La donna di Babele (corriere.it)

di Massimo Gramellini

Il caffè

In estrema e brutale sintesi, la boxeur algerina Imane Khelif è una donna per i globalisti del Cio e un uomo per i sovranisti dell’Iba, il governo mondiale del pugilato presieduto da un oligarca di Putin e finanziato dai rubli di Gazprom.

I massimi esperti in materia, come la scienziata Silvia Camporesi intervistata dal Corriere , danno ragione al Cio e spiegano che Khelif è una donna che produce alti livelli di testosterone, non un transgender. È appena il caso di aggiungere che difficilmente un transgender avrebbe potuto diventare eroe nazionale in Algeria, dove persino l’omosessualità è perseguita come reato.

Il tema resta complicatissimo, ma il vero punto sconvolgente di questa storia, come di tante altre del nostro tempo, è che non esistono più regole condivise né autorità riconosciute. Forse anche mio nonno avrebbe pensato che Imane Khelif non fosse una donna, ma mai avrebbe osato mettere in dubbio la competenza e la buona fede di chi, da un pulpito istituzionale, gli avesse garantito che lo era.

Ogni comunità si regge(va) su un tacito patto di fiducia.

Se invece oggi chiunque si sente autorizzato a discutere di testosterone con gli scienziati di mezzo mondo e a vedere complotti ovunque, contestando le regole e trasformando in un mostro chi — come Imane Khelif — si limita a rispettarle, significa che stiamo scalando a grandi passi i gradini di una nuova torre di Babele.

Dove, a furia di gridare tutti, alla fine non ascolteremo più nessuno.

Contro il caporalato nessuno ha fatto niente (rivistastudio.com)

di Domiziana Montello

Intervista a Diletta Bellotti, autrice di Pomodori 
rosso sangue, 

libro nel quale racconta la sua esperienza nelle campagne di Borgo Mezzanone assieme a chi resiste allo sfruttamento.

Il 19 giugno 2024 Satnam Singh, bracciante di origine indiane che lavorava nelle campagne di Latina, è morto all’ospedale San Camillo di Roma. Due giorni prima un macchinario agricolo gli aveva tranciato un braccio e il suo datore di lavoro – o meglio: padrone – l’aveva abbandonato davanti a casa con il braccio staccato appoggiato dentro una cassetta della frutta.

Singh è morto di emorragia, avrebbe potuto salvarsi. Negli stessi giorni usciva nelle librerie Pomodori Rosso Sangue, un libro di Diletta Bellotti.

Pomodori Rosso Sangue è sia il titolo del libro che il nome della della campagna collettiva che Bellotti, insieme a Isabella Sofia Picchi, ha fondato per sensibilizzare, e puntare un faro sull’invisibilizzazione di chi viene sfruttato nei campi per raccogliere il cibo che sostiene la filiera dell’agroalimentare e arricchisce le nostre tavole.

«Con obiettivo di suscitare disgusto nei consumatori, cercando quindi di trasformare un ribrezzo individuale in una mobilitazione collettiva», scrive Bellotti. Edito da Nottetempo, Pomodori Rosso Sangue riporta il diario e la testimonianza dell’estate 2019, che l’autrice ha trascorso a Borgo Mezzanone, in Puglia, un insediamento spontaneo in gergo, baraccopoli di lamiere in parole povere.

Bellotti ha voluto comprendere le dinamiche del caporalato dalla stessa prospettiva di chi ci è dentro e ha fatto quello che in pochissimi hanno avuto il coraggio di fare: ha vissuto insieme agli invisibilizzati, ai migranti irregolari, ai lavoratori sfruttati e alle survivor di sfruttamento sessuale. Diletta Bellotti ha raccontato la vita all’interno del campo, le dinamiche che si creano tra gli abitanti e i caporali, le condizioni delle donne.

Tutte le persone che ha incontrato e con cui ha vissuto sono riportate per privacy con nomi di vegetali. Molte non ci sono più, o sono partite. È dall’esperienza di Borgo Mezzanone che è nata l’esigenza di organizzare anche azioni di protesta.

Ma nel libro leggiamo un’analisi del sistema del caporalato in Italia partendo dalle ricerche pregresse di altri studiosi; una parte più storiografica che riporta le lotte contro il caporalato che sono state fatte in Europa e in Italia negli ultimi decenni, come il movimento nato a Nardò e guidato dal camerunese Yvan Sagnet che nel 2011 portò alla prima legge contro il caporalato, la 138/2011.

ⓢ Ti ricordi quando è avvenuto il tuo primo approccio al caporalato? Come l’hai vissuto?

Sono cresciuta a Roma, ma metà della mia famiglia è di Bari. Un’amica pugliese, sapendo che mi interessavo di movimenti politici e di lavori legati alla terra mi regalò il libro Ama il tuo sogno. Vita e rivolta nella terra dell’oro rosso di Yvan Sagnet. Quel libro è stato epifanico: dopo averlo letto ho preso coscienza di tutte quelle persone che vedevo tornando a casa in Puglia ai bordi delle strade, in bicicletta o in mezzo ai campi e che prima vedevo solo con la coda dell’occhio. Quando ho iniziato la magistrale in Diritti umani e Migrazione internazionale a Bruxelles ho capito che il caporalato è un punto d’intersezione tra tante lotte contemporanee: la questione ecologista, le migrazioni, la lotta transfemminista e l’antispecismo sono tutti collegati. Insieme ad alcuni amici abbiamo fondato il collettivo Fango – Collettivo di scrittura per la lotta intersezionale per parlare di quanto il lavoro sfruttato sia lontano dal nostro sguardo e di quanta affinità ci sia tra i macelli e il caporalato nei campi.

ⓢ In Pomodori rosso sangue dici che i lavoratori agricoli non sono “invisibili” ma “invisibilizzati”. Che le lotte sociali hanno bisogno di un lessico specifico. Per individuare un problema e risolverlo è necessario chiamarlo con il suo nome. Infatti, nel caporalato, si parla di padroni, non di datori di lavoro.

Mi sono interessata molto alla questione del linguaggio. È essenziale usare le parole giuste e fare in modo quelle parole vengano ascoltate e riconosciute. Usare la giusta terminologia innesca un movimento verso l’altro, verso il linguaggio dell’altro. Mi sono resa conto che caporalato non vuol dire niente in Italia, non è una parola di dominio pubblico. Se una persona legge sul giornale “morto di caporalato”, non capisce la complessità del sistema dietro a questa parola. Abbiamo reso la campagna Pomodori rosso sangue volutamente retorica usando la bandiera italiana e i pomodori sporchi di sangue: è stato un modo creare per linguaggio politico condiviso e comprensibile, per far sì che le persone empatizzassero e si mobilitassero per creare una comunità affinché chi è sfruttato e razzializzato avesse un luogo sicuro in cui esprimersi ed essere capito.

ⓢ Prima di andare a vivere nell’insediamento informale di Borgo Mezzanone – in provincia di Foggia – avevi paura? In quanto percepita come donna avresti potuto correre più rischi.

Prima di partire un amico mi disse che per me in quanto corpo femminilizzato era più rischioso, me ne resi conto ma non lo ascoltai. Anche i ragazzi di Will sono andati a Borgo Mezzanone per il documentario One Day One Day, e hanno potuto documentare molto più di me. Ovviamente la mia esperienza lì è stata modellata dal mio essere percepita come donna perché avevo principalmente a che fare con uomini cis che non mi toccavano, non mi davano la mano, spesso non mi guardavano in faccia. Il mio corpo è stato estremamente ingombrante in quell’esperienza. Ci sono andata consapevole che avrei potuto morirci, ma avevo bisogno di farlo, non potevo accettare di vivere in un mondo così violento senza fare nulla. Per cambiare le cose devi stare in mezzo alle persone.

ⓢ Il tuo libro è uscito solo a pochi giorni dall’omicidio di Satnam Singh: un evento che ha avuto un forte riscontro mediatico, e a cui sono seguite nuove denunce di sfruttamento: i maltrattamenti nelle Langhe, gli arresti di Velletri. Pensi che la morte di Singh abbia fatto la differenza o tra un po’ si tornerà al silenzio di prima?

Purtroppo no. È sempre lo stesso discorso, c’è un problema di attenzione mediatica. Ora in estate è il momento in cui in agricoltura si muore di più e quindi se ne parlerà ancora un po’. La notizia di Satnam Singh si è diffusa molto è vero e ci sono state manifestazioni. Manifestazioni che trovo ridicolo siano state organizzate dai sindacati e dai partiti visto che sono parte del problema. Ora l’attenzione riguardo a questi temi è alta, ma queste violenze accadono da sempre. Non credo nemmeno al “basta che se ne parli”, perché basti vedere quello che è successo con Aboubakar Soumahoro. Era l’unica persona a parlare di questi temi e quindi è stato mandato avanti. Il suo problema è che non ha mai passato il microfono, non ha dato abbastanza voce ai movimenti, e torniamo al problema dell’eroismo di prima.

ⓢ Cosa dovrebbero fare le istituzioni che non stanno facendo?

Il problema del caporalato che è inserito in un contesto di economia di mercato globale che si basa sullo sfruttamento della mano d’opera usa e getta e sul lavoro di persone che sono ridotte in schiavitù. Esisteva il caporalato anche pre-industriale ma aveva una scala diversa perché era inserito nel contesto di un’Italia agricola. Il caporalato di adesso riguarda un’Italia iper globalizzata, con i supermercati e la Gdo che controllano i prezzi di mercato. Il lavoratore agricolo è l’ultimo pezzo del puzzle ed è la persona più impattata. Le istituzioni dovrebbero eliminare le leggi migratorie, abolire Frontex e attuare una gestione dei confini diversa, perché tanto la gente in Europa ci viene comunque. Inoltre bisognerebbe eliminare la dipendenza tra il permesso di soggiorno, il lavoro e l’affitto perché si creano sistemi di ricatto e dove c’è un vuoto istituzionale arrivano le mafie. Bisognerebbe risolvere la questione dei centri per l’impiego e cambiare la gestione del subappalto che è sempre caporalato legalizzato, vedi la questione dei rider. Le istituzioni dovrebbero anche lavorare sul razzismo sistemico di questo paese che pensa che le persone si debbano guadagnare l’esistenza. E poi indubbiamente dovremmo tutti smettere di consumare così tanto.

ⓢ A proposito dei Cpr voluti dal governo Meloni in Albania, come pensi che influenzeranno gli equilibri?

Tocchi un tasto dolente perché i Cpr sono la cosa che mi distrugge il cuore. Non capisco come sia possibile che esistano. I Cpr in Albania mettono in atto lo stesso sistema di delocalizzazione dei luoghi di sfruttamento e di oppressione. Allontanarli dai nostri occhi non li fa smettere di esistere. Inoltre se fai una protesta in Albania facilmente finisci come Ilaria Salis.

ⓢ Tutto è politico: cosa mangiamo, cosa vestiamo anche l’aria che respiriamo. Come riuscire a trasmetterlo?

Ogni persona ha un livello di accettazione diverso. Marco Reggio per esempio, nel suo libro Cospirazione animale inizia con l’antispecismo e alla fine parla di clima. Abbiamo tutti sensibilità diverse, c’è chi arriva prima alla questione dei diritti umani e poi a quella climatica. Simon Weil ne parla molto in La prima radice. Quello che credo sia importante è riuscire a sistematizzare questo sentimento di ingiustizia. Servono dei luoghi di mobilitazione e di dialogo che facciano cultura dal basso che aiutino le persone a capire quello che sentono e a onorare i sentimenti e le convinzioni degli altri, che è anche la base del intersezionalità. Non tradire se stessi, tenere a mente la realtà delle altre persone e rendere giustizia a tutti. È questa la cosa più difficile.

“Difficile assumere degli italiani”, odio social contro la ristoratrice. Anche Salvini la accusa di razzismo (ilrestodelcarlino.it)ilrestodelcarlino.it)ilrestodelcarlino.it)

di GIULIA BENEVENTI

Carlotta Bertolini, dopo l’articolo uscito sul 
Carlino, sta ricevendo offese e minacce continue. 

Piccato anche il vicepremier, ma la titolare non ci sta: “Cattiveria delle persone inaudita, certi lavori gli italiani non me li vengono più a chiedere”

Reggio Emilia, 2 agosto 2024 – “Salve, volevo prenotare un tavolo per stasera, ma per caso serve la tessera del Partito Comunista? Fai schifo”.

Quando mercoledì Carlotta Bertolini ha alzato il telefono della sua attività, la birreria Keller di Modena, si è sentita dire anche: “Vergognatevi, comunisti, il vostro locale deve bruciare”.

Il motivo di tanto clamore è un’intervista rilasciata al Carlino dalla 47enne, originaria di Albinea: “Voglio usare il mio locale per fare integrazione” ha detto, raccontando delle sue difficoltà nel reperire personale, soprattutto di origine italiana.

“Per la mia esperienza – ha aggiunto – le persone immigrate in Italia… leggi tutto

L’opposizione scommette sul referendum sull’autonomia differenziata, ma rischia grosso (linkiesta.it)

di

La madre di tutte le battaglie

Il quesito sarà indirettamente un voto sull’andamento del governo.

Renzi e Schlein sono fiduciosi di poter mettere Meloni in difficoltà, ma devono fare i conti con almeno tre grosse incognite

Quasi trecentomila firme. Un botto, indubbiamente. Grazie anche e soprattutto alla possibilità di sottoscrivere il referendum sulla legge Calderoli per via telematica. E il centrosinistra si esalta. Forse troppo.

Così che la “madre di tutte le battaglie”, come la chiamava Giorgia Meloni, non è più il premierato – una legge costituzionale che fluttuerà a lungo tra le aule parlamentari – ma il referendum abrogativo sull’autonomia differenziata, cavallo di battaglia della Lega.

Matteo Renzi lo dice apertis verbis da settimane e lo ha ripetuto ieri: «Se c’è il quorum il governo rischia». Il Partito democratico, pur convinto che si tratti di una battaglia fondamentale, forse non si era reso conto che l’inerzia porterà la macchina referendaria a un bivio decisivo, o forse contro un muro, perché sarà inevitabilmente un referendum sul governo.

Il leader di Italia Viva sembra voler prendere le redini della carrozza referendaria – puntualmente, al contrario, Carlo Calenda non vi è mai salito – dicendo a voce alta quello che i dem più prudenti non desiderano sentire, e cioè appunto che nella primavera del 2025 gli elettori andranno (o non andranno) alle urne di fatto per dire sì o no a Meloni. È un rischio altissimo. Giocare la vita del governo e della legislatura ai dadi di una consultazione referendaria potrebbe diventare il più clamoroso autogol politico mai visto (alla pari con quello di Renzi – sempre lui – del 2016).

È chiaro che a sinistra in questa fase c’è una rinnovata fiducia in sé stessa. L’ottimismo è alto. Si confida nel fatto che Sud e Centro bocceranno la legge Calderoli e si scommette che questo inverno Meloni e Giancarlo Giorgetti dovranno inventarsi una manovra economica senza avere i soldi con in più alle spalle un triplete negativo nelle Regioni in cui si voterà: sicché Renzi e Elly Schlein prevedono che al referendum il governo arriverà in affanno.

Ma ci sono tre incognite una più pesante dell’altra. La prima è che il quesito non venga ammesso dalla Corte Costituzionale. Secondo alcuni costituzionalisti la legge Calderoli è una “legge cornice” (tra l’altro così voluta dal Partito democratico) indispensabile per applicare la Costituzione e dunque è una legge «a contenuto costituzionalmente obbligatorio» e come tale non sottoponibile a referendum.

Secondo ostacolo “tombale” sarebbe lo scioglimento delle Camere chiesto da una premier in difficoltà e alla ricerca di un nuovo consenso (con elezioni anticipate non si celebra il referendum).

Terzo elemento più concreto, il non raggiungimento del quorum del cinquanta per cento dei votanti per rendere valida la consultazione. Su quest’ultimo punto Calenda ha osservato che portare al voto venticinque milioni di italiani appare impresa improba. Con l’incognita di un Nord presumibilmente favorevole all’autonomia differenziata che si prospetterebbe ancora una volta come una terra ostile alla sinistra.

È evidentemente troppo presto per ipotizzare come andrà a finire. Quello che è significativo è che le opposizioni, tranne Azione, stanno più o meno consapevolmente fissando l’auspicata deadline del governo forse sottovalutando il consenso di cui la premier, pur avendo smarrito lo smalto dei primi tempi, tuttora gode.

E soprattutto le domande sono le seguenti: chi può dirsi certo che una riforma così complessa e lontana dall’evocare questioni fondamentali di coscienza e democrazia possa spingere metà del Paese alle urne? E Renzi e Schlein hanno messo in conto le conseguenze di una sconfitta, cioè l’assicurazione sulla vita di Giorgia Meloni? Cosa dà al centrosinistra la certezza di vincere questa nuova “madre di tutte le battaglie”?

Interrogativi che ci si doveva porre prima, adesso è tardi: la macchina è lanciata su una pista scivolosa.

Olimpiadi 2024, ecco perché la scena delle drag queen non era l’Ultima Cena (open.online)

di Antonio Di Noto

FACT-CHECKING

Per giorni si è discusso della presunta blasfemia di una scena della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Parigi da molti considerata una parodia offensiva dell’Ultima Cena di Gesù e gli apostoli

Analisi

Vediamo lo screenshot di uno dei post oggetto di verifica (qui un altro esempio). Nella descrizione si legge:

I diritti esistono solo nel rispetto di quelli degli altri, altrimenti sono altra cosa. Ce n’era davvero bisogno di questa parodia all’inaugurazione dei giochi francesi? L’ultima cena: di lì a poco un uomo sarebbe stato crocifisso abbandonato da tutti per abbracciare tutti, soprattutto gli ultimi ed i discriminati. A proposito, ma i cattolici nel PD non dicono nulla per dar torto alla destra o perché si sentono terribilmente “woke”?

La sfilata nel tavolo

La prima volta in cui la presunta Ultima Cena appare nella diretta andata in onda sulla Rai e disponibile su Rai Play è dopo 1h 52′ 26” dall’inizio, quando mancano 2h 09′ 36” al termine della trasmissione. L’inquadratura mostra un lungo tavolo. Su uno dei due lati siedono o stanno in piedi diverse persone.

Al centro, una donna che sul capo porta una sorta di corona da cui dipartono sette raggi. Di fronte a lei, una console da dj. Le altre persone, in buona parte drag queen, ma anche uomini in abiti maschili e almeno un bambino, si muovono in maniera suadente.

Il tavolo, si scopre poco dopo, è in realtà la passerella su cui si è tenuta la sfilata in cui sono stati messi in mostra abiti realizzati da giovani designer francesi.

I presenti sono più di 13

Per quanto si voglia sostenere una somiglianza con l’Ultima Cena di Leonardo Da Vinci, a uno scrutatore appena più attento salterà all’occhio che il numero di persone in questa scena della cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Parigi è ben maggiore delle 13 che sedevano al tavolo in cui nella Bibbia Giuda rivela il tradimento a Gesù. Quelle alla passerella nella capitale francese sono almeno 16.

Il riferimento a Dioniso

Il gruppo viene inquadrato nuovamente a 2h 37′ dall’inizio, quando al termine del video mancano 1h 25′ 44”. In questo caso diventa evidente che la rappresentazione non è dell’ultima cena bensì sostanzialmente quello che nel mondo della Roma antica era noto come Baccanale, ma che risale alla tradizione dell’antica Grecia e al culto di Dioniso, dio greco dio dell’estasi, del vino, dell’ebbrezza e della liberazione dei sensi che – appunto – nella mitologia romana era noto come Bacco.

Questo, in effetti è il riferimento immediatamente evidente alla vista di un uomo disteso tra fiori e frutti con dei grappoli d’uva in testa.

E proprio quest’ultima è la definizione data da Thomas Jolly, attore e direttore artistico francese ideatore della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Parigi, alla scena che tanto scandalo ha generato. «Una festa pagana legata agli dèi dell’Olimpo».

Feste simili sono tipiche della mitologia pagana greca e romana, tanto da essere rappresentate in numerosi quadri, come ad esempio Le Festin des Dieux (in italiano: Il Banchetto degli Dèi) diel pittore olandese del XVI secolo Jan Harmensz van Bijlert, mostrato di seguito ed esposto al Museo Magnin di Digione.

E proprio il Banchetto degli Dèi è il riferimento citato da Daphné Bürki, direttrice dello styling e dei costumi della cerimonia dei Giochi Olimpici di Parigi 2024.

Conclusioni

Per quanto a colpo d’occhio quella mostrata durante la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Parigi possa sembrare una parodia dell’Ultima Cena di Leonardo Da Vinci, scrutando più attentamente e dando retta alle parole dell’ideatore della scena, ci si rende conto che in realtà non lo è.

La dignità di Toti e la “strategia” della sinistra: analisi di un’inchiesta (ildubbio.news)

di Tiziana Maiolo

Politica

Se tutta quanta la storia, cominciata quattro anni fa a La Spezia con un’inchiesta per mafia, sorprendente, paradossale e furba, terminasse con l’assoluzione di Toti e la vittoria della sinistra in Liguria, avremmo assistito all’ennesimo ribaltone politico per via giudiziaria

Quando il gioco si fa duro… ecco Giovanni Toti di nuovo uomo libero, che rivendica il primato della politica, perché ai magistrati il compito di interpretare le leggi, ma ai politici quello di scriverle. E chissà se, prima o poi, non ci sarà proprio lui in Parlamento, magari come membro della commissione Giustizia, a scrivere le norme di settore.

Nessun piagnisteo, nel riprendere il filo del discorso. Un po’ come fece, senza voler forzare il paragone tra i due, Enzo Tortora quando tornò in Rai e al suo pappagallo nel dire «Dove eravamo rimasti?». Per la gip Paola Faggioni, che lo ha scarcerato questa mattina (la Guardia di finanza si è presentata a bussare alla porta alle 12,30), nei confronti dell’ex presidente della regione Liguria, permane «…l’estrema gravità delle condotte criminose».

Proprio i comportamenti che lo stesso Toti, sia nell’interrogatorio davanti ai pm che nella sua lunga memoria diffusa alla stampa, aveva sempre qualificato come azioni politiche di buona amministrazione.

Se lo scarcerano c’è un solo motivo, è il fatto che il presidente non è più tale, ha lasciato il campo. La gip lo dice esplicitamente. Lo liberiamo «nonostante l’estrema gravità delle condotte criminose…tenuto conto del comportamento serbato dall’indagato che ha rassegnato le proprie dimissioni da Presidente della giunta della Regione Liguria».

Il baratto si è consumato, tu dai qualcosa a me, sgomberi il campo, e io ricambio togliendoti le manette. Ma Toti non rinuncia certo a mettere i puntini sulle i: «Quello che è accaduto in questi tre mesi – denuncia su Facebook – è un processo alla politica: ai finanziamenti, trasparenti e legali, agli atti, anch’essi legali e legittimi, che abbiamo ritenuto necessari e utili a far crescere la nostra terra».

Del resto nessuno lo ha potuto accusare di essersi messo qualche euro nelle tasche, ma piuttosto di aver scambiato comportamenti politici e attività amministrative con favori e finanziamenti elettorali. Il principale coimputato nell’inchiesta è Aldo Spinelli, il patron di Spininvest, la holding che da due giorni è presieduta da David Ermini, uomo della sinistra, avvocato, ex parlamentare del Pd e già vicepresidente del Csm.

Una scelta che potrebbe cambiare la storia del porto di Genova, mentre già si sussurra che si sia già nell’anticamera di quel che potrebbe succedere se le elezioni anticipate in Liguria portassero a una vittoria del Pd e dei suoi alleati. E bravo Spinelli, uomo di sinistra, imprenditore scaltro che supplicava Toti di intercedere per il rinnovo, che lui voleva trentennale, del terminal Rinfuse.

Ora i giochi sono cambiati e serviva un uomo magari anche gradito alle toghe, e quanto gradito, visto che Ermini era il capo del Csm che nominò l’attuale procuratore di Genova, Nicola Piacente. Se poi la sinistra dovesse vincere le elezioni il prossimo 27 e 28 ottobre, ecco ottenuta la quadratura del cerchio. E non ci sarà neppure più bisogno di farsi appoggiare dalle toghe, ormai i giochi saranno completati.

Il giudizio di Toti sui suoi oppositori politici è netto: cappa grigia dell’ipocrisia, della cultura del sospetto, della doppia morale. Vogliamo lasciarla a costoro, esorta gli alleati, la nostra amata Liguria? Certo, quanto a ipocrisia e doppia morale, non ha torto. Lo dimostra la “soluzione” trovata all’interno del Pd al pasticciaccio della nomina di Ermini al vertice di Spininvest.

Tra l’imbarazzo di Andrea Orlando, che si sarebbe trovato con un dirigente del suo partito al vertice di una società inquisita per fatti di corruzione e voto di scambio, il furore dei vertici genovesi e liguri del Pd, e l’immediata presa di distanza del Movimento Cinque Stelle, ecco arrivare a salvataggio l’operazione di bassa bottega del presidente del Pd, Stefano Bonacccini. Ermini si tenga pure il porto di Genova, ma lasci la direzione del partito.

Se l’ex presidente della Regione Emilia-Romagna pensa così di aver salvato la capra e i cavoli non sappiamo, ma non ne saremmo certi. Perché la campagna elettorale è in corso, non si sa se partita il 7 maggio con gli arresti o il 18 luglio con la manifestazione a Genova con i quattro leader dell’opposizione, Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, o infine il 26 luglio con le dimissioni del governatore.

E il “caso Ermini” non sarà tralasciato, verrà ricordato in ogni comizio. E se tutta quanta la storia, cominciata quattro anni fa a La Spezia con un’inchiesta per mafia, sorprendente, paradossale e furba, terminasse con l’assoluzione di Toti e la vittoria della sinistra in Liguria, avremmo assistito all’ennesimo ribaltone politico per via giudiziaria.

Una storia che si ripete da oltre trent’anni. In ogni caso, tra il processo immediato e la campagna elettorale, in Liguria si aspetta un vero autunno caldo.