di Mario Lavia
L’album di famiglia
Nonostante sia al governo da quasi due anni, la presidente del Consiglio non riesce a prendere una posizione chiara e univoca nemmeno sulla strage neofascista di Bologna
Le parole usate ieri da Giorgia Meloni, in occasione dell’anniversario della strage di Bologna, segnalano ancora una volta il persistere di problemi irrisolti tra lei e il neofascismo.
La presidente del Consiglio ha adoperato una stranissima circonlocuzione (identica a quella usata da Ignazio La Russa, dunque probabilmente concordata): «Il 2 agosto del 1980 il terrorismo, che le sentenze attribuiscono a esponenti di organizzazioni neofasciste, ha colpito con tutta la sua ferocia la Nazione».
A parte il grottesco riferimento agli «esponenti» neofascisti (ma come, «esponenti» degli assassini?), cosa sottintende la frase «le sentenze attribuiscono a esponenti di organizzazioni neofasciste…» se non la larvata insinuazione che la verità giudiziaria è quella, ma chissà anche se quella storica. Che differenza con le lapidarie parole di Sergio Mattarella che ha parlato di una «spietata strategia eversiva neofascista»: la nitidezza del Presidente della Repubblica contro l’oscurità della Presidente del Consiglio.
La questione che si ripropone è quella, come disse Rossana Rossanda a proposito delle Brigate rosse e del Partito comunista italiano, dell’album di famiglia o meglio di quella lunga stagione di rossi e neri che gli amici più grandi di Meloni hanno vissuto e che per loro è come la caverna di Platone dove non vedono altro «se non la propria ombra e le ombre delle cose proiettate sulla parete». Da quella caverna non riescono a uscire.
È dunque il contrario di quanto contenuto nelle “Tesi di Trieste” (secondo congresso di Fratelli d’Italia, 2017) dove si affermava di voler «sanare le ferite dell’interminabile guerra civile che ha segnato la nascita della storia repubblicana» (dunque, per inciso, la Resistenza non è “anche” ma “solo” guerra civile, depauperata cioè dal concetto di Liberazione e riscatto nazionale).
Quando la destra post-missina parla di riconciliazione entra in contraddizione con lo spirito di rivalsa che la anima e le fornisce coraggio, quello spirito di rivalsa che Meloni incarna perfettamente e che si esprime con la sua abituale vis polemica. Anche ieri infatti non ha mancato di battagliare, come fosse una segretaria di partito e non la guida del governo, respingendo «gli attacchi ingiustificati e fuori misura che sono stati rivolti, in questa giornata di commemorazione, alla sottoscritta e al Governo».
Il vittimismo d’altronde è elemento costitutivo dell’impianto ideologico di Meloni, che altro non è se non il riflesso di un sintomo di un complesso d’inferiorità e di una marginalità avvertita come tale su un piano culturale prima ancora che politico, l’effetto inconsapevole e un tantino infantile (la parabola di Calimero) di chi avverte di avere consenso ma non egemonia, intesa come costruzione alta di un’idea generale di società.
Di qui la tendenziale ambiguità, o non cristallina chiarezza, nel non chiamare le cose con il loro nome ricorrendo a giri di parole obliqui che tradiscono l’indisponibilità a strappare gli ultimi veli di un’appartenenza a una certa storia.
Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini. Ombre sul muro di una memoria inquietante che vanifica i quotidiani sforzi di apparire come gli altri, non essendolo fino in fondo.
Di qui la quotidiana lamentazione di una leader che vorrebbe essere conservatrice, ma non riesce a esserlo e non solo perché non cita mai né Winston Churchill né Charles de Gaulle (e neppure Ronald Reagan o Margaret Thatcher), ma perché i veri Conservatori dopo aver vinto tendono a unire: sono i reazionari che fanno della rivalsa la loro avventura.