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Il duca nel suo dominio è il libro nato da quella memorabile intervista che fece dare di matto a Marlon Brando (vogue.it)

di

Libri

«Quel piccolo bastardo ha passato metà della serata a raccontarmi tutti i suoi problemi: ho immaginato che il meno che potessi fare fosse raccontargliene un po’ dei miei»

(Donaldson Collection/Getty Images)

Come Marlon Brando andò su tutte le furie per colpa di Truman Capote

È il 9 novembre 1957 quando Il Duca nel suo Dominio (titolo originale The Duke in His Domain) viene pubblicato sul The New Yorker. Quello che oggi è un libro nasce infatti come una lunga e articolata intervista a Marlon Brando realizzata da Truman Capote.

Dopo aver letto l’articolo l’attore va su tutte le furie, si sente ingannato e insulta apertamente lo scrittore chiamandolo «piccolo bastardo». Capote però, che proprio santo non era, aveva fatto semplicemente il suo lavoro: ascoltare e farsi raccontare. Ma con uno stratagemma che poi segnò per sempre la sua cifra stilistica.

Truman Capote e Marlon Brando: un “testa a testa” spettacolare

Truman Capote e Marlon Brando erano coetanei, nati entrambi nel 1924. Quando si incontrano in Giappone sul set del film Sayonara ne ha 32 il primo, mentre il secondo ne ha appena compiuti 33, eppure si trovano in due momenti differenti della loro carriera: Truman è in ascesa ma non ha ancora pubblicato Colazione da Tiffany (1959, due anni dopo), il romanzo della consacrazione; Marlon è la stella più brillante di Hollywood “reduce” dal successo di film come Un tram che si chiama DesiderioBulli e Pupe e Fronte del Porto.

Leggenda narra che il giornalista e scrittore, prima dell’intervista, estrasse a sorte il nome di Brando fra una rosa di papabili star a lui non troppo care, così da poter mettere un po’ di distanza fra intervistato e intervistatore.

Ma come riportato dall’autrice della postfazione Gigliola Nocera: «L’impressione è che le circostanze di casualità così narrate siano solo un artifizio retorico». Vedremo poi perché.

CANADA JANUARY 06 Why are you snickering at Marlon Brando Truman Capote He's completely confused outside his art. Full...
(CANADA – JANUARY 06: Why are you snickering at Marlon Brando, Truman Capote? He’s completely confused outside his art. Full of rhetoric and nonsense Photo by Keith Beaty/Toronto Star via Getty Images)
  (La locandina del film “Sayonara” LMPC/Getty Images)

L’arte di intervistare

«Il segreto», racconta lo stesso Capote «è far sì che l’altro pensi che sia lui a intervistarti. Tu cominci a raccontargli di te, e piano piano tessi la tua rete finché l’altro non ti racconta tutto di sé. Ecco come ho messo in trappola Marlon Brando».

E in effetti, leggendo l’intervista, non si ha mai la percezione di un vero scambio di battute, di qualcuno che legge le domande e di qualcun altro che risponde. Lo scritto si articola come una conversazione, una conversazione intima per di più, ed è questo che successivamente spiazzò l’attore convinto di fare quattro chiacchiere informali.

Anche perché, va detto, Truman stava già mettendo in pratica una tecnica: non prendere mai appunti durante l’intervista, una vera arte che giunse al sua apice con il libro A sangue freddo. Un’arte certo, ma non innata: lo scrittore infatti si allenò a lungo per raggiungere questa capacità mnemonica. Tutti i giorni si incontrava con un amico che gli leggeva un dialogo casuale tratto da un libro casuale. Il compito, una volta tornato a casa, era trascrivere tale scambio di battute.

Il Duca nel suo dominio: la spiegazione del titolo

A eleggersi “duca” è lo stesso Brando mentre racconta a Capote in che modo fa amicizia. «Ci vado molto cauto, ci giro intorno intorno. Poi un po’ alla volta mi avvicino… Loro non sanno cosa sta accadendo. Prima che se ne accorgano sono presi, avvinti, avvolti». E ancora: «Molte di loro sono persone che non si sono mai inserite da nessuna parte… Ma io intendo aiutarle, e loro possono puntare su di me: io sono il duca. Una sorta di duca nel mio dominio».

Parlarne fra amici

A leggere il libro viene però difficile credere alla casualità dell’intervista (il fatto che Truman avesse pescato il nome di Brando e blablabla). Il racconto è infatti costellato da salti temporali e di contesto dove Capote tira in ballo amici, parenti e collaboratori che svelano – direttamente a lui il più delle volte – aspetti e segreti di Marlon stesso. Il più divertente?

Quello in cui l’attore si rompe il naso durante un incontro di boxe. Ma anche qui, come per gli altri episodi raccontati è sempre l’attore ad aggiungere il dettaglio più segreto, il “non-detto” e il “non-da-dire”. Il tutto grazie all’astuzia di quel «piccolo bastardo».

È morto John Mayall, gigante del British blues (rollingstone.it)

RIP

Aveva 90 anni. Senza di lui, il rock inglese sarebbe stato diverso.

La discografia, l’influenza su Eric Clapton, i Fleetwood Mac e Mick Taylor, il rapporto con la musica nera, la filosofia di vita, la strada. «Continua a suonare il blues da qualche parte, John»

È morto John Mayall. Il godfather of British blues aveva 90 anni e si era ritirato dall’attività on the road per problemi di salute. L’annuncio viene dalla famiglia: «È con grande tristezza che diamo la notizia della morte di John Mayall. S’è spento serenamente nella sua casa in California ieri, 22 luglio 2024, circondato dall’affetto della famiglia. I problemi di salute che lo aveva costretto a porre fine alla sua epica carriera on the road hanno infine dato pace a uno dei più grandi guerrieri della strada di questo mondo». Non è stata ancora comunicata la causa del decesso.

«Ci ha regalato 90 anni d’instancabile impegno nell’educare, ispirare e intrattenere», si legge ancora nel comunicato. Al momento della morte erano presenti le ex mogli Pamela e Maggie, la segretaria Jane, gli amici più cari. «Continua a suonare il blues da qualche parte, John. Ti vogliamo bene».

Mayall è stato uno dei grandi pionieri del blues nell’Inghilterra degli anni ’60. Nei suoi Bluesbreakers sono passati musicisti del calibro di Eric Clapton, Mick Fleetwood, John McVie, Peter Green, Mick Taylor, quest’ultimo noto per aver fatto parte dei Rolling Stones. Senza figure “paterne” come lui e Alexis Korner, il British blues sarebbe stato diverso e quindi anche il rock inglese come lo abbiano conosciuto nella seconda metà degli anni ’60 che gli deve parecchio.

Nato nel Cheshire nel novembre 1933, appassionato fin da piccolo di blues e jazz americano, ha iniziato a suonae da autodidatta pianoforte, chitarra, armonica a bocca. Ha cominciato a suonare nelle band negli anni ’50, dopo essere stato con l’esercito in Corea, in un’epoca in cui i grandi del blues americano erano per il resto del mondo e quindi anche per gli inglesi figure lontane, persino esotiche, dal repertorio tutto da indagare.

Quelli che consideriamo giganti del blues americano non avevano alcun mercato in Europa. Giovani inglesi come Mayall, Alexis Korner e Cyril Davies offrivano la loro lettura di quella musica grezza, vera e lontana, ponendo le basi per un parte significativa della storia del rock. Era anche una musica che, sradicata dal mondo di sfruttamento in cui era nata, sapeva di libertà. La sofferenza che esprimeva era vissuta come universale.

«Il blues» ha detto Mayall una decina d’anni fa Guardian «s’adattava alla perfezione allo stile di vita dei primi anni ’60. Tutto stava cambiando nella moda, nell’arte, nella politica. Negli anni ’50 in Gran Bretagna si ascoltava il jazz tradizionale e l’interesse per il blues è nato proprio nella scena jazz. È successo qui e non in America perché all’epoca la loro scena era caratterizzata dalla segregazione razziale». Musicisti come Elmore James, Freddie King, JB Lenoir appartenevano a un altro mondo, ma «parlavano dei nostri sentimenti e delle nostre vite».

Mayall ha fondato i Bluesbreakers nel 1963 dopo essersi trasferito a Londra su suggerimento di Korner (a fine decennio andrà a vivere in California), suonando nei club della città tra cui il Marquee. Del gruppo ha fatto parte com’è noto Clapton, fuoriuscito dagli Yardbirds e in cerca di un’esperienza musicale meno pop.

Il disco di riferimento è Blues Breakers del 1966, attribuito a John Mayall with Eric Clapton, quando quest’ultimo è ormai lanciato verso il successo coi Cream. Nel successivo e fondamentale A Hard Road il chitarrista solista è invece Peter Green, futuro membro chiave dei Fleetwood Mac, ma sono passati dal gruppo, sorta di nave-scuola del rock-blues britannico, moltissimi musicisti, in un continuo avvicendamento nella line-up tipico più delle formazioni jazz con un bandleader fisso che dei gruppo rock.

Suonare, suonare, suonare era il suo credo. Diffondere il verbo del blues – uno dei suoi album s’intitola Crusade – era la sua missione, che portava a termine non solo facendo i pezzi dei grandi, ma anche pubblicandone di suoi autografi. «Mai pensato che suonare il blues significasse copiare alta gente», ha detto.

«Un bluesman deve cantare della propria vita. E dopo un po’ mi sentito sufficientemente sicuro da farlo anch’io, oltre a suonare cover e tributi. Se la musica è la rappresentazione della tua vita, allora dovevo introdurre un elemento jazz, con cui sono cresciuto», si veda ad esempio The Turning Point di fine anni ’60.

Per una ventina d’anni, a patire dalla metà degli ’80, Mayall ha rimesso in piedi una nuova versione dei Bluesbeakes, per poi continuare semplicemente con la sua band fino al ritiro annunciato nel 2021, quando aveva 87 anni. «Per via dei rischi derivanti dalla pandemia e dell’età avanzata, ho deciso che è giunto il momento di appendere le road shoes al chiodo», ha detto.

Era riverito dai colleghi, anche dai bluesman afroamericani che non si sentivano defraudati ma ne elogiavano l’opera di divulgazione. È il caso ad esempio di B. B. King che lo considerava un maestro conscio che senza di lui e altri divulgatori «molti di noi musicisti neri d’America passeremmo ancora l’inferno». Era uno che dava spazio ai suoi musicisti, come ha fatto notare Walter Tout: «Per un chitarrista blues, un concerto dei Bluesbreakers e il top, è tipo il Monte Everest. Se suoni con B. B. King o con Buddy Guy ti limiti a fare accordi tutta la sera. E invece con John sei parte integrante della band, ti fa fare gli assoli, grida il tuo nome dopo ogni pezzo, ti porta sul fronte del palco e ti fa cantare».

Molti musicisti e appassionati hanno conosciuto il blues ascoltando i suoi dischi prima ancora di quelli dei bluesman afroamericani, anche in Italia. «Ha indicato la strada a migliaia di giovani, che grazie a lui e ai suoi capolavori discografici hanno scoperto le origini e la bellezza della “musica origine”», scrive oggi Fabio Treves sui Facebook. «Quando lo ascoltai nel lontano 1965, a Londra, mi innamorai della sua musica, del suo canto, dell’armonica suonata con semplicità e senza inutili virtuosismi. Era un sagittario cocciuto e coerente che non ha mai abbandonato la strada del blues. Il mio soprannome “Puma di Lambrate” lo inventò un giornalista negli anni ’70 proprio in omaggio a John, “il Leone di Manchester”. Grazie John, senza di te il blues oggi non sarebbe quello che è».

Mayall ha raccontato la sua storia nell’autobiografia del 2019 scritta con Joel McIver Blues From Laurel Canyon: My Life As A Bluesman, il suo ultimo album in studio è The Sun Is Shining Down del 2022. Quest’anno la Rock and Roll Hall of Fame gli ha riconosciuto il Musical Influence Award, dedicato a chi ha esercitato un’influenza determinante sul rock e la sua cultura. Lui diceva che il blues è la musica che «esprime con cruda onestà le esperienze di vita». Ne amava il mistero: «Credo che nessuno sappia esattamente cosa sia. È solo che non riesco a smettere di suonarlo».

L’anno in cui si è rotto il turismo (rivistastudio.com)

di Ferdinando Cotugno

Overtourism

Mai come quest’anno abbiamo assistito a pubbliche manifestazioni di odio nei confronti dei turisti.

Reazioni comprensibili a un problema che si fa sempre più grave, ma che non è così che risolveremo.

«Cause everybody hates a tourist», tutti odiano i turisti, soprattutto «quelli che pensano che tutto sia così divertente». La migliore descrizione del clima che si è creato oggi intorno al turismo l’aveva data Jarvis Cocker dei Pulp in “Common People”, la storia della ragazza ricca che voleva scoprire come viveva la gente comune a Londra e lui non sapeva come dirle che, insomma, quello che lei trovava così interessante in realtà faceva schifo, che l’autenticità – l’illusoria materia prima alla base dell’esperienza turistica – è un’idea della vita piuttosto inutilizzabile.

Quasi trent’anni dopo, il turista è diventato la figura contemporanea perfetta da odiare, deridere o entrambe le cose, e la parola overtourism è ormai entrata non solo nel linguaggio comune ma anche nel dibattito pubblico italiano. In molte località sotto pressione turistica c’è un mood tra il fastidio collettivo e la rivolta, le pistole ad acqua a Barcellonai droni sulle spiagge in Grecia, i cortei a Palma di Maiorca, le invasioni dei punk sull’isola di Sylt. Odiare il turista però vuol dire anche odiare un po’ se stessi, il turismo è una specie di oppressione a turno, un weekend rovini la città di qualcuno, il weekend dopo qualcuno rovina la tua.

Il turismo però è anche un’esperienza democratica, un’attività collegata al riposo, al piacere, è l’estensione di un diritto conquistato a caro prezzo da generazioni precedenti, quello di fuggire dal lavoro. Nasce come antidoto alla schiavitù del tempo salariato, è diventato la più predatoria delle industrie, la perfetta espressione del realismo capitalista in cui siamo tutti prede o predatori a seconda del ritmo circadiano della produzione.

In realtà ho scritto una cosa non del tutto vera: l’estrazione dei metalli che ci sono dentro questo computer è più predatoria del turismo, lo è anche la produzione della maggior parte del cibo che mangiamo e lo è ancora una gigantesca fetta della creazione di energia, quella da combustibili fossili. La predazione turistica però è più vistosa: non si può delocalizzare, non si può nascondere, è sempre lì davanti ai tuoi occhi.

Il turismo è in un certo senso un errore del capitalismo, un bug del suo principio cardine. Il sistema si regge sull’idea che i costi veri di un prodotto o di un servizio si possano occultare, in paesi remoti, nella nostra psiche, nell’atmosfera o nell’oceano, ma quelli del turismo sono impossibili da nascondere.

Non serve particolare elaborazione politica nel registrare che la sua espansione non governata rende impossibile affittare un appartamento, né per notare la sparizione dei servizi base, la metamorfosi dei quartieri, e la bruttezza dell’esperienza turistica in generale, quando non ne siamo noi i fruitori.

È facile odiare i turisti, oggi, perché sono un sintomo ambulante delle peggiori fratture della nostra società. Se potessimo tracciare con una bodycam la giornata di un visitatore a Roma, Firenze o Barcellona come fanno i biologi con i falchi pellegrini mentre cacciano, vedremmo che la specie umana è prossima alla bancarotta culturale. La verità, però, è che non è colpa dei turisti.

Quella bruttezza è un prodotto della società della stanchezza. Che sia un city break, un’avventura nel mondo, o tutto quello che c’è in mezzo, se siamo degli adulti nel mondo contemporaneo la certezza che ci accomuna è che partiremo già stanchi. Se volessimo ancora affidarci all’arcaica e demenziale distinzione tra turista e viaggiatore, questa sarebbe la principale differenza: il viaggiatore parte riposato, ha potuto dedicare tempo a leggere, prepararsi, comprendere lo spirito del posto e le basi della sua lingua, come mescolarsi con garbo e gentilezza, senza farsi troppo notare.

Se può farlo, è perché probabilmente i suoi genitori hanno di recente venduto un quadro di Tiziano o Tintoretto, non ha nessuna incombenza da lavoro salariato, e ha il privilegio del tempo che serve per studiare come non sembrare un imbecille a cui è giusto puntare contro una pistola ad acqua.

Il turista invece tutto l’anno vive inseguendo la sua stanchezza, non ha tempo capire, studiare, imparare, è generalmente esausto, e quindi si affida a tutto quello che è già pronto, Tripadvisor, la Seo universale delle dieci cose da non perdere, e così via. La regola base, come nel cibo, è che meno sforzo ti richiederà, più sarà pronto, precotto, pre-confezionato, più sarà predatorio per qualcun altro.

La ricerca delle stesse foto, degli stessi hashtag, degli stessi quartieri, delle stesse esperienze autentiche, la povertà delle risorse intellettuali con cui il turista si mette in ridicolo è frutto di tante cose, ma soprattutto lo è di quanto poco tempo siamo in grado dedicare alla creazione di un riposo di valore. L’estrattivismo dell’overtourism non è solo la predazione delle risorse turistiche, ma anche della stanchezza senza scampo dei turisti.

Odiare i turisti è una soluzione individuale a un problema sistemico. Tu in realtà odi il capitalismo, che però è più difficile da odiare, richiede più risorse, siamo sempre nello stesso loop, quindi prenotiamo un biglietto Ryanair e proviamo a non pensarci più.

Uno degli scrittori che più hanno riflettuto su questi temi è il romanziere inglese Will Self. Self scrive che uno dei nostri problemi è quanto siamo disaccoppiati dalla geografia fisica dei luoghi. Il suo antidoto sono lunghe camminate paradossali, una volta è arrivato a New York, all’aeroporto JFK, e ha camminato da lì fino a Manhattan per quasi quaranta chilometri.

Dice che questo è l’ultimo livello di vera esplorazione che rimane all’essere umano, che lui ha visto molto di più del mondo camminando in questo modo che esplorando foreste remote, e probabilmente ha ragione, ma l’originalità di esperienze così bizzarre ha il pregio di mettere a nudo la realtà e il difetto di non essere scalabile, di non servire a niente.

La verità è che un mondo senza turismo sarebbe un mondo peggiore. Conosco i profeti di questa idea, alcuni sono miei cari amici, apostoli della prossimità assoluta, del conoscere con precisione ogni pozza e ogni stagno nel raggio di dove si può arrivare a piedi o in bici e lasciar perdere tutto il resto.

È un esercizio di attenzione bello, ha una sua nobiltà, ma è come la psicogeografia di Will Self: non va bene per tutti. Abbiamo ancora bisogno dell’esperienza dell’altro che ci offre il turismo, e di fare esperienza dell’altro a casa nostra, di vedere da fuori e di essere visti da fuori, dello scambio di fluidi culturali alla base del turismo.

Stiamo provando in ogni modo a sfuggire all’idea che l’unico turista responsabile sia quello che sta a casa sua, il Web è pieno di articoli su come essere turisti migliori. Probabilmente, su questo livello delle soluzioni individuali, il riassunto di quei consigli è superare la scissione tra quello che siamo quando viaggiamo e quello che siamo quando non viaggiamo. Un modo per dire: le cose migliorano se non si è completamente stronzi, se ci si comporta come esseri umani accettabili anche a casa degli altri.

Basterebbe? Non basterebbe, certo che no, le soluzioni individuali finiscono sempre con l’essere puntelli del sistema. Chi vuole un cambiamento deve guardare, come sempre, nella direzione della partecipazione politica. Le rivolte a cui stiamo assistendo a vari livelli in Europa (e non solo) hanno il potere, o almeno la possibilità, di riformare il turismo, soprattutto la sua pretesa di ingovernabilità, di essere fuori da ogni giurisdizione pubblica, grazie al fatto di essere ormai gestito solo da piattaforme digitali globali.

Non è certo mettere in discussione il capitalismo, ma almeno la sua pretesa più tossica: l’assenza totale di regole. Città, luoghi, comunità, hanno il diritto di metterle, delle regole. Le lotte per porre dei limiti all’estrattivismo turistico stanno anzi diventando una delle palestre politiche più interessanti nei paesi democratici.

Quelle battaglie tengono insieme tutto, la lotta contro le rendite consolidate, la denuncia delle speculazioni, con la possibilità di vedere effetti anche nel breve termine, che ad altri tipi di intervento politico è preclusa (vedi le battaglie per il clima).

La derisione del turista è ingiusta, le lotte contro l’overtourism hanno il pregio della concretezza, di dare la sensazione che lo status quo non è ancora così consolidato da non poter essere smosso, le politiche abitative anti-affitti brevi come quelle di Barcellona dimostrano che c’è almeno un margine di azione. Alcune idee sono giuste, altre sono inutilmente repressive.

Il punto non è regolamentare ancora di più lo spazio pubblico (sindaci che decidono dove si può mangiare e dove no, o mettono i biglietti per visitare le loro città), ma avere il coraggio di governare l’attività privata. Il turismo oggi non solo contiene una domanda di politica, è anche un banco di prova utile sull’efficacia stessa della politica, un test per l’idea che la nostra società non ha ancora superato il punto di non governabilità.

Basta non mettersi a odiare i turisti, loro sono solo un sintomo, e loro sono soprattutto noi, in un altro momento dell’anno.

(rivistastudio.com)

Il giornalismo e la corsa al click: storia di una relazione pericolosa (ilmanifesto.it)

di Paolo Viganò

LIBRI

Ben Smith racconta nel suo nuovo libro il cambiamento del mondo delle notizie, dalla nascita dei primi blog fino ai social network

Se vi siete mai domandati come una parte del giornalismo di oggi sia passata dall’epoca eroica delle enormi redazioni, degli inviati e dei reportage sul campo a una in cui guadagna quattro milioni di lettori online con titoli (reali) come «Bullo dà del ciccione al conduttore del telegiornale, il conduttore lo demolisce in diretta tv», troverete una storia piuttosto dettagliata della faccenda leggendo Traffic di Ben Smith (Altrecose, traduzione di Andrea Gechi, pp. 413, euro 21).

Smith, autore che vanta una decennale esperienza nel giornalismo online, racconta in un libro illuminante come il mondo dell’informazione sia arrivato a questa epocale «trasformazione» – qualcuno, incurante di vedersi affibbiato l’epiteto di boomer, potrebbe anche chiamarlo «declino».

Erano i primi anni Duemila, quando, dopo il crollo del Nasdaq, la palingenesi del web veniva guidata da una carnevalesca banda di nerd dell’informatica, blogger assetati di fama e primi esponenti dell’alt-right. Una strana comitiva in cerca di un medesimo feticcio: il «traffico».

CHE COSA sia il traffico è facile e al contempo difficile dirlo: è il dato che registra il numero di fruitori di un certo contenuto, ma è anche, forse, una faccia dello spirito del tempo, come lo definisce Smith.

Ed è anche la fonte del successo dei protagonisti di Traffic – da Jonah Peretti, creatore del concetto di viralità, a Nick Denton, che guadagnò una fortuna grazie alla diffusione di materiale privato di celebrità americane sul blog Gawker.

Il libro di Smith aiuta a cogliere molti punti oscuri di una rivoluzione in cui ci siamo ritrovati senza nemmeno accorgercene: è la storia di un mondo, inizialmente piccolo e poi in rapida espansione, che è arrivato a sfidare e battere i «dinosauri» dei media tradizionali, costringendoli a trovare nuove strategie per sopravvivere.

Ed è anche, tristemente, la storia di come l’egemonia dei social nel campo delle notizie abbia portato a fenomeni come le fake news, la sgangherata campagna elettorale di Trump, l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

IN PROPOSITO, Smith commenta che il trionfo sui social di Trump & co. nell’ultima parte degli anni Dieci «rientrava in un modello di populismo… che ha travolto la piattaforma». Una serie di contenuti regressivi che si attagliavano perfettamente ai nuovi media, precedentemente esclusiva del mondo liberal – a tal proposito, Traffic racconta anche di come la prima campagna elettorale di Obama guadagnò una «spinta» decisiva dal mondo di internet.

Da qui, la consueta domanda. Di fronte all’impazzimento del mondo dell’informazione digitale, che passa rapidamente dall’infotainment a propalare notizie false, che fare? Smith pare ottimista, e conclude il suo libro parlando di un establishment di «persone che… lavorano nei media, nella politica e nella tecnologia, oggi impegnate a capire come tenere insieme queste istituzioni in crisi».

Una questione di controllo quindi, di raffinamento degli algoritmi, di inserimento di più stringenti linee guida – desta qualche perplessità, tuttavia, che tale operazione di sorveglianza sia spesso lasciata all’iniziativa privata.

NEL 1951, il teorico dei media Marshall McLuhan scrisse: «La nostra è un’epoca in cui, per la prima volta, molte migliaia delle menti individuali più preparate si sono dedicate a tempo pieno al compito di penetrare all’interno dell’opinione pubblica». 

Traffic è parte della storia di come, mezzo secolo più tardi, grazie ad algoritmi, feed e al nostro smodato amore per gli apparecchi, questa ricerca si sia evoluta fino a inseguirci direttamente nel nostro quotidiano.