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(Giannelli – corriere.it)
Distrazioni di massa, Feltri: “Il governo Meloni ha il pensiero degli ayatollah e nemmeno lo sa, non può vivere solo di consensi. Con tanta fuffa e pochi risultati si crea il pantano” (ilriformista.it)
Brillante corsivista su La Stampa e attento direttore di HuffPost,
Mattia Feltri ragiona con noi sulle storture della politica che ogni giorno passa in rassegna, sotto la scure della sua penna tagliente. Ieri hai scritto una considerazione molto incisiva, sulla politica che pretende di fare scelte etiche.
«La politica ha spesso questa pretesa, ma il governo attuale, incapace di andare oltre una dialettica bello/brutto, buono/cattivo, amico/nemico, ne ha fatto la bandiera issata più in alto. L’ultima proposta di legge, pensata per punire chi, nelle challenge nate sui social, mette a repentaglio l’altrui e la propria incolumità, ne è un capolavoro. Chi mette a repentaglio l’altrui incolumità è già punito, chi mette a repentaglio la propria non potrà mai esserlo: nessuno può essere processato e condannato per avere fatto male a sé stesso. Invece questo governo pensa sia possibile perché pensa di essere proprietario dell’etica dei cittadini e persino dei loro corpi. Hanno il pensiero degli ayatollah – sebbene meno strutturato – e nemmeno lo sanno. È sbalorditivo».
La politica affoga in un mare di fuffa, in questo scorcio di stagione estiva. Tutta.
«Sì, ed è la caratteristica comune a tutti i governi con cui abbiamo avuto a che fare negli ultimi decenni. Mario Draghi è stata l’unica eccezione. Perché non aveva il drammatico problema del consenso: la politica non può vivere senza consenso. Ma non può neanche vivere solo di consenso. Altrimenti si crea il pantano del governo Meloni, con tanta fuffa e pochi risultati, che però è quello che abbiamo visto anche nei governi precedenti ».
C’è però una tendenza al populismo digitale, da social, che forse peggiora…
«Il consenso viene essenzialmente dai social, oggi. Più che da giornali e tv. Ma non è una novità. Conte, e prima di lui Renzi hanno badato molto ai follower. Come ci insegnano a fare gli americani. Il capostipite fu Barack Obama. Oggi i miei figli, che sono adolescenti, mi dicono che Kamala Harris è bravissima su TikTok. Saper governare i social diventa prodromico al governo del Paese».
Si confonde il ruolo del leader con quello dell’influencer. Se inseguo i like metto in secondo piano la sostanza.
«Non c’è dubbio. “Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione”, frase molto citata di De Gasperi. Era il 1948, non è cambiato poi molto».
Oggi è tutto immediato. Nel senso: non mediato. Niente partiti, sindacati, chiesa. Quest’assenza di corpo intermedio pesa?
«Sì, decisamente. Perché mostra con chiarezza che questa intermediazione non riguarda solo la comunicazione, ma tutte le organizzazioni sociali. Pensiamo al lavoro, completamente frantumati: oggi ci sono migliaia di contratti diversi, parcellizzati, che hanno finito per indebolire il mondo del lavoro, i loro diritti, i salari… ».
Su questo i sindacati e i partiti della sinistra fotografano il lavoro con le diapositive in bianco e nero. Parlano di lavoro che cambia quando è già cambiato da 15 anni…
«Decisamente. Trovano geniale fare un referendum sul jobs act, che è quasi del tutto superato. Sarebbe come fare un referendum sulle musicassette. Farebbe un po’ sorridere, no? Se ne può discutere, ma parliamo di cose superate».
Sinistra e destra sono parallelamente impegnate a sbandierare i vessilli del passato. Le ideologie. Però senza più scuole di politica e con l’immediatezza social.
«La politica in questo è il riflesso del paese reale. La società italiana guarda indietro. Non mi sembra che noi sui giornali diamo una rappresentazione diversa. Se guardiamo a cosa vogliono i cittadini, a cosa interessa davvero alla gente, spesso bisogna ammettere che scelgono la distrazione. Che vogliono la distrazione di massa. Io dirigo HuffPost e monitoro minuto per minuto i risultati degli articoli online. Facciamo dei pezzi importanti di politica estera che non vengono letti, scriviamo la polemica sulla pugile Carini contro l’algerina e i numeri volano».
Dalla politica, dai leader, ci si aspetterebbe che fossero un po’ meglio dei loro follower…
«La politica dovrebbe avere un dovere in più, per sfuggire a questa logica. E ritrovare il coraggio di definirsi elitaria. In un tempo in cui le elites sono viste come canaglie, corrotte, maledette. È adesso che chi vuole guidare il paese deve avere il coraggio di alzare l’asticella, perché altrimenti si viene portati a fondo da una spirale mostruosa. Non è che la politica è brutta e cattiva e rovina il mondo: è che il mondo si rovina da sé».
La politica ha fatto tutti i passi indietro che poteva fare: si è tolta il finanziamento pubblico, ha chiuso gli organi di partito, ha ridotto il numero di parlamentari, ha votato la legge Severino… Cos’altro può fare per abdicare, rinunciare, fuggire dalla sua missione?«Sono élites che si sono
spodestate da sole in un percorso trentennale iniziato con Mani Pulite. Da allora tutti dovevano mostrarsi nuovi, immacolati. Dall’eliminazione dell’immunità parlamentare alla riduzione dei parlamentari c’è stato un lungo percorso in cui tutte le guarentigie sono andate autoriducendosi. E tra i parlamentari si è fatto a gara tra chi dichiarava il Parlamento più losco».
A forza di ripeterlo qualcuno li ha presi sul serio: il Parlamento conta sempre meno. Si va avanti a suon di decreti-legge del governo.
«Il Parlamento ormai si è delegittimato, ha rinnegato se stesso e adesso è entrato nella fase dello svuotamento, è in una fase di smobilitazione. Le direttive Ue, le decisioni della Corte costituzionale, le sentenze Tar, le ordinanze dei sindaci e i decreti del Governo sono le fonti del diritto. Al legislatore di Camera e Senato non è rimasto niente. Tanto che per parlare, va sui social. Il Parlamento non c’è già più. Né nella sua funzione legislativa né in quella dibattimentale».
Non si è disamorato l’elettorato, si è disamorata la politica?
«Ma certo. Da tempo abbiamo ormai la convinzione che quei palazzi abbiano volontariamente esaurito la loro missione».
In questo vuoto di potere che cosa si insinua?
«Una crisi profondissima della democrazia. Arriverà una trasformazione, è inevitabile. Dovremo sapere come governare questo passaggio, che può andare in due direzioni diverse: un ripensamento e rinnovamento della democrazia, per rafforzarla, oppure una svolta di tipo autocratico. Che vivono di plebiscito: usano le elezioni come plebiscito e le fanno passare per momento democratico».
Forse siamo già pre-plebiscitari. Il corpo elettorale si vota a un catalizzatore principale, anche se per alternanza è di volta in volta diverso. Più o meno con la stessa quantità di voti vengono plebiscitati i Cinque Stelle, Renzi, Salvini, oggi Meloni…«
Vero, ma pensavo a un plebiscito diverso: ogni leader politico oggi ha il suo piccolo bagno di folla. Una sua comunità (digitale ma anche reale) che porta in trionfo il suo leader, attribuendogli un mini-plebiscito quotidiano».
Da qui la ricerca spasmodica del fumogeno del giorno su cui investire i social.
«La questione delle due pugili, anche dolorosa per molti motivi, lancia il tema dell’oggettivazione delle persone. Che vengono fatte oggetto della tua propaganda, della tua autopromozione, della tua condanna morale. Su questo andrebbe fatto un grande dibattito. Ma ormai anche le grandi questioni vengono ridotte alla superficie pura. E quando fai un approfondimento vero, quello esce dai radar».
La polarizzazione, il bianco e il nero, lo schieramento obbligato: altre malattie da social.
«Ormai non ci si pone più il problema di avere a che fare con esseri umani. Si guarda all’altro come a un numero, un oggetto. Proprio come diceva Hannah Arendt ne La banalità del male. Una settimana fa abbiamo visto il processo etico al papà di Turetta, per delle frasi che non si dovevano neanche sapere. Perché prendersela con la pugile algerina o con il papà di Turetta? A che serve, se non a sentirsi emergere per avere infangato un altro? Bisogna mettersi invece nei panni dell’altro, immaginarci al suo posto, prima di parlare. Usiamo la tastiera per aggredire, usiamo il massimo della violenza consentita dalla situazione. Ma se domani aprissero lager per femminicidi, stupratori, o semplicemente per immigrati, torneremmo al volo alla violenza degli anni Trenta e Quaranta. Lo spirito è ancora quello».
Il suicidio in carcere, vistoso e agghiacciante. Altrimenti a che serve? (ilfoglio.it)
Piccola posta
Lo constatava in tono di apparente cinismo un testo del 1970. Anno in cui i “tentativi di suicidio” in carcere registrati furono 28 in 9 mesi. Fate il paragone con i numeri di oggi
Una giovane donna che non conosco mi ha spedito la tesi con la quale ha appena preso la laurea magistrale in scienze storiche (si chiamano così, io mi adeguo) all’università milanese. Lei è Isabella De Silvestro, il suo titolo è: “I dannati della terra.
Esistere e resistere in carcere: Lotta Continua e il movimento dei detenuti tra rivolta e riflessione (1969-1975)”. Ho apprezzato contenuto e forma del suo lavoro, ma me ne avvalgo oggi solo per la citazione che fa di un testo di oltre mezzo secolo fa, che trattava di autolesionismo, maltrattamenti e, il punto più attuale, di suicidi.
Diceva: “Il suicidio è la forma più disperata e spesso l’atto conclusivo dell’autolesionismo. Ci si suicida in molti modi: ci si tagliano i polsi con le schegge di vetro, si inghiottono lamette da barba, chiodi e cocci di bottiglia, si muore sfracellandosi da un pianerottolo, impiccandosi alle sbarre, frantumandosi il cervello contro il muro, dandosi fuoco con una bomboletta di insetticida, riempendosi la bocca e il naso di stracci. Molti non sanno nemmeno che, se in carcere si decide di morire, si cerca di morire in modo vistoso, agghiacciante. Altrimenti il suicidio è inutile, non serve neanche da protesta e si finisce sull’elenco compiacente dei deceduti per infarto, per occlusione intestinale, per embolia cerebrale o per caduta dalle scale. Se da una parte, dunque, vi sono forme di suicidio talmente incontrovertibili da non poter essere ignorate, esistono anche forme di suicidio che si prestano ad essere occultate in vari modi, magari con la consueta complicità di qualche medico”.
Lo ripubblico (non fui l’autore) per due ragioni. La prima è il tono di apparente cinismo, o almeno di imperturbata freddezza, con cui si avverte di un’ovvietà, che tuttavia può sfuggire a qualcuno: se si decide di morire in galera, ci si premura di morire “in modo vistoso, agghiacciante”.
Pena finire nelle liste di morti per incidente, o per cause naturali (naturale del resto è), o di venir catalogati fra i defunti ospedalieri, così da alleggerire le statistiche sui morti di galera.
Ci si suicidi utilmente, insomma, altruisticamente. (Vecchia idea, Dostoevskij ne fece un suo cavallo di battaglia).
La seconda ragione per cui lo pubblico è che nell’anno 1970, di cui si trattava, i “tentativi di suicidio” in carcere registrati furono 28 in 9 mesi – dunque, a quel tasso, più o meno 37 nell’intero anno. Tentativi. Nei 5 anni precedenti, la media annuale dei tentati suicidi fu di 22. Quella dei suicidi “riusciti” di solo 6.
Fatta la tara alle censure e le manipolazioni che allora le autorità penitenziarie e l’annessa informazione professionale praticavano molto più tranquillamente, la differenza è comunque madornale. 6 suicidi all’anno contro i 62 fra gennaio e luglio di quest’anno – media finale prevedibile, di questo estremo passo, calcolatevela voi, ve ne farete un’idea più concreta.
(Quanto all’espressione “suicidi riusciti”, che anche lei può sembrare cinica, ricordo il documento recente della Sorveglianza di Firenze in cui si negava l’accesso ai “benefici penitenziari” a un detenuto perché aveva tentato il suicidio, per giunta “per impiccagione”, e senza successo.
Proteste e disordini, non c’è ancora pace per l’Inghilterra (cdt.ch)
Nel pomeriggio gruppi di manifestanti hanno seminato caos e violenza in alcune città, tra cui Rotherham e Middlesbrough
Almeno 100 le persone arrestate nel weekend
Era stato descritto come un «possibile weekend di violenza e rivolte». Ed effettivamente, quello che l’Inghilterra si sta per lasciare alle spalle, è stato – come temuto – un fine settimana tutt’altro che tranquillo. Tutto è cominciato venerdì sera, con le prime proteste a Sunderland che hanno portato all’arresto di otto persone e al ferimento di tre agenti di polizia. Una manifestazione in risposta alla strage di Southport avvenuta lunedì scorso, degenerata in scontri e violenze.
Ma era solo l’inizio. Oggi, nel pomeriggio, la situazione è ulteriormente precipitata. Questa volta a Middlesbrough, dove un gruppo di 300 manifestanti si è diretto tra le strade di una zona residenziale della città, rompendo finestre di case e auto.
Secondo quanto riferisce il Guardian, il gruppo aveva con sé uno striscione che recitava la scritta «Tom Jones è gallese, Alex Rudakubana no» (il 17.enne che ha ucciso tre bambine a Southport, ndr) e marciavano urlando a voce alta: «Rivogliamo il nostro Paese».
Come riporta la CNN, sebbene la polizia affermi che il sospetto omicida sia nato in Gran Bretagna, gruppi di estrema destra hanno diffuso informazioni controverse sul giovane, mobilitando proteste anti-musulmani e anti-immigrati.
Stando alle prime informazioni, almeno due persone sono state allontanate, in manette, dalla manifestazione, mentre la folla lanciava pezzi di ardesia, sigarette elettroniche e bottiglie di plastica piene.
Non solo. A Rotherham, la polizia ha riferito di aver assistito a scene particolarmente violente all’esterno di un hotel Holiday Inn Express, al cui interno vengono ospitati richiedenti asilo.
In totale, secondo quanto riferito fino ad ora, in tutta l’Inghilterra e nell’Irlanda del Nord sono state arrestate almeno 100 persone. Oltre a quelle già citate, le città più colpite dai disordini, leggiamo sui media britannici, sono state Londra, Hartlepool, Bristol, Belfast, Southport, Hull, Stoke-on-Trent e Liverpool.
Il caos, insomma, nelle ultime ore ha regnato sovrano. A tal proposito, il primo ministro inglese Keir Starmer si è rivolto ai manifestanti, affermando che si «pentiranno di aver preso parte ai disordini» che hanno travolto l’intera Inghilterra. Parlando dell’attacco all’hotel di Rotherham, il neoeletto Starmer ha definito l’azione «delinquenza di estrema destra».
«Faremo tutto il necessario per assicurare alla giustizia questi criminali. Vi garantisco che vi pentirete di aver preso parte a questo disordine, sia direttamente sia con chi ha fomentato questa manifestazione online e poi sono scappati di loro spontanea volontà», ha aggiunto. «Questa non è una protesta, è una aggressione organizzata e violenta che non ha posto nelle nostre strade o online».
La situazione, insomma, è drammatica. E il timore è che non si riuscirà a ristabilire un equilibrio nelle prossime ore. I disordini di queste ore, sottolineano i media internazionali, rappresentano insomma «una sfida enorme» per il governo laburista di Keir Starmer, salito al potere solo un mese fa.
Scontri a Tamworth in serata
La tensione non ha abbandonato le città inglesi nemmeno durante la serata. Nella cittadina di Tamworth, nello Staffordshire, si sono verificati altri scontri fra la polizia e gruppi violenti dell’ultradestra. Gli agenti si sono visti costretti a invitare la popolazione a rimanere a casa.
(©Danny Lawson)
C’è da sperare che Toti sia condannato (italiaoggi.it)
di Valter Vecellio
Il film ha qualcosa di profetico: “Tutti dentro” è del 1984, la stagione di Mani Pulite è lontana.
È interpretato da Alberto Sordi, che ne è anche regista e sceneggiatore.
Protagonista un Pm zelante, incorruttibile. Eredita una maxi-inchiesta da un collega che va in pensione, coinvolti personaggi eccellenti della finanza e della politica, faccendieri corrotti; ma ci sono anche innocenti. Fa nulla. Il magistrato è della scuola: il fine giustifica i mezzi.
Finirà stritolato dallo stesso meccanismo che ha posto in essere: innocente, accusato di corruzione. Il film si conclude con un amarissimo monologo di Sordi-magistrato: «…mi chiedo se, rinunciando a vacue speranze e ad aspettative mai ripagate, non ci convenisse accettare l’ingiustizia, come regola e non come eccezione!?
Questo nella speranza, ovviamente… che almeno l’ingiustizia sia uguale per tutti!». Della vicenda che vede coinvolto l’ex presidente della regione Liguria Giovanni Toti chi scrive nulla si sa, se non quanto è stato pubblicato sui giornali. Toti è finito agli arresti domiciliari giustificati perché il reato contestato poteva essere reiterato. Pericolo venuto meno quando si è dimesso. Inevitabile il cattivo pensiero: Toti non è stato incarcerato per costringerlo alle dimissioni; ma appena si è dimesso è stato scarcerato.
Ora per paradosso ci si deve augurare che Toti sia effettivamente colpevole. Dovesse risultare innocente sarebbe cosa devastante: per Toti, per la magistratura, per la giustizia: che già ha subito tantissimi micidiali colpi proprio da chi la incarna e la amministra.
Lo si scrive col cuore pesante, perché si è convinti del principio che chiunque è innocente fino a condanna definitiva; che non è l’accusato a dover provare la sua innocenza, ma la pubblica accusa a dover provare la colpevolezza. Benedetto Croce in una sua lettera a Giovanni Amendola racconta di una disavventura giudiziaria capitata a Giuseppe Prezzolini; chiude con una raccomandazione: stare quanto più possibile lontani dai tribunali.
È ancora un buon consiglio.
L’Italia, un Paese a sovranità limitata dalle procure: il caso Toti ne è l’esempio. E se Conte e Schlein sono il futuro c’è poco da stare allegri (ilriformista.it)
Le dimissioni sono già una condanna
Per essere libero, Toti ha dovuto dimettersi da presidente della Giunta regionale della Liguria, dove era stato eletto nel 2020 dal voto popolare di oltre 350mila liguri, pari al 57% dei voti validi.
Il suo avversario, sostenuto dal Pd, da M5S, e dalla sinistra, aveva preso il 39% dei voti. Non un processo o una sentenza definitiva hanno destituito il presidente della Regione Liguria. I nostri tribunali possono stabilire pene alternative o sospensioni di pena: qui invece la Procura stabilisce una pena definitiva, senza alcun giudizio e senza alcuna prova di reato, accertato da un tribunale.
E soprattutto, viene applicata una pena che non è appellabile in nessun grado di giudizio. Una volta date le dimissioni, il voto popolare viene azzerato, e avanti il prossimo. Nel caso di imposizione delle dimissioni da un incarico elettivo, qual è la “riparazione” nel caso di errore giudiziario o di sentenza di assoluzione?
È ancora un “giusto processo”, sancito dalla Costituzione, quello degli amministratori pubblici a cui si sono imposte le dimissioni, prima del processo?
Il messaggio di Pd e M5s
Nei giorni scorsi, la segretaria del Pd e il Movimento 5 Stelle pubblicavano su X un comunicato praticamente identico in cui affermavano che “Finalmente Giovanni Toti si è dimesso anche se con molto ritardo. Ora potrà affrontare le sue vicende giudiziarie senza tenere in ostaggio le istituzioni”.
Non esiste alcuna differenza tra queste due formazioni politiche in particolare sul modo di fare politica e sulla concezione della politica e dello stato di diritto. A me molte scelte di Toti, anche quella della diga, non mi hanno convinto e avrei combattuto le sue scelte politiche ed amministrative.
Ma al Pd e ai 5 Stelle non appartiene da tempo una concezione della politica e della lotta politica che usi gli strumenti della iniziativa, della proposta in grado di dividere le forze di governo e creare alleanze per un’alternativa di governo. E purtroppo, a destra come a sinistra, si prende a calci la Costituzione e lo stato di diritto.
E si ripete la solita litania dell’“abbiamo fiducia nella magistratura”, quando si dovrebbe dire “abbiamo fiducia in un giudice terzo e imparziale”.
Nei limiti della Procura della Repubblica
Appare poi significativa di un corto circuito mediatico-giudiziario una frase scritta dall’inviato del Corriere (30 luglio): “Per chiudere l’indagine che ha stravolto la politica ligure – mettendo in fibrillazione quella nazionale – e chiedere il processo, alla Procura sono bastati appena meno di tre mesi, lo stesso tempo che Toti ha passato agli arresti domiciliari”.
Sono bastati appena tre mesi? Come se non ci fossero stati quattro anni di indagini, di intercettazioni ambientali e telefoniche. E se stavano commettendo dei reati in questi quattro anni, perché la Procura non è intervenuta e ha aspettato quattro anni? Da “Mani Pulite” a “Lande Desolate”, e poi in avanti, abbiamo riscritto di fatto la norma costituzione: “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti stabiliti dalle Procure della Repubblica”.
E ben prima dei 5 Stelle (anzi, essi sono il frutto di una politica scellerata) abbiamo stabilito in Italia un “parlamentarismo inquisitorio” in cui il sospetto è già la prova di un reato, e gli indagati o i sospettati sono dei bersagli per gli avversari politici, e dei pesi per gli amici.