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La notte dello sterminio dei Rom: 80 anni fa in 4300 bruciati nei forni di Auschwitz (ilriformista.it)

di Dijana Pavlovic

Il genocidio del 2 agosto 1944

Per rom e sinti non c’è stata una Norimberga, non c’è stato il senso di responsabilità collettiva per quello che è successo dietro i cancelli degli infiniti Lager nazifascisti. Oggi ricordare vuol dire denunciare che il 27 gennaio manca il Porrajmos, che, esattamente come la Shoah, è stato un genocidio.

Due agosto 1944-2 agosto 2024: dopo 80 anni dolore per la ferocia nazista, dolore e rabbia per la discriminazione di oggi. Se ne sono andati in silenzio, come l’altro mezzo milione di fratelli e sorelle, bambini e bambine. Chi è sopravvissuto ci ha lasciato poche parole e un peso schiacciante di morti non riconosciuti, non ricordati, non vendicati…

Il nostro dolore e il nostro peso senza nome, noi, zingari d’Europa, lo abbiamo digerito e assimilato dentro i nostri corpi, l’abbiamo fatto diventare la parte della nostra carne, lo abbiamo assunto come un destino.

In ogni comunità, in ogni quartiere rom in Europa vivono i discendenti di che è stato mandato a morte nei campi di concentramento, e nonostante questo, in ogni città, ogni giorno qualcuno di noi subisce violenze razziste, ingiustizie e discriminazioni. Nostri bambini sono costretti a vivere in povertà estrema, solo 1 su 3 in Europa ha l’accesso all’acqua potabile e il bagno in casa, segregati nelle scuole o esclusi dal sistema di istruzione.

Sempre in silenzio! Per questo la mia preghiera stanotte non sarà rivolta a Dio per quei morti, sarà rivolta a rom e sinti d’Europa per i nostri vivi. Sarà per liberare chi verrà dopo di noi di questo peso senza nome. Sarà per spezzare la catena del silenzio e ottenere giustizia.

Nella notte del 2 agosto 1944 circa 4300 donne, bambini e anziani rom e sinti venivano bruciati nei forni di Auschwitz-Birkenau. Erano gli ultimi dei circa 7000 che il 16 maggio si erano rivoltati contro le SS che dovevano liquidare il campo degli zingari (lo Zigenuerlager) per far posto a un trasporto di 4000 ebrei ungheresi inviati da Adolf Eichmann.

Dopo la rivolta le persone ancora in forze vennero inviate in altri Lager e le 4300 rimaste liquidate in una notte sola. 80 anni dopo cosa vuol dire ricordare il Baro Porrajmos (il grande divoramento, come lo ha definito Jan Hankok), il tentativo di genocidio di tutti i sinti e rom d’Europa? Ricordare un giorno di lutto, non un giorno di liberazione da commemorare perché non c’è stato per rom e sinti il dovuto riconoscimento dello sterminio subito, restituendo l’onore a un popolo che aveva come unica colpa di essere nato “zingaro”.

Per rom e sinti non c’è stata una Norimberga, non c’è stato il senso di responsabilità collettiva per quello che è successo dietro i cancelli degli infiniti Lager nazifascisti. Oggi ricordare vuol dire denunciare che il 27 gennaio, data simbolo in Europa e nel mondo tra le vittime della persecuzione nazifascista e nella legge che lo riconosce, manca il Porrajmos, che, esattamente come la Shoah, è stato un genocidio.

Ricordare vuol dire inserire a pieno titolo il Porrajmos nella legge che istituisce la Giornata della memoria senza ricorrere a scorciatoie come fare del 2 agosto la giornata dello sterminio di rom e sinti, perché questo vorrebbe dare al Porrajmos il carattere di una tragedia laterale, di serie B, mantenendo quella distinzione che è iniziata con il processo di Norimberga e che vediamo riflessa tutti i giorni nella vita delle nostre comunità.

“Dalla Cgil solo battaglie politiche. Il sindacato deve pensare al lavoro”

di

Il segretario generale della Cisl: 

“Bene i dati sulla crescita del Pil, ma in vista della Manovra ora serve più dialogo con il governo”

La politicizzazione del conflitto sociale da parte della Cgil con le sue battaglie referendarie su Jobs Act e autonomia differenziata è un venir meno del sindacato al suo ruolo di difesa dei lavoratori. Parola di Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl, che ora chiede al governo di aprire un confronto serio sulla manovra 2025 e sulle pensioni.

Segretario Sbarra, la crescita del Pil superiore la rende ottimista sugli esiti della manovra 2025?

«È un segnale incoraggiante, frutto anche del contributo di milioni di lavoratori. Si tratta di dare con la prossima manovra un ulteriore impulso alla crescita e agli investimenti pubblici e privati, con nuove politiche industriali e infrastrutturali, un taglio delle tasse sui ceti medi e popolari e il rinnovo dei contratti pubblici».

Siete sempre disponibili ad aprire un confronto sulle misure a favore del lavoro dipendente?

«Solo dal confronto possono nascere misure eque e durature. La polarizzazione politica non fa bene al Paese. Sulla manovra è imprescindibile un dialogo costruttivo tra il governo e le parti sociali riformiste e responsabili. Dovranno essere riconfermate alcune conquiste di questi anni, a partire dalla riduzione del cuneo fiscale per le fasce medio-popolari e dell’accorpamento delle prime due aliquote Irpef. Bisogna dare continuità alla defiscalizzazione sui frutti della contrattazione e garantire l’indicizzazione delle pensioni. Chiediamo interventi a favore famiglia e della natalità, e a supporto della non autosufficienza. Serve un forte investimento nel pubblico impiego, sulla sanità e nella scuola».

Quali prospettive vede per il cantiere pensioni?

«I margini non mancano. Bisogna riaprire il tavolo e lavorare su tre priorità: pensione di garanzia per i giovani, sostegno alla previdenza complementare e flessibilità in uscita».

A che punto è il vostro pdl sulla partecipazione dei lavoratori nelle aziende?

«L’autunno sarà decisivo anche su questo fronte. Ci sono tutti i presupposti per dare attuazione all’articolo 46 della Costituzione, proiettando nel futuro le relazioni industriali. Il ministero del Lavoro ha dato il via libera ai pareri sugli emendamenti in commissione. Ora il dossier è al Mef per l’analisi sulla copertura. Bisogna accelerare verso una rapida approvazione della legge in un clima bipartisan».

La Cisl resta dialogante anche su questioni come l’autonomia differenziata.

«Si stanno scatenando tifoserie politiche contrapposte. L’approccio apocalittico da una parte e il tentativo, dall’altra, di farla passare come la panacea di tutti i mali. Non ci iscriviamo né all’una né all’altra fazione, e facciamo nostre le parole di Sabino Cassese: la riforma è una realtà dal 2001 e il disegno autonomistico è prefigurato in nuce dagli stessi padri costituenti. Si tratta di dargli buona applicazione, garantendo che l’attuazione assicuri solidarietà, coesione sociale e unità del Paese. In questo solco la legge andrebbe ulteriormente migliorata. Precondizioni essenziali di ogni accordo tra Stato e Regioni dovranno essere il pieno finanziamento dei Lep, l’individuazione dei fabbisogni standard, la creazione di un fondo di perequazione nazionale e bisogna tenere la legge lontana dalla contrattazione collettiva nazionale e dalla scuola».

A questo proposito, il segretario Cgil Landini ha detto che il sindacato deve fare politica. È d’accordo?

«Il sindacato fa politica, sociale non partitica. Ma la fa, o la dovrebbe fare, in modo indipendente dai partiti, dialogando o entrando in conflitto in autonomia con tutti i governi democratici, a prescindere dal loro colore politico. Questa è per la Cisl la soggettività politica, ben lontana da posizioni antagonistiche e collateralismi novecenteschi».

Come cercherete di contrastare i fenomeni di deindustrializzazione che le altre organizzazioni sindacali paiono trascurare?

«Come sempre noi non faremo sconti a nessuno. Abbiamo già chiesto al governo l’attivazione del golden power sulla cessione Comau a One Equity Partners, a garanzia del patrimonio industriale del nostro Paese.

E questo vale per tutte le aziende che dopo aver goduto per anni di incentivi e sussidi pubblici decidono di delocalizzare o chiudere gli stabilimenti. Se in Italia avessimo già un modello di relazioni sindacali partecipativo, avremmo avuto sicuramente più controllo da parte dei lavoratori sulle scelte incaute di molte imprese».