nella libertà di denunciarla.