Mpox e la disinformazione (butac.it)

di 

Vaiolo delle scimmie, monkeypox, mpox. 

Emergenze sanitarie, vaccini, stato di allarme… cerchiamo di fare chiarezza!

Sono tanti i media che stanno parlando di nuova emergenza sanitaria – o falsa emergenza sanitaria – legata al “vaiolo delle scimmie”Si va da articoli come questo de La Verità a testi firmati da Diego Fusaro come questo sul Giornale d’Italia, ma si passa anche per quotidiani nazionali a più larga diffusione: a informare male, tanto per cambiare, stanno contribuendo in tanti.

Partiamo dal nome: vaiolo delle scimmie, in inglese Monkeypox, che però è un termine improprio. Usarlo ancora nel 2024 è sbagliato e dimostra di non aver approfondito in alcun modo la materia. Che lo facciano testate di scarso valore è un conto, che succeda ai media di Stato è a nostro avviso grave:

RaiNews: Vaiolo delle scimmie, in Svezia primo caso della variante Clade 1 in Europa

Difatti, innanzitutto, anche se il virus è stato identificato per la prima volta in scimmie da laboratorio nel 1958, il nome “vaiolo delle scimmie” è ingannevole perché suggerisce erroneamente che le scimmie siano il principale serbatoio naturale del virus. In realtà, il virus è endemico in alcune regioni dell’Africa e si pensa che i roditori, come topi e scoiattoli, siano il serbatoio naturale più probabile, non le scimmie.

Ma il problema non è solo il ricondurlo erroneamente alle scimmie: anche l’uso del termine “vaiolo” può causare confusione con il vaiolo umano, una malattia completamente diversa e molto più grave che è stata eradicata.

Sebbene il virus appartenga alla stessa famiglia (Poxviridae) del virus del vaiolo, le due malattie hanno caratteristiche epidemiologiche e cliniche diverse. Per questi motivi, nel novembre 2022, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha raccomandato di usare il termine “Mpox” come nome preferito per la malattia precedentemente nota come “vaiolo delle scimmie”. Questa decisione è stata presa per ridurre lo stigma associato al nome e per riflettere meglio la comprensione scientifica della malattia.

Ad oggi uno dei pochi che vedo aver fatto chiarezza è il nostro buon amico dottor Andrea Casadio su Il Domani.

Scrive il dottor Casadio:

Ci dobbiamo preoccupare? Il vaiolo delle scimmie sarà la nuova pandemia globale? La risposta a entrambe le domande è no, non ci dobbiamo preoccupare, anche se questo nuovo virus è da tenere sotto controllo. Intanto, il 15 agosto è stato segnalato il primo caso di Mpox di clade I al di fuori dell’Africa: «Si tratta di una persona che si è infettata durante un soggiorno in una delle zone dell’Africa dove vi è un vasto focolaio della malattia», hanno dichiarato le autorità del paese.

«Il virus del vaiolo delle scimmie non è neanche lontanamente paragonabile al SARS-CoV-2, responsabile della pandemia di Covid-19», ha affermato Jay Hooper, virologo del Centro ricerche malattie infettive dell’esercito americano di Ford Derrick, nel Maryland. A differenza del SARS-CoV-2, che si diffonde attraverso le minuscole, invisibili goccioline emesse dai malati ma anche da portatori asintomatici, il virus del vaiolo delle scimmie si trasmette solo per contatto ravvicinato e diretto, cioè un essere umano per contagiarsi deve toccare le lesioni o i liquidi corporei di un infetto, e difficilmente le lesioni di un infetto da vaiolo delle scimmie passano inosservate.

Andrea Casadio però si è limitato a fare chiarezza su termini e preoccupazioni, noi crediamo invece che sia anche il caso di verificare alcune delle affermazioni riportate dai disinformatori seriali, disinformatori che cercano di fare leva, come sempre, sulle paure di chi li segue. Ad esempio Diego Fusaro racconta:

…l’emergenza permanente coincide con la nuova normalità, con il nuovo metodo di governo delle cose e delle persone proprio dell’ordine neoliberale. Lo stato d’emergenza permanente trapassa senza soluzione di continuità nello stato d’eccezione permanente: e la medicina diventa arte politica del controllo in chiave neoliberale, bio-politica, per riprendere il tema caro a Foucault, Toni Negri e Agamben.

Sostenere, sulla base delle avvertenze attuali dell’OMS su Mpox, che l’emergenza sanitaria sia diventata una “nuova normalità”, è un’opinione personale decisamente discutibile. La gestione delle emergenze sanitarie segue protocolli internazionali per proteggere la salute pubblica. L’emergenza sanitaria relativa al COVID-19 ha portato a misure straordinarie, ma sono state limitate nel tempo e basate su necessità improrogabili.

Insistere nel diffondere disinformazione, dando a intendere che vengano annunciate false emergenze allo scopo di controllare le popolazioni, andrebbe supportato da prove che non vengono mai portate dai disinformatori seriali, liberi di raccontare quel che vogliono anche grazie al fatto che in Paesi come il nostro difficilmente vengono puniti, come invece abbiamo visto succedere in US e UK ultimamente.

Nessuno nega che alcune misure (come i lockdown) abbiano avuto un impatto significativo sulle libertà individuali, ma non c’è evidenza alcuna che siano state utilizzate come parte di una strategia deliberata per instaurare uno stato di “emergenza permanente”, è un’interpretazione che non trova riscontro nei dati e nelle pratiche attuali.

Insistere nel portarla avanti come vediamo fare da tanti “influencer” populisti e sovranisti – e da alcune testate vicine all’attuale governo, che hanno contribuito al suo successo elettorale – è grave, specie visto che la comunità scientifica ha spiegato più volte che ci potranno essere nuove pandemie nel prossimo futuro.

Alessandro Rico (o chi per lui) su La Verità il 15 agosto 2024 titolava invece così:

Prima si fabbricano i sieri, poi l’emergenza

Con questo sottotitolo:

L’Oms dichiara lo stato di allerta globale per il vaiolo delle scimmie a causa dei focolai in Africa, concentrati al 96% in Congo, mentre nel mondo i casi sono circa 100.000. E l’Europa corre a fare incetta di vaccini da donare. Borrell: «Ne servono 10 milioni».

Dando a intendere qualcosa che non è, ovvero che le emergenze sanitarie vengano create o esagerate per giustificare la produzione e la distribuzione di vaccini. Ma siamo di fronte, ancora una volta, a una teoria del complotto che andrebbe dimostrata con prove, cosa che Rico e La Verità non fanno, pur portando avanti la tesi da anni.

Come avrete immaginato, infatti, non esiste alcuna prova che suggerisca che i vaccini vengano prodotti in anticipo rispetto alle emergenze con l’intento di creare una domanda artificiale. L’OMS e altre organizzazioni sanitarie agiscono in base ai dati epidemiologici disponibili e allo scopo di proteggere la salute pubblica. L’idea che l’Europa “corra a fare incetta di vaccini” non deve sorprendere, né far sospettare chissà quale malafede: si tratta di una risposta logica a un’emergenza sanitaria riconosciuta a livello internazionale. Le nazioni si preparano per contenere il virus e proteggere le popolazioni più a rischio, e la produzione e l’acquisto di vaccini fanno parte delle misure di preparazione per affrontare le minacce sanitarie fin da quando i vaccini esistono. Il focolaio di Mpox è stato particolarmente concentrato in alcuni Paesi africani come il Congo, non siamo qui a negarlo, ma si è diffuso anche in altri continenti, compresa l’Europa. La diffusione del virus e la risposta internazionale, inclusa la richiesta di vaccini, sono basate su dati epidemiologici concreti.

Per chi volesse approfondire la storia del Mpox suggeriamo quest’articolo su Science: Pulling back the curtain – the untold story of Mpox.

Mentre Mélenchon grida al colpo di Stato, Glucksmann punta a guidare la sinistra francese nel 2027 (linkiesta.it)

di

Il maratoneta

Il capo della France Insoumise persegue una politica sterile e provocatoria, pretendendo di imporre come premier Lucie Castets, ma non ha abbastanza seggi in Parlamento.

Mentre il leader di Place Publique lavora per riportare il Nuovo Fronte Popolare a una posizione più pragmatica e costruttiva

La sinistra francese è a pezzi, lacerata tra l’isteria gauchista e sterile di Jean Luc Mélenchon, che denuncia inesistenti colpi di Stato di Macron, e il riformismo socialdemocratico di Raphaël Glucksmann, che punta a costruire uno schieramento di sinistra affidabile per le presidenziali del 2027 nelle quali probabilmente sarà il candidato.

Glucksmann tenta di sottrarre la sinistra francese al dogmatismo gauchista che largamente la informa con parole nette: «È indispensabile rompere con l’estetica della radicalità che non è altro che settarismo». Questo, proprio nel momento in cui, proprio in omaggio a questo mito radicale, Jean Luc Mélenchon lancia una manovra suicida e provocatoria depositando in parlamento una mozione per la destituzione del presidente Emmanuel Macron per «violazione dei suoi doveri».

La tesi di Mélenchon è del tutto arbitraria perché sostiene che il Presidente è obbligato a dare l’incarico di formare il governo a Lucie Castets, una sconosciuta e scialba tecnocrate – finalmente indicata come candidata premier dalla gauche – perché la coalizione di sinistra è risultata prima nelle elezioni.

Ma Emmanuel Macron si guarda bene dal fare questa mossa avventurosa per una solidissima ragione costituzionale: il Nuovo Fronte Popolare è stato sì la coalizione più votata, ma ha ottenuto solo centottantadue seggi, dunque ben centosette meno della maggioranza di duecentottantanove.

Ora, in Francia, la Costituzione non prevede l’obbligo per i governi di ottenere il voto dì fiducia, quindi, in pura teoria, Castets potrebbe essere nominata premier, ma è certo che dopo una settimana il suo governo decadrebbe a causa di una mozione di censura massicciamente votata da tutti gli altri partiti.

Ma è esattamente questo, un disastro istituzionale che gli permette di fare la vittima «delle forze oscure della destra», lo scenario a cui lavora Mélenchon, le cui parlamentari partecipano a incontri di piena solidarietà con Hamas, del tutto incurante delle necessità di governabilità della Francia, e tutto teso a passare da propaganda a propaganda in un turbinio gauchista, condito da un verbalismo estremista esasperato.

Contro questa deriva settaria e giacobina si scaglia dunque Raphaël Glucksmann, il quale prende atto del fatto che in realtà Mélenchon è isolato a sinistra, perché né i socialisti né i verdi né i comunisti intendono sottoscrivere, e men che meno votare, la richiesta di destituzione di Emmanuel Macron. Nemmeno la sua candidata premier Castets la voterebbe.

Ma, soprattutto, Glucksmann guarda alle complicatissime trattative per la formazione del governo con un non casuale appello al ritorno alla sottile arte del compromesso: «A sinistra si è terrorizzati di fronte all’idea di essere considerati come impuri se si negoziano dei compromessi. Ma perché mai fare politica se ci si condanna all’impotenza e alle pose fini a sé stesse?».

Glucksmann coglie così nel segno, denunciando il principale problema della sinistra, e lo fa ben sapendo che, mentre Mélenchon sbraita e denuncia colpi di Stato inesistenti, Emmanuel Macron sta tessendo una sottilissima tela di compromessi in cui intende coinvolgere anche il partito socialista.

Il dato di fatto è drammaticamente semplice: il risultato elettorale di luglio in Francia non permette la formazione di nessun governo di coalizione omogenea che goda di una maggioranza parlamentare, anche risicata, né di destra né di sinistra. In questo senso, la decisione di Macron di sciogliere il parlamento e di indire elezioni anticipate ha portato a un risultato disastroso.

Peraltro, la Costituzione vieta di tornare al voto prima del giugno 2025. Quindi Macron, e l’ha detto chiaramente, lavora a formare un esecutivo di scopo, tra forze eterogenee, che potenzialmente possa essere votato da un ampio schieramento che va dai neogollisti, ai deputati di Macron e arriva ai socialisti, che si dia obiettivi minimi: una legge di Bilancio di tono minore e blandi provvedimenti contro il caro vita e a favore dell’occupazione.

Nulla più, se non la continuità del sostegno all’Ucraina, denominatore comune di questo largo spettro parlamentare. È quella che alcuni giornali chiamano “la strategia dell’omelette” che mira a coinvolgere tutti i partiti, tranne La France Insoumise a sinistra e il Rassemblement National a destra.

Una soluzione di estremo compromesso, al ribasso, per la quale non a caso Emmanuel Macron sta valutando addirittura, lo rivela Le Monde, di nominare un premier di lontana provenienza socialista, come Bernard Cazeneuve, che ruppe due anni fa col Ps in aperta polemica con l’alleanza nella Nupes con Jean Luc Mélenchon. È questa solo un’ipotesi sostenuta dall’ala sinistra dei collaboratori del Presidente. Altre, più centriste, hanno più forza.

Ma resta la sostanza che Glucksmann ha colto: Emmanuel Macron vuole coinvolgere il partito socialista, direttamente nel governo o di volta in volta, su singoli provvedimenti legislativi, in responsabilità di governo, quantomeno sino al giugno 2025. Il tutto, nella prospettiva non solo di elezioni anticipate l’anno prossimo, ma anche dello scontro con una Marine Le Pen forte come non mai alle presidenziali del 2027.

Appuntamento sul quale Glucksmann ha le idee chiare: «Sarà la socialdemocrazia, non i succedanei del macronismo o un avatar del populismo di sinistra che potrà affrontare il lepenismo». Di fatto una autocandidatura del leader di una sinistra che alle europee ha dimostrato di saper riconquistare consensi.

Si apre dunque in Francia per la sinistra riformista un percorso di compromessi alti e di possibili corresponsabilità di governo, una novità che i suoi leader devono saper valutare con saggezza, mentre i gauscisti alla Mélenchon gridano alla luna.

Un patto oltre le fazioni (corriere.it)

di Gian Antonio Stella

I figli dei migranti

Sono passati quindici anni da quando Lihao Zhang vinse il premio di poesia in dialetto lumbard di Voghera con «La paciada» (la scorpacciata) sul sogno fatto dopo essere stato spedito a letto senza cena:

«Ghera una tavula / con tanti rob preparà / piat ad roba bona, / tut in bela vista / salam, antipast / pulastr e insalada…». Ventotto dal premio «Al Zempedon» per il dialetto bellunese vinto da Fang Xu con «An fià par on».

Quei bimbi cinesi che parlavano dialetto meglio di tanti figli nostri son oggi adulti. Eppure la politica, sulla cittadinanza ai figli degli immigrati, è ancora spaccata.

Di qua quelli che cocciutamente insistono sullo ius soli puro per dare il diritto automatico al passaporto a chi nasca sul territorio nazionale come accadeva nel 1948 in metà dei Paesi del mondo (47%) e oggi solo negli Usa (ammesso che Trump non vinca) e parte dei Paesi americani. Di là quanti cocciutamente negano la necessità di cambiare la legge base del ‘92.

Pensata, scritta e votata trentadue anni fa in un contesto immensamente diverso da oggi. E centrata sullo ius sanguinis. Con strascichi. Comprese certe forzature tipo l’idea di allargare la cittadinanza ai nipoti dei nipoti emigrati fino alla quinta generazione. Col risultato che il bresciano Mario Balotelli o la padovana Paola Egonu per diventare italiani han dovuto attendere di compiere i 18 anni e il brasiliano Jorginho, che tra i 16 trisnonni ne ha uno di Lusiana, diventò subito capitano degli azzurri.

Ma ha ancora senso dopo aver tutti esultato alle Olimpiadi (tolto Vannacci, ovvio, per tigna) davanti alle fantastiche ragazze d’oro del volley che intonavano felici, mano sul cuore, il «loro» Inno di Mameli (a partire dalla sicula-lombarda di genitori ivoriani Myriam Sylla che Sergio Mattarella chiama affettuoso «la mia concittadina») questo scontro testardo fra opposte e inconciliabili visioni del problema che paralizza da decenni ogni confronto?

È cambiato tutto, intorno. E come hanno (inutilmente?) spiegato Graziella Bertocchi e Chiara Strozzi nel saggio «L’evoluzione delle leggi sulla cittadinanza: una prospettiva globale», moltissimi Paesi hanno cambiato le loro vecchie regole per adattarle a sistemi più flessibili. Un dato per tutti: i Paesi col sistema misto (si chiami «ius scholae» o «ius culturae» o «ius soli temperato») sono passati dal 12% a quote sempre più ampie. Soprattutto in Europa.

Poi, certo, ogni Paese si regola a modo suo. C’è chi riconosce la cittadinanza come Francia, Paesi Bassi, Spagna e Lussemburgo, col sistema del «doppio ius soli» ai bimbi d’origine straniera figli di immigrati nati a loro volta già nel territorio nazionale e chi preferisce esigere più che il luogo di nascita, dagli aspiranti cittadini, il loro coinvolgimento nei valori culturali del Paese scelto. C’è chi vuole uno o due cicli scolastici, chi pretende da due a otto anni di residenza regolare…

Scelte diverse via via proposte negli anni in Parlamento da sinistra (Laura Boldrini, Matteo Orfini, Giuseppe Brescia…) o da destra (Renata Polverini) ma sempre finite in un cul-de-sac. Con una parte della sinistra a chiedere lo ius soli puro sventolando il drappo rosso in faccia al toro leghista e la destra decisa a non mollare un millimetro.

Il tutto a prescindere dall’opinione degli italiani che secondo il Report Ansa «I migranti visti dai cittadini», diffuso nel 2012, non erano affatto ostili. Il 38,2% pensava bastassero cinque anni di residenza, il 10% riteneva che ce ne volessero dieci. Ma, diceva il sondaggio, il 72,1% era «favorevole al riconoscimento della cittadinanza a chi nasce in Italia».

Il tutto nella scia di una consapevolezza chiara due millenni fa agli autori dello Huainanzi, un’opera cinese nel II secolo avanti Cristo che parlava dei popoli dell’Impero di mezzo: «Quando presso gli Êrmâ, i Di o i Bodi nascono bambini, urlano tutti allo stesso modo. Ma una volta cresciuti non sono in grado di capirsi neppure con l’interprete. (…) Ma prendete un bimbo di tre mesi, portatelo in un altro Stato e in futuro non saprà neanche quali costumi esistono nella sua patria». Non è il luogo di nascita né il cognome o le fattezze fisiche a plasmare un cittadino: è molto di più.

Né la pensa diversamente Papa Francesco, figlio di emigrati in Argentina, che pur evitando di scendere nelle beghe politiche italiane a Natale del 2017 sottolineò così l’evento straordinario di Betlemme: «Maria e Giuseppe, per i quali non c’era posto, sono i primi ad abbracciare Colui che viene a dare a tutti noi il documento di cittadinanza».

Un tema rafforzato giorni dopo invocando «una legislazione sulla cittadinanza conforme ai principi fondamentali del diritto internazionale». Non fu data questa opportunità, del resto, ai nostri nonni in Sudamerica come ha ricordato giorni fa Sergio Mattarella a Rio? «Il Brasile dà una lezione di civiltà non soltanto con l’accoglienza e crescita sociale ai migranti, ma anche con la capacità di saper fare e rendere suoi cittadini persone venute da tante parti diverse del mondo. Tutti brasiliani, autenticamente e orgogliosamente brasiliani, pur venendo da altri Paesi».

Possibile che non si trovi un accordo anche tra avversari su questo tema centrale? Come spiegarono uomini diversi come Hannah Arendt, Helmut Kohl o Nelson Mandela, il compromesso non è necessariamente un punto basso della politica. Anzi.

Il compromesso, scrive Norberto Bobbio, non è affatto l’opposto della moralità. Nelle società democratiche, è una virtù, perché permette di conciliare interessi diversi e trovare un equilibrio tra posizioni contrastanti». Può essere nobile, un compromesso.

Del resto cosa dice l’adagio? Il meglio è nemico del bene. E il peggio è la palude.