La ferocia disumana dilaga in Tunisia, i migranti disperati sono le vittime predilette tra pestaggi e ricatti: l’Ue fa finta di niente (ilriformista.it)

di Sergio Talamo

Furti, pestaggi, ricatti e violenze: la crudeltà 
non guarda in faccia nessuno, non risparmia 
neanche bambini e donne incinte. 

Ma l’Unione europea continua a ignorare il problema. Servono rimpatri e condizioni chiare per le richieste di asilo, rispettando sempre i diritti

Era il paese di Ben Alì, musulmani moderati che accoglievano Craxi come il capo di Stato che era e tutti gli altri come ospiti. Era uno dei paesi delle primavere arabe, e la sua rivoluzione dei Gelsomini aveva acceso mille promesse, sulle libertà, le riforme, i diritti delle donne.

Oggi la Tunisia è un luogo di ferocia inumana dove l’uniforme della Guardia costiera e di altre forze di polizia autorizza ogni abuso. La Tunisia come la Libia o l’Algeria, il Marocco o l’Egitto. Le loro vittime predilette sono i migranti che sfidano il Mediterraneo pensando che la loro scommessa siano i trafficanti e il mare, e invece scoprono bruscamente che c’è di molto peggio.

Può capitarti di essere intercettato dalle milizie del presidente tunisino Saïed o da quelle di altri governi nordafricani perché inizi il più spaventoso degli incubi.

“Stipulare accordi con i paesi di frontiera per contrastare l’emigrazione clandestina”. “Riportarli indietro e aiutarli a casa loro”. Questi sono gli slogan dell’Unione europea, questi i proclami del governo italiano. La realtà è fatta di sequestri di persona che si trasformano presto in furti, pestaggi, ricatti, e poi in violenze che non risparmiano neppure bambini e donne incinte. E che finiscono spesso nella più spietata delle condanne: gruppi interi lasciati senza nulla alla mercé del mare o del Sahara. Morite, rifiuti dell’umanità, ma fatelo lentamente e respirando il terrore.

È una realtà che va ben oltre le già tragiche epopee delle barchette che non resistono alle onde e riempiono di cadaveri il mare nostrum. Qui siamo alla strage autorizzata, e inflitta con le modalità più sadiche e atroci. Qui siamo al film dell’orrore di gruppi di disperati che si stringono alle 4 del mattino in una delle tante imbarcazioni di fortuna per Lampedusa o altri luoghi della speranza.

Poi incrociano una motovedetta con le insegne tunisine o di altri paesi limitrofi. La prima azione di questi “attuatori degli accordi internazionali” è di riempire d’acqua la barca dei migranti o di speronarla. L’obiettivo è farla naufragare. I più deboli, fra coloro che finiscono in mare, vi resta sepolto. Padri e madri cercano di salvare i bambini, ma non sempre è possibile. Per chi resiste, inizia un altro percorso di tortura. Bastonate e ogni altra violenza fisica, stupri e richieste di riscatto, fino alle deportazioni in luoghi – le prigioni libiche o i deserti – da cui non si esce interi e spesso neppure vivi.

È ormai chiaro che Bruxelles sulla questione dei migranti irregolari cerca di mettere la polvere sotto il tappeto. Ma negare è sempre più difficile. Le testimonianze dei sopravvissuti vanno tutte nella stessa direzione. E siamo in un’epoca in cui le tecnologie rendono tutto visibile e trasparente in tempo reale.

Ci sarà sempre un cellulare che sfuggirà alle perquisizioni dei nuovi aguzzini, che usano i metodi delle polizie segrete comuniste o fasciste avendo di fronte neppure avversari politici ma povera gente che insegue un sogno. Come Fatoumata, partita dalla Guinea insieme alle figlie per salvarle dalle mutilazioni genitali per vederle morire, o il camerunense Waffo di cui dice la rivista Melting.pot: solo dopo anni è riuscito a dare un nome alla tomba di sua moglie e dei suoi figli, annegati dopo l’aggressione della guardia costiera tunisina. “Siete andati dove non c’è ritorno, in un regno che non conosco, amori miei”.

Le organizzazioni internazionali accusano Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, di collaborare attivamente con i reparti tunisini e degli altri paesi nordafricani in questa pulizia etnica che non fa prigionieri. Non si può essere certi che sia vero.

Ma il problema è tutto qui. L’Unione europea in mare dovrebbe esserci, ma per fare l’esatto contrario. La retorica della cittadella assediata della democrazia e dei diritti umani deve fare subito i conti con le quotidiane cronache di massacri. L’Europa, se vuol essere all’altezza delle sue stesse declamazioni, non deve solo fissare soglie ampie e condivise di ingressi regolari. Non deve solo garantire in primis la salvezza di chi si avvicina alle proprie coste.

Non deve solo precisare in modo chiaro e inequivocabile le condizioni per le richieste di asilo politico. Ma deve sporcarsi le mani anche con gli irregolari, pattugliando il Mediterraneo per tutelare i migranti e garantire che il rimpatrio avvenga in condizioni rispettose dei loro diritti. L’Unione, invece di combattere le Ong che salvano vite e denunciano i casi di violenza sugli inermi, dovrebbe renderle superflue.

Altrimenti non si capisce più la differenza con gli arruffapopoli che promettono ai loro connazionali di difendere con ogni mezzo le sacre sponde sovraniste, e quindi imbracciare il fucile, mettersi di vedetta e sparare a chiunque compaia all’orizzonte.

Il governo succube del bullismo della Coldiretti (ilfoglio.it)

di LUCIANO CAPONE

Aggredisce gli oppositori, minaccia le istituzioni, 
diffama i concorrenti e l'industria.

Il delirio di onnipotenza di Gesmundo e Prandini, legittimato dal rapporto privilegiato con Lollobrigida, ha mandato in pezzi l’agroalimentare italiano

Si fa presto a dire “lavoro per l’armonia”come ha dichiarato al Foglio Francesco Lollobrigida. La realtà è di un “sistema Italia” a brandelli, che il ministro dell’Agricoltura farà molta fatica a ricucire. Anche perché la situazione gli è un po’ sfuggita di mano. Se il settore agroalimentare, vanto economico e culturale del made in Italy, è a pezzi è soprattutto per responsabilità dell’organizzazione a cui questo governo si è indissolubilmente legato: la Coldiretti.

L’associazione degli agricoltori guidata da decenni da Vincenzo Gesmundo si sente talmente coperta dal governo di Giorgia Meloni, che ormai spadroneggia nell’arena pubblica aggredendo qualsiasi altro operatore del settore agroalimentare – privato, associato o istituzionale – con una veemenza mai vista prima.

Da qualche mese, l’obiettivo della campagna di Coldiretti è diventata “Mediterranea”, l’alleanza per sviluppare protocolli di filiera siglata tra la rivale Confagricoltura e UnionFood, che rappresenta la gran parte dell’industria agroalimentare italiana (oltre 500 aziende e 900 marchi). È naturale che il progetto non piaccia alla Coldiretti, dato che Mediterranea non è solo un competitor ma anche un modello diverso rispetto alla coldirettista Filiera Italia.

Ciò che invece non è normale è la violenza verbale usata dai vertici della Coldiretti contro UnionFood e Confagricoltura, e i rispettivi presidenti Paolo Barilla e Massimiliano Giansanti, che sfocia nella diffamazione. Mediterranea, infatti, viene descritta come un complotto per svendere il cibo italiano alle “multinazionali straniere” che vogliono imporre il “cibo omologato” e il “Nutri-score”, distruggendo la “dieta mediterranea” per sostituirla con “i cibi prodotti in laboratorio”. Ma la cosa sconcertante è che questi attacchi pubblici a pezzi importanti del made in Italy vanno avanti, ormai da mesi, in eventi a cui partecipano ministri del governo Meloni.

Lo scorso maggio a Cibus, la manifestazione di riferimento per il settore agroalimentare che si tiene a Parma, proprio dove veniva presentata al pubblico Mediterranea, alla presenza di Lollobrigida, Coldiretti ha proiettato una slide che accusava Confagricoltura di aver stretto un accordo con le “multinazionali globali” che “stanno affamando gli agricoltori europei”; mentre Gesmundo rivolgendosi a Lollobrigida definiva le imprese italiane di UnionFood “non patriottiche e non sovraniste, caro ministro”.

Pochi giorni fa, all’assemblea di Coldiretti, davanti ai ministri Lollobrigida, Fitto (Pnrr e sud) e Tajani (Esteri), Gesmundo ha definito Mediterranea “un problema nazionale e comunitario”. Una sorta di colpo di stato: “Si passa dal Mulino Bianco al golpe bianco” ha detto Gesmundo, arrivando direttamente alle minacce: “Chi va piegato, si piegherà”.

Ma prima ancora, all’assemblea della World Farmers Markets Coalition di metà luglio, davanti a Tajani Gesmundo ha accusato l’associazione degli agricoltori guidata da Giansanti di essersi prostituita “alle multinazionali del food”: “Confagricoltura gli ha aperto la strada per svendere la propria verginità”.

Pochi giorni prima, a un evento organizzato dal ministero della Salute, davanti al ministro Orazio Schillaci, il presidente di Coldiretti Ettore Prandini si è espresso in termini analoghi. Confagricoltura “arriva a rinnegare la storia del paese nel quale vive per piegarsi agli interessi delle multinazionali”, ha detto Prandini a un convegno su cibo e salute nella sede del ministero della Salute.

Coldiretti ha anche annunciato una manifestazione a Parma, capitale della Food Valley, con lo scopo di “piegare” Barilla. Ha minacciato di marciare a Bruxelles, qualora il Copa-Cogeca – l’organizzazione delle associazioni agricole europee – dovesse eleggere Giansanti come presidente (sarebbe la prima volta di un italiano). Ha addirittura proclamato una manifestazione contro l’Efsa, l’Autorità scientifica europea per la sicurezza alimentare, accusata da Gesmundo addirittura di “mettere sempre il cappello sulle cose che fanno più male alla salute dei cittadini europei”.

L’escalation coldirettista è ormai la manifestazione di un delirio di onnipotenza, legittimato e alimentato dai silenzi del governo Meloni, che rischia di passare dalla violenza verbale a quella fisica. Anzi no, è già accaduto. Lo scorso novembre, sotto Palazzo Chigi, dopo l’approvazione della legge sulla “carne sintetica” fortemente voluta dalla Coldiretti, il presidente  Prandini si scagliò contro un deputato dell’opposizione come Benedetto Della Vedova.

Ormai siamo fuori dalla dialettica politica ed economica, quello della Coldiretti è bullismo. Per diventare il “ministro dell’armonia”, com’era Pinuccio Tatarella, Lollobrigida dovrà lavorare molto. Ma, soprattutto, dovrà cambiare metodo per recuperare la terzietà che ha perso.

Leggi anche: Coldiretti, un sistema per amico

Il divieto di carne sintetica è una vittoria del governo (e di Coldiretti) e una sconfitta per il paese

La rete di società di Coldiretti: così comanda il più grande sindacato agricolo (anche sul ministero)

Coldiretti, il “fascino” della lobby del cibo made in Italy e tutte le falsità che propina ai media

Il potere di Coldiretti

Il Csm boccia la precettazione dei giudici finalizzata a convalidare i fermi e accelerare le deportazioni in Albania (unita.it)

di Frank Cimini

Arrestate Gandhi

Il cosiddetto organo di autogoverno dei magistrati ha bocciato la “precettazione” di tutti i giudici per le convalide dei fermi dei migranti “perché non è un criterio idoneo ad assicurare la funzionalità dell’ufficio”.

Dal Consiglio superiore della magistratura arriva un segnale ben preciso in direzione di una sorta di rifiuto di una gestione emergenziale nell’amministrazione della giustizia. Il cosiddetto organo di autogoverno dei magistrati ha bocciato la “precettazione” di tutti i giudici per le convalide dei fermi dei migranti “perché non è un criterio idoneo ad assicurare la funzionalità dell’ufficio”.

Era successo che nei giorni scorsi, al fine di garantire dieci udienze in contemporanea, il presidente del Tribunale di Roma avesse disposto dal 10 agosto in poi il coinvolgimento di magistrati di tutte le sezioni. Invece con la decisione del Csm il compito toccherà solo alle toghe specializzate in tema di immigrazione.

Insomma, non ci sarà nessuna chiamata alle armi dei giudici in servizio al tribunale della capitale per garantire il funzionamento del cosiddetto protocollo Albania frutto dell’accordo tra i due governi. Se ne potranno occupare solo i magistrati che solitamente valutano i provvedimenti di fermo dei migranti destinati a essere portati o meglio dire deportati in Albania.

È l’esatto contrario di quanto era stato deciso dal presidente del tribunale di Roma, Reali, il quale aveva operato in quel modo per rispondere alla pressante richiesta del ministero della Giustizia per garantire le convalide dei fermi entro le 48 ore previste dalle norme.

Secondo il Csm “la designazione di ulteriori giudici per sopperire agli eventuali flussi di entrata legati al protocollo Albania risulta attuata in modo non conforme”.

E inoltre “l’assenza di dati statistici pregressi relativi ai procedimenti connessi al tema di tale protocollo non esime il presidente del Tribunale di Roma dall’indicazione di un criterio idoneo ad assicurare la funzionalità dell’ufficio e dunque la soglia di rilevanza che impone l’attività di supporto cin magistrati non inseriti nella tabella della sezione immigrazione”.

Sono già stati montati dieci schermi in cui appariranno i migranti soggetti alle cosiddette procedure accelerate di frontiera. La convalida in udienza sarà solo il primo problema da affrontare perché i giudici saranno chiamati a decidere sulla legittimità della cauzione che varia dal 2500 ai 5000 euro modificata dal Viminale e a valutare la reale sicurezza dei paesi di provenienza insieme alle condizioni di vulnerabilità dei migranti sottoposti al fermo.

Comunque in tutti i casi in cui il fermo non viene convalidato bisognerà liberare i migranti e portarli in Italia considerando che gli accordi con Tirana escludono che le persone soccorse in mare e portate in Albania possano restare al di fuori dei centri di detenzione.

Il sottosegretario Alfredo Mantovano ha dichiarato a un giornale tedesco che è già pronto il primo hotspot in Albania e che “non sarà un centro fascista ma sarà funzionale per flussi regolari. In Albania saranno mandati coloro che vengono identificati come provenienti da paesi sicuri che non sono soggetti fragili e che non compongono nuclei familiari”.

Nella commissione alla Camera vanno avanti i lavori sul decreto sicurezza. In esame le proposte di modifica del funzionamento delle carceri. La norma prevede l’aggravamento del reato di istigazione a disobbedire alle leggi se commesso in prigione. Respinti alcuni emendamenti dell’opposizione per cancellare la norma.

Chi sente il rumore del carcere che esplode? (internazionale.it)

di

Nel carcere di Regina Coeli a Roma, dove ci sono 
1.100 detenuti per 628 posti, perfino le aule 
scolastiche sono state trasformate in celle. 

In quello di Pavia non ci sono abbastanza letti per far dormire i 684 detenuti, così la notte sono aperte delle brandine che al mattino sono richiuse.

Dalla sezione femminile dell’istituto di Agrigento scrivono:

“Siamo tre detenute in cella. Il bidet viene usato sia per lavarci che per pulire le stoviglie. Le docce sono in comune e ne funziona solo una su due. Siamo invase da blatte e formiche. Dal bidet fuoriescono i topi. I materassi sono pieni di muffa. Spesso e volentieri siamo senza acqua e luce. Non abbiamo mai accesso alla biblioteca. Non ci sono corsi da frequentare. Non c’è nessuna attività”.

L’associazione Antigone ha intitolato il suo nuovo rapporto di metà anno sulla situazione negli istituti penitenziari italiani Il carcere scoppia. Non ci vuole molto a capire perché. Oggi dietro le sbarre ci sono 61.480 persone, ma i posti disponibili sono 47mila. Non erano così tanti dal 2013 Nelle sezioni maschili di San Vittore, a Milano, il tasso di affollamento è del 227 per cento, a Taranto del 194. Nel paese la media è del 120 per cento. Solo 38 istituti su 190 non sono sovraffollati.

Sulla parola sovraffollamento bisogna intendersi. I posti in carcere sono calcolati sulla base di un decreto del ministero della sanità del 1975, secondo cui “la superficie delle celle singole non può essere minore di 9 metri quadrati e per le multiple sono previsti 5 metri quadrati aggiuntivi per ciascun detenuto”.
In quasi un carcere su tre degli 88 visitati da Antigone c’erano celle in cui non erano garantiti neanche tre metri quadrati a testa: la soglia minima della dignità secondo la Corte europea per i diritti dell’uomo. Per i maiali l’Unione europea prevede che lo spazio minimo negli allevamenti sia di 6 metri quadrati ad animale.
Ma non è solo questione di spazio. Nella settima sezione di Regina Coeli le finestre sono più piccole e fanno filtrare poca aria e luce. In altre aree dell’istituto manca l’acqua. A Carinola, in provincia di Caserta, non c’è allaccio alla rete idrica. Ad Avellino non c’è acqua corrente dalle dieci di sera alle sei del mattino. Le finestre della sezione femminile sono schermate con il plexiglass, impedendo all’aria di passare. In carcere anche l’aria aperta è chiusa.
In celle del genere, le persone possono trascorrere fino a 23 ore al giorno. Qualcuno però non ce la fa: e ingoia pile, si taglia le braccia con le lamette, si uccide. Quest’anno i detenuti che si sono suicidati sono 58. Nove solo nel mese di luglio. Otto erano in carcere da pochi giorni, 27 da neanche sei mesi.
Undici invece stavano per uscire.
(Milad Fakurian)
A Novara e Pavia si sono ammazzati due ragazzi di appena vent’anni. Ad Augusta un uomo di 67 anni è morto dopo sei mesi di sciopero della fame. A loro bisogna aggiungere i cinque agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Conoscere i motivi dietro gesti così estremi è complicato: ma il degrado e la violenza in cui sono costretti a vivere carcerieri e carcerati mostra un pezzetto di questa complessità.
Queste condizioni e questa violenza colpiscono anche i minori. A metà giugno erano 555 le ragazze e i ragazzi negli istituti penali per minorenni. Nel 2023 erano 406. Bisogna risalire al 2009 per trovare un numero più alto dei cinquecento. Negli ultimi anni la media si era attestata sui trecento e anche i crimini commessi erano in calo.
Quello che è successo è che nel 2023 il cosiddetto decreto Caivano del governo Meloni ha reso più facile prendere un ragazzo e chiuderlo in cella, anche per fatti di poco conto, invece di immaginare per lui percorsi alternativi nelle comunità.
Il sovraffollamento non è una calamità naturale, ma il risultato di politiche che alimentano insicurezza, creano emergenze e rispondono alla percezione di pericolo con leggi che riempiono le galere, punendo spesso i più deboli. Dal 2022 sono almeno sette i provvedimenti del governo che rispondono a queste logiche.
Il carcere, sempre innamorato di se stesso, e i carcerieri, sempre innamorati dei carceri degli altri, non riescono e non vogliono immaginare alternative, e perciò sognano nuove galere. Da anni Fratelli d’Italia punta ad aumentare il loro numero, e il ministro della giustizia Carlo Nordio ha da poco annunciato un commissario straordinario per capire come fare.Tuttavia, la verità è che piani del genere, oltre al fatto che impiegherebbero decenni per essere realizzati, finora hanno dato vita solo a inchieste per corruzione. In Italia, quando non si vogliono affrontare i problemi si nominano commissioni e commissari, e quando si cerca di fare i conti con i disastri delle galere si promette di costruirne di nuove.
Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) ha indicato un’alternativa più semplice ed efficace: permettere ai detenuti di lavorare. I dati dimostrano che la percentuale della recidiva tra chi ha un impiego, sia dentro sia fuori le mura di una prigione, scende dal 68,7 per cento al 2 per cento. Ma in Italia il lavoro all’esterno coinvolge meno del 5 per cento dei carcerati.Il resto cerca di non finire inghiottito dalle sabbie mobili. In meno di un mese, dal 27 giugno a oggi, ci sono stati undici casi di proteste e rivolte: la maggior parte per il suicidio di un detenuto e contro le condizioni invivibili delle strutture.
D’altronde, sono gli stessi tribunali a riconoscere queste condizioni come inumane e degradanti, giudicandole in base all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu). Nel 2023 sono stati presentati circa diecimila ricorsi per condizioni di vita degradanti, dice Antigone, e più di quattromila sono stati accolti, concedendo sconti di pena oppure risarcimenti, calcolati in otto euro al giorno.Significa che l’Italia ammette di far vivere i detenuti in condizioni disumane, ma stabilisce per legge che la dignità calpestata di una persona non valga che pochi spicci.
Il sistema carcerario sta esplodendo, ma chi sente il rumore di questa esplosione?
(Hasan Almas)

La Russa ci ricorda ogni giorno l’inadeguatezza di Giorgia Meloni (linkiesta.it)

di

Diciamolo

Da Von der Leyen a Casapound, il presidente del Senato è riuscito a mettere in imbarazzo nuovamente il governo e la maggioranza.

Ci vuole una grande ingenuità, o una grande indulgenza, per stupirsi della magra figura della nostra premier al tavolo delle nomine europee, visto come ha gestito le nomine italiane

Se volessi fare un elenco di tutte le dichiarazioni, gli atti e i gesti con cui Ignazio La Russa, in questi due anni, è stato motivo di imbarazzo per Giorgia Meloni e per l’intera maggioranza che lo ha voluto e votato alla seconda carica dello stato, dalle sue parole su via Rasella, l’antifascismo e il busto di Mussolini a quelle sulle donne e gli omosessuali, passando per gli impropri interventi sulle riforme istituzionali (come quello in cui parlava dei «troppi poteri» del presidente della Repubblica) o la proposta di cancellare il doppio turno dalla legge elettorale per le amministrative, avanzata nel giorno in cui la destra perdeva diversi Comuni al ballottaggio, non mi basterebbe una giornata intera.

Sui giornali di oggi, anche i più benevoli, impegnati da settimane nello spiegare che l’isolamento di Meloni in Europa è in realtà sapiente manovra, cauta apertura, astuta prudenza, c’è addirittura l’imbarazzo della scelta.

Sul Corriere della sera, per esempio, Massimo Franco osserva con dovizia di eufemismi che le parole pronunciate ieri da La Russa proprio sul voto di Fratelli d’Italia contro Ursula von der Leyen («Avevo scommesso che non avremmo votato a favore»), unite all’esibito apprezzamento per la scelta del suo partito, «al di là dell’irritualità, sono parole destinate a non rasserenare i rapporti tra Palazzo Chigi e le istituzioni di Bruxelles».

Ma anche questo ennesimo passo falso, chiamiamolo così, è oscurato da ben altre dichiarazioni dello stesso presidente del Senato, che ieri è tornato sull’aggressione del giornalista della Stampa da parte dei fascisti di Casapound (su cui peraltro si era già esercitato nella tipica condanna di «ogni forma di violenza»), con le seguenti parole, che riprendo ancora dal Corriere: «Ci vuole un modo più attento di fare le incursioni legittime da parte dei giornalisti. La persona aggredita, a cui va la mia solidarietà, non si è mai dichiarata giornalista. Non sto giustificando niente. Ma sono sincero: non credo però che il giornalista passasse di lì per caso, trovo più giusto se l’avesse detto».

Questo della sua sincerità, del suo non essere un ipocrita, è un argomento che La Russa tira fuori regolarmente in simili circostanze, e basterebbe da solo a dimostrare la totale incomprensione del ruolo che riveste.

Con il suo comportamento, il presidente del Senato dimostra pressoché quotidianamente la totale infondatezza di tante analisi sulla grande accortezza politica di chi lo ha messo lì, e cioè Giorgia Meloni, che infatti ogni giorno paga il prezzo della sua scelta.

Ci vuole davvero una grande ingenuità, o una grande indulgenza, per stupirsi della sua magra figura al tavolo delle grandi nomine europee, visto come ha gestito finora le nomine italiane, di cui La Russa, in fondo, è solo il caso più emblematico ed eclatante.