L’autonomia differenziata è una presa in giro (italiaoggi.it)

di Giovanni Cominelli

Nessuno dei contendenti dice la verità. 

Non la dice il Governo e non la dice l’opposizione, ma l’assetto istituzionale dello Stato va riformato

È inutile prendere sul serio il dibattito in corso sull’autonomia differenziata. Ciò, perché nessuno dei contendenti dice la verità. Non la dice il Governo, diviso radicalmente al suo interno: FdI e FI semplicemente non vogliono l’autonomia differenziata.

Non la dice Roberto Calderoli: se l’autonomia è legata alla definizione dei LEP, di cui si discute fin dal 1992, campa cavallo. Non la dicono le forze dell’opposizione. Eppure anche i sassi sanno che l’autonomia differenziata è conseguenza del Titolo V del 2001, che la sinistra ha voluto ardentemente, così come un corollario discende dal teorema. L’appello referendario alla salvezza dell’Italia risulta patetico e in malafede.

È più seria la domanda: l’attuale assetto istituzionale dello Stato favorisce lo sviluppo della Nazione? La risposta è no. Pertanto, progettarne uno nuovo è il compito essenziale di una politica, degna del proprio nome.

Saltiamo qui a piè pari la lunga storia del regionalismo e partiamo dal Titolo V della Costituzione del 1948.

Le regioni nascono nel 1948 dal compromesso di due opposti progetti politici

L’istituto-Regione nasce al punto di compromesso di due opposti progetti politici, piegati ciascuno dalla guerra fredda.

Prima del ’48 i democristiano-sturziani vogliono le Regioni, le sinistre no. Se si deve conquistare il potere e lo Stato, meglio trovarlo tutto concentrato in un solo punto, non disperso in tante Regioni.

Ma nel ’48 i fini si invertono: la DC vittoriosa diventa centralista per evitare la costituzione di Repubbliche rosse nel Centro-Nord, il PCI diventa regionalista per la ragione opposta. Donde il ritardo ventennale dell’attuazione del Titolo V.

Quando le Regioni si installarono nel giugno del 1970, le formule del centrismo e del centro-sinistra si erano già consumate, mentre il Pci stava diventando un convitato di pietra sempre più ingombrante. Come ricorda un antico liberale P. Muccio de Quattro, citando Francesco Cossiga, le Regioni, «furono dunque varate per motivi eminentemente di equilibrio politico, non perché le si ritenesse necessarie per una migliore organizzazione dello Stato. Insomma, bisognava dare un po’ di potere ai comunisti lì ove erano più forti: in Toscana, in Emilia Romagna, in Umbria».

Così le Regioni sono diventate luoghi di riproduzione di un nuovo strato del ceto politico-partitico e, en passant, di un nuovo cespite di finanziamento indiretto dei partiti.

L’istituzione delle Regioni ha contribuito a sanare le fratture storiche del Paese? Non pare.

Dal regionalismo ordinario al regionalismo differenziato

Nel corso degli anni ’90, con la crisi del sistema politico, si tentò di ripensarle. Accadde nella Bicamerale istituita con Legge costituzionale 1/1997 del 24 gennaio, con il compito di elaborare progetti «in materia di forma di Stato, forma di governo e bicameralismo, sistema delle garanzie».

Ma già nella seduta dell’11 dicembre 1997 l’assessore agli Affari istituzionali dell’Emilia-Romagna Luigi Mariucci denunciava la contraddizione tra un messaggio di federalismo virtuale e un messaggio autonomistico estremo: «Ne è derivato un disegno che per molti aspetti assomiglia più che altro ad un quadro di Arcimboldo», nel quale si mescolano patate e melanzane.

Fallita ufficialmente la Bicamerale nel Giugno del 1998, non cessava però la pressione devoluzionista, ai limiti del secessionismo, della Lega Nord. E così nel 2001 il centro-sinistra si approvò addosso il nuovo Titolo V, con l’idea di agganciare al proprio carro la Lega di Bossi e vincere le elezioni del 2001.

Nacque così il «regionalismo differenziato», che nei suoi primi tentativi di esercizio delle competenze condivise con lo Stato scatenò più di mille cause di fronte alla Corte costituzionale e intensificò le pulsioni politico-referendarie verso ulteriori autonomie regionali.

Da ultimo, 23 gennaio scorso 2024 il Senato ha approvato il disegno di legge n. 615, presentato dal ministro Roberto Calderoli e intitolato «Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione». All’analisi del ddl, www.santalessandro.org ha dedicato un articolo il 30 gennaio del 2024: «Alla fine della favola, in assenza di criteri oggettivi per la contrattazione tra Stato e Regioni, ciò che resta decisivo è la contrattazione tutta politica, basata su criteri di consenso elettorale e su mutevoli rapporti di forza».

Il federalismo necessario della sussidiarietà

Se usciamo dal retrobottega della politica per aprire gli occhi sul Paese reale, il Paese è questo: il Nord è diventato parte integrante di un’area produttiva che si estende ai due lati delle Alpi; la fascia adriatica, il Sud e le Isole dispongono di potenzialità di autosviluppo agro-industriale e di connessioni commerciali con le sponde opposte del Mediterraneo, dai Balcani all’Africa.

Questo assetto condiziona le dinamiche industriali, i trasporti, l’urbanistica, le migrazioni in entrata e in uscita, le demografia, la posa delle Reti. Il «glocalismo dello sviluppo» è diventato la cifra di molte aree «interne» del Paese: abitare in una Valle bergamasca o nel Salento e lavorare per Pasadena o per Francoforte.

Esistono «naturali» differenze socio-economiche e culturali tra Nord-Sud, città-campagna, pianure e aree interne montane. Dalla storia del Paese arrivano fratture antropologiche più lunghe e più profonde, che le classi dirigenti non sono state capaci di sanare e che, forse, non sono sanabili, se non nella lunga durata, che, va detto, è già durata piuttosto a lungo.

Rispetto a questo Paese reale, toccherebbe alle classi dirigenti, innanzitutto politiche, disegnare la trama istituzionale e amministrativa che ne favorisca lo sviluppo e la civilizzazione. Ma la filosofia centralista che muove il ceto politico nazionale è un ostacolo ad un progetto istituzionale di sviluppo.

Così il centralismo statalistico al Nord agisce da frenoal Sud copre assistenzialmente la pigrizia del sottosviluppo. Si tratta di un centralismo tutto partitico-politico, la cui realizzazione effettuale, a geometria variabile, è decisa dalla contrattazione politica, sia interna alla maggioranza di governo sia tra maggioranza e opposizione. A norma dello stesso ddl Calderoli, i finanziamenti delle autonomie sono stabiliti «di anno in anno», a contratto. Si tratta di un centralismo arbitrario e sbrindellato.

L’attuale assetto istituzionale costituisce un blocco dello sviluppo del Paese e perciò è causa del suo declino

Se ne deve concludere che l’attuale assetto istituzionale – governo debole, bicameralismo perfetto, regionalismo ordinario e rafforzato, magistratura esondante – costituisce un blocco dello sviluppo del Paese e perciò è causa del suo declino. Le Istituzioni congiurano contro il futuro del Paese.

Serve un assetto federale, fondato sulla sussidiarietà verticale e orizzontale. Il federalismo ha due caratteristiche essenziali, una istituzionale e una etica. Quella istituzionale: l’autonomia di ogni singolo livello – comunale, provinciale, regionale, nazionale – è fondata sulla responsabilità politica di prelievo fiscale e di spesa. La sussidiarietà verticale è il quadro migliore per lo sviluppo della sussidiarietà orizzontale, nella quale la società civile può fiorire.

La base etica del federalismo è il principio di responsabilità, del merito, delle opere. E le diseguaglianze che naturalmente lo sviluppo sottoproduce? Nessuno deve essere lasciato indietro, a condizione che cammini con le sue gambe. Nessun altro può camminare al tuo posto. Questa è l’etica della responsabilità.

Il terrapiattismo dei Cinque stelle (ilfoglio.it)

Il Superbonus fa aumentare il debito? 

“È un falso mito”, dice l’ex presidente dell’Inps Pasquale Tridico

Qualche anno fa gli economisti Pierre Cahuc e André Zylberberg pubblicarono un libro dal titolo Le Négationnisme économique (“Contro il negazionismo”, Bocconi Editore), che passava in rassegna tutte le pessime e infondate credenze economiche che inquinavano il dibattito in Francia (e che hanno caratterizzato anche le ultime elezioni legislative).

Non c’è dubbio che, se mai dei colleghi italiani di Cahuc e Zylberberg volessero scrivere una versione tricolore sul “negazionismo economico”, un posto d’onore spetterebbe a Pasquale Tridico.

L’ex presidente dell’Inps, all’epoca indicato dal M5s di cui ora è europarlamentare, intervistato dalla Stampa dice che, secondo lui, la tesi per cui il debito pubblico aumenta a causa del Superbonus è “un falso mito”.

Proprio così. “Non vedo un legame tra la crescita del debito di oggi e il Superbonus”, dice Tridico. Non si sa se sorprende di più la mancanza di buon senso o il fatto che a parlare sia un professore  di Economia. Perché sostenere che il Superbonus, che con i suoi 160 miliardi di costo è la peggiore misura di finanza pubblica della storia italiana, non ha alcun legame con l’aumento del debito è come affermare che la Terra è piatta.

In questi anni, e per i prossimi, l’Italia spenderà decine di miliardi all’anno per pagare il Superbonus e questa è la principale ragione per cui il rapporto debito/pil crescerà anziché diminuire.

È scritto, a chiare lettere, nel Def del governo, ma anche nei rapporti e nelle analisi della Commissione europea, dell’Fmi, della Banca d’Italia, dell’Upb e di chiunque sulla faccia rotonda della Terra sappia fare di conto. Il fatto che per difendere la scellerata misura del governo Conte un economista, per quanto militante, debba ricorrere al terrapiattismo economico dà la misura di quanto irragionevole sia stato il Superbonus.

Da un lato è un sollievo che Tridico non sia più presidente dell’Inps, ma dall’altro preoccupa che sia ora presidente della sottocommissione per le questioni fiscali del Parlamento europeo. Un piccolo passo in avanti per l’Italia, un grande salto indietro per l’Europa.

Ma smettila! Nazionalismi e paure (doppiozero.com)

di Enrico Palandri

Di fronte alle insidie della destra in tutta 
Europa è difficile non retrocedere in analogie 
con il passato poco utili. 

Il passato non illumina l’agire politico, ci offre una grammatica attraverso cui tentiamo di leggere quello che avviene, ma proprio come la lingua, dove conoscere etimologie non ne raffina o precisa l’uso, così nel pensare il mondo, la storia, sempre utilizzata con grande disinvoltura da tiranni di ogni tipo, dalla riedizione dell’impero romano di Mussolini alle farneticazioni putiniane che accompagnano i suoi carrarmati, non chiarisce il presente. Al più, proietta alle nostre spalle la nostalgia di senso per quel di cui siamo parte.

Per restare nell’analogia tra lingua e storia, la lingua che parliamo è fatta di mancanze, eccezioni, errori. Il parlato è sempre superiore al parlare correttamente, così come lo stile nella scrittura è profondo, incontrollabile, non la ripulitura che si dà alla fine a un manoscritto.

In generale le irregolarità sono il conto che la realtà ci presenta continuamente, riemersioni da substrati, invenzione di gerghi che travolgono le norme. È proprio quel che è irregolare a mostrare l’arbitrio e a volte la violenza delle norme. Le lingue naturali sono piene di incrostazioni, traumi, impennate, rivisitazioni, traduzioni.

Tutto è sempre molto imperfetto. Vorremmo poter dire le cose in modo chiaro e semplice e già il volerlo racconta come in realtà quanto vogliamo raccontare sia più complicato, quante lingue, dialetti, registri, quanti comportamenti erotici e umani, quanti miscugli di Dei e umani, rimozioni e ricerche si agitino nel fondo, insomma quanto tutto è ampio.

Dar forma a quello che si svolge in noi e davanti ai nostri occhi è un materiale che vorremmo fosse passato, ma preme invece da ogni lato, risorge, come la colpa, il rimpianto e il rimorso, come l’Angelus Novus di Benjamin, come le azioni dei padri e dei nonni, il fascismo che non muore mai, i crimini degli Argolidi (Agamennone, Clitemnestra, Oreste cc.) o dei Labdacidi (Cadmo, Labdaco, Laio, Edipo, Antigone Eteocle, Polinice e Ismene). Cicli di colpe che rinascono di generazione in generazione.

Anche più intimamente, la consapevolezza di un’ombra interna, quella che la psicanalisi descrive come inconscio e la letteratura e la musica coltivano con arte, il nostro segreto che si scioglie tra le braccia di un altro, quando l’inquietudine di essere se stessi si apre e si svolge in una relazione che ci accoglie, sono il marchio della diversità.

Siamo diversi, sempre, dai nostri fratelli e genitori, dai vicini e dai compagni di scuola, dai passanti che come noi si sfiorano nelle strade della città. Consapevoli della nostra diversità, sorridiamo appena possiamo abolirla: scambiare due parole simpatiche con il giornalaio o il nostro barista, incontrare uno sconosciuto, sciogliere il peso di essere sé. Andare verso l’altro e, quando ci riesce, amare e conoscere.

È così bello sorridere, che insieme è resa e incontro con l’altro, che sembra di ritrovare la vita. Smettere la propria diversità, lasciarsi attirare in un’abitudine in cui impariamo a smussare i nostri tratti distintivi per abitare quel luogo in cui essere sé non è più così difficile.

Ma smettila! ci dice un amico con un invito scherzoso chiedendoci di non arroccarci in noi e tornare a essere insieme. A volte è possibile, si sorride di se stessi e si torna a far parte della vita con gli altri. A volte invece non riesce, l’ombra è troppo ampia, lì qualcuno si è suicidato, o c’è stata una violenza sessuale, o la guerra non è finita, tornare al tono scherzoso è troppo difficile, anzi ci irritiamo per la superficialità degli altri.

© Louise Bourgeois
(© Louise Bourgeois)

Tutto in noi allora torna diverso: in noi è precipitato male, la lingua, il corpo, la storia nella forma di nazioni che si sono combattute, migrazioni, assimilazioni, l’età, il genere, in breve, tutto il passato. Quello che è in definitiva l’inconscio freudiano, lo straniero che è in noi, il passato che Dio sa se ci piega la schiena.

In una intervista che avevo fatto a Londra circa trent’anni fa a Carlo Dionisotti per il Mattino di Napoli, gli avevo chiesto del fascismo. Parlando delle manifestazioni nella sua giovinezza e di chi erano i fascisti mi disse: i nazionalisti. Gli interventisti del 1914, i reduci ubriachi di patriottismo, di revanscismo, i nati dalla nostalgia.

Le diverse forme che prendono gli stati in Europa e l’Europa stessa, i contrasti che si articolano nelle elezioni americane, nella guerra in Ucraina o nello sterminio a Gaza, hanno tutte a che fare con la risposta di Dionisotti.

La grande passione come filologo di Dionisotti era stata il Quattro e Cinquecento italiano, ma aveva vissuto la maggior parte della vita adulta in Inghilterra ed era un appassionato lettore di Ugo Foscolo. Intorno al nostro romanticismo aveva visto formarsi un’idea di nazione moderna e la sua ideologia: il nazionalismo. All’inizio pieno di promesse, vi aderirono i migliori poeti e scrittori di almeno due generazioni. In seguito, sempre più prigioniero di una decadenza malmostosa, era finito nel fascismo.

Certo, parlavano d’Italia anche Dante e Petrarca, Machiavelli addirittura ipotizzando una certa unione politica, ma nessuno di loro aveva in mente il progetto che ci è diventato così familiare e che ci fa oggi dire che essere italiano o tedesco, argentino o senegalese debba avere un significato, anche se è difficile spiegare quale sia. Se è il passaporto, ora che il passaporto europeo è desiderabile, ci sono pressioni dai russi a Cipro ai sudamericani discendenti di europei di diverse generazioni fa che hanno più o meno diritto ad averlo. Sono certo molti più dei nati e residenti in Europa.

E perché dovrebbe avere più diritto a questo ambito documento qualcuno che è nato in Italia ma ha vissuto tutta la vita in Argentina, o magari i suoi figli o nipoti, piuttosto che un africano che sia arrivato illegalmente ma lavora in Italia? Se è l’adesione ai colori nello sport, quale più bella nazionale di quella allenata dall’argentino Velasco con Sylla, Egonu, Antropova, tra le nostre stelle?

Ma non è un’adesione sentimentale che fa la nazione, sono piuttosto cicli storici che in ognuno di noi mescolano materiali diversi. Mia nonna, come tutti quelli nati prima della prima guerra mondiale in buona parte del nord est, era nata austriaca; l’Italia aveva del resto solo cinquant’anni di più e il sogno romantico nazionalista era già in brandelli.

Negli USA i discendenti di emigrati irlandesi (dai Kennedy ad Obama a Biden) o italiani, o gli WASP (white anglo saxon protestant), che a parte qualche famiglia arrivata con il Mayflower sono in gran maggioranza emigrati in America 100 o 150 anni fa, sembrano opporsi all’immigrazione di oggi. In base a quale principio? Oggi non si entra ma 100 anni fa sì? L’aver sterminato i nativi dà un diritto?

Nelle nostre biografie registriamo tutti il continuo passaggio delle forme dello stato da confederazioni e imperi a stati nazione e viceversa, i primi ispirati da una forma di integrazione di lingue e culture, o di sottomissione a una cultura dominante, i secondi appellandosi a una purezza che prende le armi contro gli altri. In tutti e due i casi siamo vulnerabili e diversi. Per origini, abitudini sessuali, per come percepiamo il nostro aspetto fisico.

Non solo il colore della pelle ma anche l’altezza, il colore degli occhi, il tipo di corpo. Per come parliamo. A volte di più e a volte di meno, ma quando gli adolescenti si tormentano per il loro aspetto confrontandosi con idoli del cinema o del calcio, rivisitano dolorosamente una storia complicata quanto la lingua. Perché siamo diversi da idoli del calcio o della canzone? Come possiamo amare noi stessi e gli altri se questa diversità ci segna profondamente?

Qualcuno dovrebbe dirci ma smettila! ma siamo circondati da guerre, gente che oggi affoga nel mediterraneo come nel secolo scorso si vedeva invasa, perseguitata, ridicolizzata da altri che si rifugiavano in un’ideale identità nazionale per paura della propria diversità. Per questo il fascismo è sempre omofobo, anti-migrazione, tende a imprigionare le donne, a sopprimere tutto quel che è diverso.

Quando si scatenano i pogrom alcuni, se possono, scappano, altri tentano di mimetizzarsi, assimilarsi, altri ancora si uniscono ai persecutori. Apollinaire, nato a Roma Guglielmo Alberto Wladimiro Apollinaire de Kostrowitzky, diviene un interventista francese per cercare di venire accolto nel delirio nazionalista che precipita nella prima guerra mondiale. Questo è il dolore di ognuno: la molteplicità della differenza e il terrore delle ondate di conformismo che risorgendo perseguitano i diversi e quindi ognuno di noi.

La ricerca di identità nasce dalla profonda cognizione di quanto sia impossibile, così come è impossibile un amore sempre perfetto. La parola identità (da idem, medesimo) è un parossismo, perché non c’è mai o nulla di medesimo in noi, se non la prepotenza narcisista che vuole sopprimere l’altro e immagina di farlo per amore, assimilandolo a sé nel perverso desiderio di immaginare che l’amore per l’altro alla fine della fiera sia amore di sé. Un amore così non lo desideriamo affatto.

È con l’altro che si aprono le porte, che il diverso, l’estraneo, lo sconosciuto sia il fondo del nostro carattere, il non familiare. Un fondo che non è storia e non è mai passato. Quanto sia impossibile dare una forma a quello che in noi tira in ogni direzione e si rifiuta a una regola è l’esperienza di ogni vivere. Non c’è maglioncino di cashmere o impiego rispettabile che possa calmare questa inquietudine.

La paura che nasce quando iniziano a serpeggiare nella società i temibili rivendicatori di purezze nazionali, etniche, religiose, linguistiche o di comportamento, è solo il senso della realtà. Sappiamo che si sforzano di rinchiudere l’altro nel proprio specchio e che mandano il cacciatore nella foresta con Biancaneve, perché gli riporti il cuore di chi lo specchio stesso gli ha rivelato essere più bello: l’altro.

(Immagine di copertina: © Seomin Ko)

© Seomin Ko

Qual è la posizione di Harris e Walz sulle principali questioni politiche del 2024 (politico.com)

di Declan Harty

Elezioni 2024

L’ascesa del ticket Kamala Harris-Tim Walz ha riempito un anno di campagna elettorale già caotico di “mocciosi” e “strani” e ha trasformato la miseria del Partito Democratico in una cauta euforia.

Colpo alla testa del candidato

Harris – Potrebbe non attirare gli elettori indecisi / L’obiettivo principale per i repubblicani

Colpo alla testa del candidato

Walz – Può attirare gli elettori indecisi / Non è un obiettivo importante per i repubblicani

Ora, la coppia ha 11 settimane per convincere gli elettori di ciò che un’amministrazione Harris-Walz potrebbe effettivamente significare.

Ci sono aree in cui il duo è effettivamente in sintonia sulle questioni principali del Partito Democratico, incluso il diritto all’aborto: la vicepresidente ha fatto dell’aborto un pilastro della sua nascente campagna, e l’esperienza personale della famiglia Walz con la fecondazione in vitro è un’opportunità per presentare ulteriormente l’assistenza sanitaria riproduttiva come una questione che gli uomini dovrebbero valutare a novembre. Anche.

Ma dopo quattro anni di lavoro all’ombra del presidente Joe Biden, Harris si sta ancora ripresentando agli elettori al di fuori della sua nativa California, rendendo nuovamente rilevanti le sue precedenti posizioni politiche anche se, su alcune questioni, rompe con il fianco sinistro del suo partito.

Walz, il governatore del Minnesota, è destinato a fungere da complemento a Harris, in particolare perché lei e l’ex presidente Donald Trump fanno un gioco per i sindacati fedeli a Biden.

Ma le posizioni politiche in cui Harris e Walz rimangono in qualche modo ambigue aprono una strada a Trump e agli altri repubblicani per inquadrare la loro nuova competizione di fronte agli elettori prima che lo facciano i candidati.

Ecco un corso accelerato su dove si colloca il ticket Harris-Walz su molte delle questioni principali di oggi, su come le loro politiche possono giocare con gli elettori e se stanno diventando il bersaglio degli attacchi del GOP.

L’economia

Per molti elettori, la competizione tra Harris e Trump riguarda principalmente quale candidato genererà la maggiore spinta finanziaria.

Malconci da anni di prezzi alle stelle, pesanti pagamenti con carta di credito e un mercato immobiliare cupo, gli americani sono iperfissati su ciò che la corsa del 2024 significherà per l’economia e se il presidente entrante riuscirà ad alleviare parte della tensione finanziaria avvertita negli ultimi quattro anni.

Harris è riuscito a evitare gran parte del controllo economico che incombeva sulla campagna di Biden e un recente sondaggio ha mostrato che il vicepresidente sta rapidamente guadagnando la fiducia degli elettori sull’economia. Venerdì ha iniziato a presentare i suoi piani economici in un discorso incentrato sulla riduzione dei costi per gli americani comuni, chiedendo al Congresso di vietare l’aumento dei prezzi da parte delle multinazionali alimentari.

Questo messaggio fa eco a una spinta più ampia tra i democratici che vedono le questioni dell‘”economia della cura” come un modo per fare appello agli elettori di tutto lo spettro politico. È anche uno che si incastra con il record di Walz in Minnesota.

A St. Paul, Walz, il cui appeal tra gli elettori della classe operaia e nel Midwest è stato un’attrazione per la campagna di Harris, ha trascorso gli ultimi anni concentrandosi sull’affrontare le spese quotidiane. Ha promulgato una legislazione che garantisce il congedo familiare e medico retribuito e fornisce centinaia di milioni di dollari in crediti d’imposta ai genitori del Minnesota, muovendosi anche per espandere le opzioni abitative a prezzi accessibili. Harris ha già sostenuto proposte simili in precedenza.

Ma l’economia è ancora in sospeso per i democratici che si dirigono verso il loro conclave di Chicago questa settimana: mentre l’inflazione è diminuita, la disoccupazione è aumentata inaspettatamente a luglio, e la maggior parte degli americani pensa che gli Stati Uniti siano in recessione – e Trump si sta appoggiando all’idea. Durante una pausa della campagna elettorale la scorsa settimana, l’ex presidente ha affermato che una presidenza Harris manderebbe i mercati finanziari e l’economia a barcollare in “una depressione in stile 1929”.

Aborto e fecondazione in vitro

Quando Biden è uscito dalla corsa il mese scorso, Harris si è affrettata a orientare la campagna su una questione che negli ultimi anni ha costantemente radunato gli elettori dietro i democratici: l’aborto.

La vicepresidente si era già affermata come voce di spicco e forte sui diritti riproduttivi all’interno dell’amministrazione dopo che la Corte Suprema aveva ribaltato la sentenza Roe v. Wade nel 2022. Ma la decisione di Harris di assumere una posizione più moderata sull’accesso all’aborto una volta in testa alla lista ha reso il record della sua compagna di corsa sulla questione più importante per la base del partito.

Nel 2019, ha chiesto protezioni che andassero oltre la Roelimitando le restrizioni statali sull’aborto. Ma la campagna di Harris ha detto che ora sostiene la posizione di Biden di ripristinare la Roe, che ha protetto l’aborto fino al punto di vitalità fetale.

Walz ha una lunga esperienza nella protezione dei diritti riproduttivi. L’anno scorso ha firmato una legge che codifica il diritto all’aborto, un punto che la campagna di Harris ha richiamato poco dopo che la vicepresidente ha nominato Walz come suo compagno di corsa. E a marzo, Harris e Walz hanno visitato un centro sanitario di Planned Parenthood in quella che è stata la prima volta che un vicepresidente o un presidente in carica è stato in una clinica che fornisce aborti.

Il governatore del Minnesota ha un interesse personale nella protezione dei diritti riproduttivi al di là dell’aborto. Lui e sua moglie hanno usato la fecondazione in vitro per concepire i loro due figli, che Walz ha incorporato nel suo discorso durante la campagna elettorale.

I sondaggi mostrano che la maggioranza degli americani sostiene la conservazione dell’accesso alla fecondazione in vitro e all’aborto nella maggior parte dei casi.

Ma l’opposizione alla fecondazione in vitro tra i conservatori religiosi e altri attivisti anti-aborto ha creato fratture all’interno del Partito Repubblicano che Walz può continuare a martellare come anti-famiglia. La questione è diventata un fattore nella corsa per la Casa Bianca dopo che la Corte Suprema dell’Alabama ha stabilito all’inizio di quest’anno che gli embrioni congelati possono essere considerati bambini secondo la legge statale, una sentenza che ha messo alle calcagna molti repubblicani.

Lavoro

Harris non ha perso tempo a cercare di bloccare il voto sindacale prima di novembre. Il suo tono: aspettatevi più o meno lo stesso.

Il movimento sindacale ha goduto di un’agenda inequivocabilmente incentrata sui sindacati da parte dell’amministrazione Biden, e Harris sta chiarendo nelle telefonate con i capi sindacali e nelle interruzioni della campagna elettorale che intende portarla avanti se sarà eletta. Finora, la sensibilizzazione ha dato i suoi frutti con le approvazioni. Tuttavia, non è ancora chiaro se i lavoratori di base – molti dei quali sostengono Trump – seguiranno l’esempio.

La vicepresidente ha una lunga esperienza con il lavoro organizzato che risale al suo periodo come procuratore generale in California. Alla Casa Bianca, ha presieduto una task force sull’empowerment dei lavoratori, un gruppo che cerca di abbattere le barriere per l’organizzazione dei lavoratori. E il presidente della United Farm Workers, Teresa Romero, ha recentemente attribuito a Harris il merito di aver rapidamente approvato le protezioni dal calore per i lavoratori all’aperto quest’estate.

L’aggiunta di Walz, che ha coltivato un passato favorevole ai sindacati come governatore, può solo aiutare.

I sindacati sono una parte centrale della base del Partito Democratico nell’alto Midwest, che è stato fondamentale per la vittoria di Biden nel 2020. E Walz ha molto di cui vantarsi per quella folla, in particolare perché gran parte della sua agenda sindacale riecheggia quella di Biden. L’anno scorso ha firmato una legge che vieta i nuovi accordi di non concorrenza, impedendo di fatto alle aziende di limitare la capacità dei lavoratori di passare a determinati concorrenti. I sindacati hanno anche applaudito le mosse di Walz per espandere il congedo retribuito e impedire ai datori di lavoro di costringere i lavoratori ad ascoltare messaggi antisindacali durante l’orario di lavoro.

“La gente del Midwest aveva bisogno di qualcuno che assomigliasse a un operaio dell’auto o di un’acciaieria, e questo è ciò che è Tim Walz”, ha detto di recente a POLITICO Chuck Rocha, uno stratega democratico. “Qualcuno che riporti indietro quegli elettori di Joe Biden”.

L’ambiente

Dopo essersi preoccupata che Biden potesse essere troppo moderato su una serie di questioni, la sinistra ha dovuto rispettare la sua eredità ambientale una volta che ha firmato una storica legge sul cambiamento climatico due anni fa. Tuttavia, questo record – e il sostegno ora invertito di Harris per un divieto del fracking – ha anche alienato alcuni degli elettori negli stati della Rust Belt come la Pennsylvania, un’apertura che Trump e altri repubblicani hanno cercato di sfruttare.

Questo ha reso Walz il pragmatico più convincente del ticket democratico.

Alcuni democratici avevano spinto in modo aggressivo affinché il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro corresse con Harris, citando come il suo sostegno all’industria dei combustibili fossili del suo stato d’origine avrebbe alleviato le preoccupazioni tra i sindacati. Ma Walz, che ha rappresentato un distretto storicamente conservatore al Congresso, ha un record molto più contrastante sulla politica ambientale di quanto indicherebbero i titoli dei giornali del suo governatorato progressista.

Al Congresso, ad esempio, Walz è stato raramente visto come un campione dell’ambiente dai suoi colleghi e ha votato per completare la costruzione dell’oleodotto Keystone XL. Come governatore, Walz ha irritato alcuni ambientalisti che sostengono che la sua amministrazione dovrebbe muoversi per fermare lo sviluppo minerario nel suo stato.

Harris sta anche affrontando domande da sinistra su come potrebbe differenziarsi da Biden, compresa la sua agenda climatica. Un’area che è emersa è la lunga e rumorosa difesa di Harris per le comunità nere, ispaniche e povere che sono state esposte a livelli di inquinamento smisurati.

Come procuratore distrettuale di San Francisco a metà degli anni 2000, Harris ha istituito un’unità di giustizia ambientale e ha sponsorizzato la legislazione sulla questione mentre prestava servizio al Senato. In qualità di vicepresidente, ha anche contribuito a garantire 15 miliardi di dollari per la sostituzione dei tubi dell’acqua potabile in piombo come parte della legge bipartisan sulle infrastrutture di Biden, ha riferito POLITICO.

E nonostante le sue posizioni sull’estrazione mineraria, una questione che è diventata più importante man mano che le nazioni si affannano per ottenere i minerali critici necessari per la tecnologia verde, i gruppi ambientalisti hanno ampiamente lodato la scelta di Harris come compagno di corsa. Il governatore del Minnesota è stato un forte sostenitore di standard di inquinamento automobilistico simili a quelli della California e di un requisito per l’energia a zero emissioni di carbonio entro il 2040.

Trump e i suoi alleati hanno, a loro volta, tentato di inquadrare Walz come una scelta di sinistra che sosterrà le politiche che alla fine costringeranno i posti di lavoro fuori dagli Stati Uniti.

Imposte

Mentre Harris ha precedentemente sostenuto politiche fiscali progressive come ha fatto la sua compagna di corsa, la vicepresidente ha già chiarito che non ha intenzione di aumentare le tasse per la maggior parte degli americani.

Pochi giorni dopo essere diventata la candidata presunta, la campagna di Biden ha rapidamente annunciato che Harris – come Biden – non avrebbe aumentato le tasse a chiunque guadagnasse meno di $ 400.000 all’anno se eletto.

La strategia è una mossa per rafforzare il sostegno di molti degli stessi elettori dei colletti blu che sono stati fondamentali per la vittoria di Biden nel 2020 – e cruciale a causa delle persistenti ansie che gli elettori hanno per l’economia.

In alcuni casi, Harris chiede persino tagli alle tasse. Il vicepresidente, in particolare, ha sostenuto un piano lanciato per la prima volta da Trump per porre fine alle tasse federali sulle mance, nonostante lo scetticismo diffuso tra gli economisti e i costi sbalorditivi per l’attuazione dell’idea. Harris ha sostenuto il piano mentre parlava a Las Vegas, dove un tale divieto potrebbe giocare bene in particolare con gli elettori latini.

Ma i precedenti di Harris e Walz suggeriscono che, se eletti, la loro amministrazione potrebbe guardare alla politica fiscale come mezzo per finanziare alcuni dei loro più grandi piani – un’apertura per i repubblicani a far saltare la coppia come classici liberali tassa-e-spendi.

Sotto Walz, il Minnesota adottò quelle che sono ampiamente considerate alcune delle politiche fiscali più progressive del paese. Il credito d’imposta per i figli del Minnesota, ad esempio, è stato finanziato da centinaia di miliardi di dollari che sono stati raccolti attraverso una nuova tassa sulle multinazionali come 3M, che ha sede a St. Paul. Il suo più ampio pacchetto fiscale da 3 miliardi di dollari ha anche ampliato i crediti per le spese per l’istruzione K-12 e ha tagliato le tasse per i beneficiari della previdenza sociale.

Agricoltura

La California può essere il più grande stato produttore agricolo della nazione, ma Harris non ha mai fatto dei terreni agricoli un punto di riferimento della sua carriera politica.

Walz, d’altra parte, ha fatto esattamente questo.

Nel corso di sei mandati al Congresso, il nativo del Nebraska ha fatto parte della Commissione Agricoltura della Camera e ha contribuito a redigere il sempre critico disegno di legge sull’agricoltura nel 2008, 2014 e 2018. E come governatore del Minnesota – il sesto più grande stato produttore di agricoltura – Walz ha dato il via libera alla legislazione per espandere l’accesso alla banda larga rurale e legalizzare la cannabis per uso adulto, una mossa che ha detto essere fondamentale per migliorare l’economia dello stato.

La politica agricola non è in cima alla lista delle priorità di molti elettori in vista delle urne, ma i suoi effetti a catena sui prezzi dei prodotti alimentari, sull’energia e sull’economia lo sono. I democratici sperano che l’attenzione di Walz per il Midwest rurale – insieme al suo comportamento popolare, al curriculum e alle capacità mediatiche – lo renderà ancora più caro tra gli elettori delle comunità che si sono sentite lasciate indietro dal Partito Democratico negli ultimi anni e che si sono schierate in modo schiacciante per Trump. La senatrice Tina Smith (D-Minn.) ha recentemente affermato che la “capacità di Walz di essere reale” è un punto di forza chiave per il ticket.

“Ha intenzione di convertire i repubblicani più accaniti? Probabilmente no”, ha detto in una recente intervista a POLITICO Mark Liebow, un funzionario locale del Partito Democratico-Contadino-Laburista che ha incontrato Walz per la prima volta nel 2006. “Motiverà i democratici e le persone che prima erano ai margini, nella categoria ‘meh’? Sì”.

Israele e Cina

Harris gode di un sostegno maggiore rispetto a Biden tra i giovani elettori che la vedono come una migliore messaggera nella guerra di Israele contro Hamas, ma continua a subire pressioni dal fianco sinistro del suo partito per il continuo sostegno degli Stati Uniti a Israele.

Walz potrebbe aiutare a rassicurare quegli elettori che la sua amministrazione adotterà un approccio più empatico al conflitto rispetto a Biden.

Alcuni critici del sostegno degli Stati Uniti a Israele hanno detto di sentirsi fiduciosi sulla scelta di Walz. Mentre Walz ha condannato gli attacchi di Hamas contro Israele il 7 ottobre, ha anche invitato i democratici a impegnarsi con le preoccupazioni degli elettori “non impegnati”.

“Walz è un bersaglio mobile. Penso che possiamo ottenere qualche vittoria in più da lui”, ha detto in una recente intervista Asma Mohammed, un’organizzatrice filo-palestinese.

Harris non ha nemmeno la buona fede militare che può alleviare i dubbi persistenti sulle capacità di sicurezza nazionale di un candidato. Ma Walz, un veterano che si è costruito una reputazione a Capitol Hill come sostenitore di migliori benefici per i membri del servizio, potrebbe aiutare a bilanciare questo e consentire alla campagna di Harris di fare breccia tra le famiglie dei militari.

I repubblicani hanno scavato nella storia militare di Walz cercando di neutralizzare quell’effetto. Molti di loro stanno criticando la tempistica del suo ritiro dalla Guardia Nazionale dell’Esercito, prima del dispiegamento della sua unità in Iraq, e sottolineando le inesattezze del passato nel modo in cui Walz e la campagna di Harris hanno descritto il servizio militare di Walz.

I legami personali di Walz con la Cina e le dichiarazioni passate sulle relazioni tra Stati Uniti e Cina hanno già generato attacchi repubblicani secondo cui il democratico del Minnesota è troppo conciliante nei confronti di Pechino, un bersaglio preferito di Trump. Alcuni repubblicani hanno anche insinuato che Walz, che ha insegnato inglese in Cina poco dopo la laurea e ha organizzato viaggi per gruppi di studenti nel paese con sua moglie, promuoverà gli interessi cinesi se eletto vicepresidente.

Eric Bazail-Eimil ha contribuito a questo rapporto.

La minaccia del ritorno del fascismo in Europa e negli Usa: l’analisi del Der Spiegel che cita anche Meloni

di Dario Conti

Il settimanale tedesco Der Spiegel analizza il 
rischio di un ritorno del fascismo citando 
Le Pen e Trump, ma anche Giorgia Meloni.

C’è anche Giorgia Meloni.

Il suo è uno dei nomi citati dal settimanale tedesco Der Spiegel in un viaggio attraverso l’Europa e gli Stati Uniti per lanciare l’allarme su quello che viene ritenuto il rischio di un ritorno al passato più oscuro del nostro continente, un ritorno al fascismo.

Da Donald Trump a Marine Le Pen, passando per i tedeschi di Alternative fuer Deutschland, la copertina del giornale tedesco parla di uno spettro che aleggia sull’Europa e che può diventare sempre più concreto in futuro. Perché non ci sono solo i partiti di estrema destra che già governano in diversi Paesi, Italia compresa, ma anche quelli che potrebbero raggiungere il potere con le prossime elezioni, a partire dagli Stati Uniti con Trump.

“Come inizia il fascismo. Gli Hitler nascosti”, è il titolo dello Spiegel in cui viene citata anche la presidente del Consiglio italiana. La copertina del settimanale è dedicata ai volti di Bjoern Hoecke (di Alternative fuer Deutschland), Marine Le Pen (leader del Rassemblement National francese) e Donald Trump (in corsa per le presidenziali Usa).

La minaccia del ritorno del fascismo: l’allarme dello Spiegel

La prima preoccupazione i tedeschi la vedono in casa: a settembre ci sarà il voto delle elezioni amministrative nei Laender dell’est. I sondaggi dicono che un’affermazione dell’Afd è probabile e proprio da questo timore nasce l’analisi sulla minaccia del ritorno del fascismo.

“Il ritorno del fascismo è la paura atavica della società democratica moderna. Ma ciò che a lungo suonava come un qualcosa di isterico e inimmaginabile, sembra diventato nel frattempo serio e reale”, è il concetto di base da cui parte il racconto del settimanale tedesco. Un rischio “serio e reale”, quindi, tanto più se si pensa che in alcuni Paesi è già molto concreto.

I casi citati dallo Spiegel sono diversi. E tra questi c’è anche quello italiano, con Giorgia Meloni nominata – e immortalata nelle foto – insieme al presidente russo Vladimir Putin e al premier ungherese Viktor Orban. Situazioni ritenute, quindi, almeno in parte simili. I giornalisti tedeschi fanno quindi una lunga lista di esempi, prima di arrivare ad analizzare la situazione statunitense, quella che può avere – con le elezioni di novembre – maggior peso a livello globale.

Una lunga lista

Der Spiegel fa quindi riferimento alle “ambizioni imperialiste” di Putin, al “governo nazionalista” di Nerendra Modi, ma anche alla “vittoria di Meloni in Italia”. Non è finita qui, nell’elenco rientra anche la “strategia di normalizzazione di Marine Le Pen in Francia”, così come “la vittoria di Javier Milei in Argentina” e la “dominanza autocratica di Viktor Orban in Ungheria”.

La minaccia è ben più larga di quel che si possa pensare, tanto che la lista continua: “Il comeback di FPOE in Austria o di Geert Wilders in Olanda. Afd nell’est della Germania. Il dominio autocratico di Nayb Bukele a El Salvador, passato per lo più sotto traccia ma incredibilmente determinato, dove il parlamento è stato costretto con la violenza delle armi alle decisioni”. E, per chiudere in bellezza, viene citato il “rischio di una rielezione di Donald Trump” negli Stati Uniti.

Al di là delle singole situazioni, secondo il settimanale tedesco ormai il ritorno del fascismo è diventato un tema discusso, “in politica, nei media, fra cittadine e cittadini, nei think tank, fra politologi e filosofi”. E discusso “seriamente”. “La storia si ripete? C’è un nuovo fascismo? Aiutano le analogie storiche? Cosa è andato storto? E potrebbe accadere che la democrazia aiuti la ricostruzione di un mostro che costituisce il suo più grande terrore?”, si chiede il Der Spiegel nella sua analisi.

Una discussione non del tutto nuova, che in Italia va avanti sin dalla campagna elettorale del 2022 che ha poi visto la vittoria di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia, ma che oggi arriva anche al di fuori dei nostri confini, in Germania e in Europa.