L’attentato neofascista del 1974 provocò 12 morti e 50 feriti. Nessuna condanna
Il 31 luglio 1980 il giudice Angelo Vella chiudeva la sentenza-ordinanza sulla strage neofascista del treno Italicus del 4 agosto 1974 (12 morti e 50 feriti). Nella conferenza stampa del giorno dopo lo stesso Vella dava notizia del rinvio a giudizio di tre imputati. Si trattava di Mario Tuti, Piero Melentacchi e Luciano Franci membri del gruppo toscano del Fronte Nazionale Rivoluzionario, una delle sigle dell’eversione nera nate all’indomani dello scioglimento del Movimento Politico Ordine Nuovo del novembre 1973.
Nel 1992 tutti saranno definitivamente assolti dalla Cassazione. Ancora oggi, per lo Stato italiano, non esiste colpevole.
Fino al 1 agosto 1980 quella era, nell’immaginario collettivo, la strage di Bologna poiché aveva colpito un treno nella provincia della città. Così la chiamò Pasolini nella sua celebre invettiva civile «Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974».
Meno di 48 ore dopo l’incriminazione dei neofascisti per l’Italicus, la strage di Bologna avrebbe cambiato luogo di riferimento spostandosi nel cuore della città; facendo 85 morti e 200 feriti; scrivendo un nuovo tragico capitolo del romanzo nero della Repubblica.
Per il massacro del 2 agosto 1980 la Corte d’Assise d’Appello ha confermato, nel luglio scorso, la condanna di Paolo Bellini (neofascista, ’ndranghetista e collaboratore del Ros dei carabinieri), Piergiorgio Segatel (all’epoca capitano dei carabinieri) e Domenico Catracchia ovvero l’amministratore del condominio di via Gradoli a Roma (di proprietà di tre società riconducibili al Sisde) dove nel 1981 i Nar installarono una loro base.
I tre si aggiungono ai neofascisti Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Luigi Ciavardini (condannati definitivamente), a Gilberto Cavallini (condannato in appello) e ai mandanti/depistatori individuati in Licio Gelli e Umberto Ortolani (capi della P2); Federico Umberto D’Amato (capo dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno), Mario Tedeschi (senatore del Msi e direttore de Il Borghese).
A cinquant’anni di distanza la strage dell’Italicus racconta molto di ciò che avvenne prima e dopo quel 4 agosto 1974. Anticipa lo stretto legame tra manovalanza neofascista e P2 (con quest’ultima che «svolse opera – scrive la Commissione presieduta da Tina Anselmi – di istigazione agli attentati e di finanziamento dei gruppi della destra extraparlamentare toscana»); narra dei depistaggi eseguiti da alti esponenti degli apparati di forza e dei servizi segreti; rievoca l’apposizione del segreto di Stato da parte di due Presidenti del Consiglio (Spadolini nel 1982 e Craxi nel 1986) di fronte alle richieste di documenti da parte della magistratura; ricorda che la strage fu preceduta (come quella di piazza Fontana) da una serie di attentati sulle linee ferroviarie (29 gennaio Silvi Marina, nei pressi di Pescara; 9 febbraio treno Taranto-Siracusa; 21 aprile Vaiano, provincia di Pisa); che seguì la strage di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio) e che venne seguita dall’attentato a Terontola (9 gennaio 1975).
Rammenta, infine, di un falso propalato dal padre della destra di ieri e di oggi: Giorgio Almirante. Il segretario del Msi (all’epoca alle prese con la richiesta di autorizzazione a procedere approvata dal Parlamento contro di lui per ricostituzione del partito fascista) annunciò al capo dell’Ispettorato Antiterrorismo Emilio Santillo l’attentato dell’Italicus 19 giorni prima della strage, accusandone i gruppi della sinistra extraparlamentare: «Siamo stati in grado – disse Almirante alla Camera il 5 agosto 1974 – di comunicare il mattino del 17 luglio al dottor Santillo che un attentato era in via di preparazione alla stazione Tiburtina.
L’informazione era inesatta solo per un particolare di notevole importanza, perché si parlava del Palatino, il treno Roma-Parigi, e non dell’Italicus. Io fui in condizioni di mandare un biglietto al dottor Santillo e di farlo seguire da una telefonata. Gli mandai un biglietto nel quale erano indicati i nomi dei presunti organizzatori dell’attentato. So per certo che quei tre indiziati o presunti indiziati o presunti colpevoli o presunti organizzatori appartengono a gruppi extraparlamentari di sinistra operanti in Roma e più esattamente all’Università di Roma».
A pulire gli occhi da queste falsità ci penserà la «Piazza bella piazza» cantata da Claudio Lolli a Bologna il giorno dei funerali delle vittime, quando le alte cariche democristiane dello Stato saranno sonoramente contestate da una massa di popolo consapevole della vera matrice dell’eccidio.
Dopo mezzo secolo di impunità resta anche un’ultima evocativa immagine: quella del ferroviere Silver Sirotti che, in servizio sull’Italicus, tentò di spegnere le fiamme dell’incendio per salvare le vite dei passeggeri e morì travolto dal fuoco.
Vittima aggiunta della strage come era stato nel dicembre 1969 un altro ferroviere, Giuseppe Pinelli, morto innocente nella Questura di Milano all’alba del primo capitolo del romanzo nero della Repubblica.
La presidente del consiglio continua a oscillare
tra slanci liberali e ricadute populiste
“Di lotta e di governo”, si sarebbe detto un tempo, per i partiti che vogliono accreditarsi come forza responsabile, ma allo stesso tempo sono preoccupati di non recidere il cordone ombelicale con la propria vocazione protestataria originale e con la pancia del proprio elettorato.
Il problema, nella storia repubblicana, si è posto per più di un partito e negli ultimi anni i casi si sono decisamente infittiti.
Basti pensare al M5s dei due governi Conte, che nel giro di pochi mesi passò alle missioni di solidarietà per i gilet jaunes francesi al sostegno a Mario Draghi o alla Lega di Matteo Salvini, che teneva alto l’allarme securitario e allo stesso tempo sedeva al Viminale.
Ora sia Conte che Salvini contano di risalire nei sondaggi a discapito di Fratelli d’Italia, che essendo il partito di maggioranza relativa ed esprimendo la presidente del Consiglio si dovrebbe trovare naturalmente in una posizione più vincolata a livello istituzionale, sia sul piano nazionale che internazionale.
Dovrebbe, perché in termini pratici è proprio su questo fronte che si sta palesando l’ambiguità della linea portata avanti dalla presidente del Consiglio. Una linea fatta di oscillazioni, stop and go, iniziative talvolta di segno opposto, che dopo quasi due anni di guida dell’esecutivo ancora non consentono di dire quale sia la parabola da lei tracciata per FdI e la destra italiana non proveniente dalla tradizione liberale.
A spanne, sembra che Meloni sia guidata dall’ossessione di scongiurare il crollo di percentuali che ha riguardato Lega e M5s, cercando di conciliare elementi di conservatorismo liberale e altri chiaramente riconducibili al populismo e al sovranismo internazionale.
Lo schema è collaudato e reiterato, e visto il buon risultato per FdI alle ultime Europee la convinzione che questo funzioni deve aver prevalso nella mente della premier. Per cui, l’impressione è che si andrà avanti su questo doppio registro almeno fino a quando Meloni lo riterrà elettoralmente vantaggioso.
Sul fronte interno, accade che alla commemorazione dell’assassinio di Giacomo Matteotti si riconosca che quest’ultimo è stato ucciso da «squadristi fascisti» e poi però si attacchino i giornalisti per l’inchiesta di Fanpage che ha smascherato sacche di neofascismo e di antisemitismo all’interno dell’organizzazione giovanile del partito. Poi arriva il repentino dietro- front sotto forma di lettera indirizzata a via della Scrofa in cui si chiede tolleranza zero per i fascisti. Una vexata quaestio, quella del fascismo, che a causa delle reticenze finisce fatalmente per non abbandonare la presidente del Consiglio nemmeno
quando le polemiche nei suoi confronti appaiono forzate, come per le accuse lanciate alla “destra di governo” per la strage di Bologna da Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione delle vittime. Qui una nota di Palazzo Chigi citava le sentenze che ne attribuiscono la responsabilità ai neofascisti.
Ma è sul piano internazionale che lo stare in mezzo al guado di Meloni rischia di essere severamente condannato dai fatti, perché l’ansia di non far perdere consenso a Fratelli d’Italia potrebbe non coincidere con i tanto sbandierati interessi nazionali, in questa fase di ricambio ai vertici dell’Ue.
Non è un caso che una delle testate ritenute meglio informate sulla politica comunitaria (“Politico”) abbia scritto che le ultime polemiche sollevate da Meloni sul Rapporto sullo Stato di diritto dell’Ue, con annessi attacchi ad alcune testate, che a loro volta hanno fatto seguito alla scelta di votare no alla rielezione di Ursula von der Leyen, stiano danneggiando l’Italia nella delicata trattativa per l’assegnazione a Roma di un commissario di peso.
Quando sembrava che a Bruxelles l’Ecr si stesse definitivamente emancipando dalla destra sovranista, tanto da votare assieme alla maggioranza attuale l’ufficio di presidenza dell’Europarlamento e ottenere una vicepresidente, è arrivato il no a von der Leyen, così come il no alla parte della mozione pro- Ucraina che condannava le iniziative diplomatiche di Viktor Orban. Incalzata dal trio Le Pen- Orban- Salvini, Meloni non ha resistito alla forza del cordone ombelicale della destra populista, con un supplemento di preoccupazioni apportato da ciò che sta succedendo negli Usa, dove Trump sembra andare verso la vittoria a grandi falcate.
E così, anche la visita ai giochi olimpici diventa una illustre vetrina per l’ambiguità meloniana: la presa di posizione contro il Cio per aver fatto gareggiare la pugile algerina Imane Khelif, che strizza l’oc- chio ai settori più conservatori e confessionali dell’opinione pubblica accordandosi con analoghe considerazioni fatte da Trump e dal portavoce di Putin che ha addirittura parlato di “perversione”.
“Ma anche” ( per dirla con Walter Veltroni) l’incontro col presidente francese Macron a margine del concorso ippico. Un primo banco di priva per capire se la scommessa meloniana porterà i suoi frutti o se inizierà a mostrare la corda sarà, come detto, la scelta del commissario Ue che spetta all’Italia. Poi, ci sarà da impostare una manovra finanziaria con poche risorse e col ritorno dei vincoli di bilancio europei. In quest’ultimo caso, i numeri mal si concilieranno con la strategia del “doppio forno”.
Dalla vicenda dei due test emergono alcuni elementi contrastanti con la narrazione fuorviante diffusa contro l’atleta algerina
L’atleta algerina Imane Khelif è stata accusata ingiustamente di essere una transessuale. Le prove? Nessuna. Non esiste alcun documento o test che dimostri che sia un uomo che abbia completato la transizione.
È altrettanto difficile credere che si tratti di una transessuale che rappresenta la bandiera dell’Algeria, un Paese notoriamente contrario ai diritti LGBTQ+. Chi l’ha accusata di fingersi donna sono coloro che l’hanno giudicata solo dal suo aspetto fisico e dalle dichiarazioni del Presidente dell’International Boxing Association (IBA), l’amico di Putin e oligarca russo Umar Kremlev, che accusa il Comitato Olimpico di mettere a rischio la vita delle atlete che la affrontano.
Tralasciando la questione politica e come la propaganda russa sfruttil’occasione, c’è un particolare curioso in questa vicenda, che potrebbe portare lo stesso Kremlev a condannare se stesso e a rassegnare le dimissioni per coerenza.
Imane Khelif aveva già combattuto nelle competizioni internazionali dell’IBA, arrivando seconda nella competizione mondiale del 2022 in Turchia. Nel torneo del 2023 a New Delhi, in India, era stata squalificata a poche ore dalla finale valida per la medaglia d’oro.
La decisione era stata presa e votata dallo stesso Kremlev, che dichiaròil giorno successivo che un test del DNA avrebbe rivelato che Khelif e un’altra atleta si erano spacciate per donne al fine di gareggiare nel torneo. Tuttavia, la stessa IBA non conferma in alcun modo le parole del suo presidente. In nessun comunicato o verbale dell’associazione viene citato il nome del test effettuato, né viene definita l’atleta come uomo o transessuale.
La squalifica e i due test
Secondo il sito delle Olimpiadi, almeno fino al primo agosto 2024, nel profilo di Imane Khelif veniva riportato il presunto motivo della sua squalifica dalla competizione del 2023 in India: un livello troppo elevato di testosterone.
Questa condizione non conferma il sesso dell’atleta, in quanto alcune donne sono portate a produrre elevate quantità di questo ormone rispetto alla norma. Il 31 luglio, l’IBA ha pubblicato un comunicato per sostenere che Imane Khelif non è stata squalificata dal torneo a causa del testosterone, ma per il risultato ottenuto da due test condotti rispettivamente nel 2022 in Turchia e nel 2023 in India.
Non è dato sapere di che test si tratti, ma nel verbaledel Consiglio dell’IBA condiviso nel comunicato emergono alcuni elementi contrastanti con la narrazione fuorviante diffusa contro l’atleta.
A pagina 2 del verbale del 25 marzo 2023, ossia il giorno prima della finale del mondiale in India, viene riportata la discussione riguardante la squalifica dalla competizione dell’algerina Imane Khelif e della taiwanese Lin Yu-ting.
L’introduzione è stata fatta dal responsabile sportivo dell’associazione, Marko Petric, sostenendo che entrambe le atlete «non hanno soddisfatto le regole di ammissione a seguito di un test condotto da un laboratorio indipendente». Non è dato sapere di quale laboratorio si tratti né quale test sia stato effettuato. Il verbale prosegue con un “dialogo” tra il Presidente Kremlev e il Segretario generale dell’IBA, George A. Yerolimpos, prima del voto finale del Consiglio per ratificare la squalifica delle due atlete.
Il problema della squalifica a ridosso della finale
Il principale problema del Consiglio riguardava la ratifica di una decisione così delicata solo alla fine del torneo, escludendo di fatto l’atleta algerina dalla finale. Come spiegato dal Segretario generale, alle atlete era stata notificata immediatamente la squalifica una volta ottenuti i risultati del test, dando loro ventuno giorni di tempo per presentare ricorso al Tribunale Arbitrale dello Sport (Court of Arbitration for Sport, CAS).
Un ricorso pressoché inutile, visto che il giorno successivo si è disputata la finale, che ha visto la vittoria della cinese Yang Liu. Evidentemente, come scopriremo in seguito, tali test non potevano essere effettuati prima dell’inizio del torneo. Eppure, la richiesta di chiarimenti da parte del Consiglio risulta essere motivata da un fatto che molti ignorano.
Il Segretario generale, infatti, ha confermato di fronte al Consiglio che test simili erano stati condotti sulle stesse atlete da un altro “laboratorio indipendente” durante il mondiale del 2022 a Istanbul, in Turchia. Entrambe, stando alle dichiarazioni nel verbale, non vennero squalificate dalla competizione perché i risultati vennero acquisiti dall’associazione solo dopo la finale, persa da Imane Khelif contro l’irlandese Amy Broadhurst.
Di fatto, il verbale del Consiglio svela che l’IBA era in possesso dei risultati di un test effettuato nel 2022, simile a quello del 2023, ma ciò non aveva impedito ad entrambe le atlete di partecipare alla competizione in India.
La richiesta di misure preventive
Il Presidente dell’IBA, Umar Kremlev, è intervenuto domandando al Segretario generale se fosse stato possibile adottare misure preventive per non consentire alle atlete interessate di competere al torneo di New Delhi, considerando proprio i risultati ottenuti dai test del 2022.
Yerolimpos, il Segretario generale, nella sua risposta ha confermato che l’IBA aveva a disposizione il responso dei test effettuati in entrambe le competizioni. Tuttavia, Yerolimpos ha spiegato al Presidente che non era stato possibile condurre il test del 2023 prima dell’arrivo degli atleti a Nuova Delhi, ossia «quando le atlete erano fuori dal controllo dell’IBA».
La narrazione dell’IBA e il test del 2022
Di fatto, l’IBA aveva sottoposto per ben due volte, in due anni, entrambe le atlete a un test (sconosciuto), ottenendo dei risultati (non dichiarati) che dovevano comportare la loro squalifica dalle competizioni in Turchia e India.
Se il test in questione fosse stato quello del DNA, riscontrando i cromosomi XY sia in Khelif che nella taiwanese Yu-ting, perché non sono state escluse da tutte le competizioni dell’IBA dopo il torneo del 2022?
Secondo l’IBA, le due atlete dovevano essere escluse anche dalle Olimpiadi di Parigi 2024 per salvaguardare la salute delle altre partecipanti. In un successivo comunicato, pubblicato il primo agosto, l’associazione ha ribadito la sua condanna nei confronti del Comitato Olimpico, citando nuovamente il verbale dell’IBA del 25 marzo 2023 e i due test effettuati durante le competizioni in Turchia e India. Questa volta, però, l’IBA si è allineata alla narrazione del Presidente, affermando che «non sosterrà mai alcun incontro di pugilato tra i sessi».
Se le affermazioni sui cromosomi XY fossero vere, e considerando che la stessa associazione fosse a conoscenza dei risultati del test effettuati nel 2022, il primo a dover essere giudicato dovrebbe essere proprio il Presidente Kremlev e la stessa IBA, in quanto erano a conoscenza di una presunta condizione che avrebbe messo a rischio (cit.) le altre atlete durante la competizione del 2023 in India.
La presunta esclusione da tutte le competizioni IBA
C’è un’ulteriore differenza nel comunicato del primo agosto rispetto al passato. A seguito delle polemiche su Parigi 2024, l’IBA sostiene di “confermare” l’esclusione delle due atlete da tutte le competizioni dell’associazione, nonostante nel verbale del 2023 e nei precedenti comunicati si parli della sola squalifica dal mondiale di New Delhi.
Anche considerando questa condizione come valida fin dal 25 marzo 2023, è significativo notare che il profilo di Imane Khelif sia tutt’oggi presente sul sito ufficiale e risulti ancora iscritta (forse ancora per poco) con l’ID SD336. È possibile che debbano aggiornarlo, dal 2023.
La questione del ricorso ritirato
Al fine di sostenere che Imane Khelif fosse una transessuale, molti considerano che l’atleta abbia ammesso qualcosa ritirando il ricorso contro la squalifica del 2023 ratificata nel verbale dell’IBA. Un ricorso pressoché inutile ai fini della competizione in India, considerando che la finale si era svolta il giorno successivo alla squalifica con la thailandese Janjaem Suwannapheng al suo posto sul ring.
Se l’esclusione dal torneo comportasse anche quella da ogni ulteriore competizione organizzata dall’associazione, potrebbe essere un motivo valido per proseguire tramite le vie legali presso il Tribunale Arbitrale dello Sport (Court of Arbitration for Sport, CAS).
Il ricorso è menzionato nei successivi verbali dell’IBA, come in quello del 13 maggio 2023, dove viene riportato anche il codice identificativo presso il Tribunale (CAS 2023/A/9575). L’ultima citazione risale al verbale dell’8 dicembre 2023, in cui si annuncia il ritiro del ricorso da parte dell’atleta algerina, chiudendo di fatto la vicenda.
Non viene dichiarato il motivo di tale decisione, ma è possibile considerare alcuni aspetti della vicenda legati allo scontro diretto con il Comitato Olimpico e le stesse Olimpiadi del 2024.
Il disconoscimento dell’IBA e le Olimpiadi di Parigi 2024
A seguito della squalifica di Imane Khelif, nel mese di giugno 2023, l’IBA venne disconosciutacome federazione internazionale dal Comitato Olimpico. Il motivo non era strettamente legato a quanto accaduto alle due atlete, ma piuttosto a diverse mancanze da parte dell’IBA in seguito a una sospensione del 2019, legate alla governance della stessa e a presunti problemi di corruzione.
Con il disconoscimento, l’organizzazione delle Olimpiadi del 2024 non riguardava più dall’IBA, ma da un’altra entità creata appositamente con il nome di Paris Boxing Unit (PBU), che considerava i criteri di ammissibilità alle competizioni di Parigi sulla base dei regolamenti precedenti alla sospensione del 2019 dell’IBA.
Come conseguenza del disconoscimento dell’IBA, una nuova associazione chiamata World Boxing sta pian piano prendendo piede come effettiva sostituta nella gestione dello sport a livello mondiale. A partire dal 2023, i tornei organizzati da questa nuova organizzazione risultavano utili per partecipare alle Olimpiadi del 2024.
In un comunicato pubblicato il 15 settembre 2023, la World Boxing ha annunciato la qualificazione dell’algerina Imane Khelif. Con l’imposizione crescente di questa nuova entità sportiva, che vede l’Italia come nuovo membro dal 26 luglio 2024, risulterebbe comprensibile la cessazione di una disputa con l’IBA, ormai disconosciuta e priva del suo valore.
L’Algeria, la questione LGBTQ+ e il passaporto
Come è ben noto, il Paese nordafricano non è un posto adatto per le persone omosessuali. L’Algeria, infatti, è stata indicatadall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) per aver approvato «leggi contro la “propaganda” o “promozione” di comportamenti sessuali “non tradizionali”». Amnesty International riportaulteriori casi in cui le autorità algerine sono intervenute contro episodi comunicativi contenenti «simboli contrari alla morale» e ritenuti «contrari ai precetti dell’Islam e ai valori della società algerina».
Risulta difficile credere che per anni l’Algeria abbia permesso a un fantomatico transessuale di gareggiare con la bandiera algerina nelle competizioni internazionali e durante le Olimpiadi, soprattutto considerando che le persone transessuali fuggonodal Paese in quanto perseguitate.
Secondo quanto riportato sul sitodelle Olimpiadi, l’ammissibilità degli atleti si basa sul sesso e sull’età indicati sul loro passaporto, come avveniva nelle precedenti edizioni olimpiche. I documenti algerini di Imane Khelif la indicano come donna, gli stessi documenti in possesso del Comitato Olimpico, della federazione algerina e mostratipubblicamente dal padre dell’atleta. Viste le condizioni degli omosessuali in Algeria, risulta difficile che Imane Khelif fosse nata uomo per poi “spacciarsi come donna”.
Un’ulteriore considerazione sulla vicenda potrebbe essere una successiva scoperta della presenza dei cromosomi XY da parte dell’atleta, trovandoci di fronte a un “caso genetico” simile a quello della sudafricana Caster Semenya, che lo scoprì in età adulta.
In tal caso, le accuse di essere una transessuale cadrebbero ulteriormente, ma non possiamo sapere cosa potrebbe capitarle nel suo Paese e se potrà mai competere di nuovo sotto la bandiera algerina.
Dall'Ucraina al Medio Oriente: come errori di
calcolo potrebbero scatenare conseguenze devastanti
Siamo sull’orlo di un precipizio. Un errore, una scivolata, una manciata di morti “sbagliati” può farci precipitare nel vuoto. Il mondo di oggi è diverso da quello di ieri in cui sono nato e ancora più diverso da quello in cui fui concepito o da quello che mio padre o suo padre potevano agire o filosofeggiare. Le certezze, o quasi, di allora, lo sono di meno oggi e i giochi di oggi ne tengono conto, seppure non sempre in modo sufficiente.
Un eventuale errore di calcolo sul fronte ucraino potrebbe provocare una guerra nucleare, ci dicono con convinzione esperti e politici. In Medio Oriente, dove politica e religione hanno creato un cocktail di morte, i rischi sono meno gestibili e anche la Bomba è presente o sta per arrivare. Washington ha detto che Israele potrebbe rispondere in modo limitato alla strage compiuta dal missile di Hezbollah nel villaggio di Majdal Shams.
E forse, se siamo fortunati, il numero dei morti civili aumenterà lentamente – siamo a quasi 40 mila nella Striscia di Gaza, mille e qualcosa in Israele. La vendetta potrebbe essere limitata non soltanto perché i ragazzi uccisi mentre giocavano a calcio non erano ebrei (erano drusi come tutti gli abitanti del villaggio sulle alture del Golan) ma anche perché, dal punto di vista della legalità internazionale, non erano nemmeno israeliani.
Il Golan, formalmente, fa parte della Siria; fu annesso da Israele dopo la guerra del 1967. Con un gesto quasi da teatro, fu, pochi anni fa, il presidente Trump a riconoscerlo come parte di Israele contro ogni legge internazionale e contro ogni risoluzione dell’ONU, ma molti degli abitanti dell’altipiano si considerano ancora cittadini della Siria, non hanno voluto accettare il passaporto israeliano e non sono obbligati a fare il servizio militare in Israele come, invece, sono costretti a fare i loro cugini drusi nei villaggi più a est, a ridosso del confine con il Libano.
Ci sono molti, tra gli aderenti ai partiti di estrema destra che governano in Israele, che vorrebbero vedere l’estendersi del conflitto al Libano (e lo dissero fin dal 7 ottobre dello scorso anno quando Hamas lanciò il suo attacco a sorpresa contro la popolazione civile israeliana a ridosso di Gaza). Ci sono altri che guardano con favore a un attacco all’Iran, convinti di uscirne vittoriosi e con un Medio Oriente meno ostile.
Su queste pagine, a giugno, è stato recensito il mio ultimo libro, “Fantasmi a Roma”. Vi racconto molte storie che collegano i fatti del Medio Oriente alla capitale italiana. Israele, nel 1968, era un altro mondo. La sua gente, uscita vittoriosa da una guerra con gli arabi, guardava con speranza e convinzione alla pace con i vicini. Intervistai una di loro; queste alcune pagine:
Stella Levi, allora, girava il mondo e faceva pubbliche relazioni per l’esercito israeliano. Una soldatessa in un mondo (sebbene in cambiamento) in cui la maggior parte delle donne era ancora confinata soprattutto in cucina e in camera da letto. Il titolo messo in testa all’intervista che le feci per Il Messaggero era ricco di ottimismo: “Crede nella pace il capo delle soldatesse d’Israele”. La storia la smentirà. Potrebbe essere una dirigente d’azienda, una spigliata addetta alle relazioni pubbliche, come se ne incontrano un po’ ovunque nelle grandi compagnie internazionali, una maestra, una semplice madre di famiglia, una turista più elegante della media; ma resta difficile credere che la signora Stella Levi, snella e minuta, dal volto niente affatto autoritario e dalla voce calma e pacata, sia invece un’ufficiale superiore dell’esercito, comandante di tutta l’Armata femminile israeliana. Il colonnello Levi è stata a Roma soltanto per due giorni; veniva da Parigi ed era diretta all’Aja e poi in Svizzera, dove parlerà a un convegno organizzato dagli ex appartenenti alle forze ausiliarie femminili dell’esercito elvetico….
Non ho mai più incontrato il colonnello Levi nei tanti anni in cui ho frequentato Israele e seguito i numerosi conflitti tra arabi e israeliani. Morì nel luglio 1999. Ha assistito, dopo aver avuto un ruolo anche nel mondo della politica, alla firma degli accordi di Oslo sul prato della Casa Bianca, ma se fosse ancora in vita oggi non credo che sarebbe ottimista come appariva allora:
“Io, personalmente, sono convinta che è possibile una soluzione pacifica del conflitto arabo-israeliano. Io credo che non ci sarà più guerra. Non si può continuare a combattere in eterno. Non ha senso. La guerra non serve a far altro che logorare le economie e a paralizzare lo sviluppo del nostro paese e di tutto il mondo arabo.”
La crisi dei giornali cartacei è ben nota, a
soffrire più di tutti sono i quotidiani che
ogni giorno pubblicano notizie che la rete ha
già reso vecchie.
L’ADN, l’associazione Accertamenti Diffusione Stampa, che certifica i dati di diffusione e di tiratura della stampa quotidiana e periodica di qualunque specie pubblicata in Italia, ha presentato i dati reali delle vendite dei maggiori quotidiani. Questi dati sono abbastanza distanti da quelli vantati dalle concessionarie pubblicitarie in cerca di nuovi clienti ed inserzionisti.
Anche perché una cosa è la tiratura, ovvero il totale delle copie stampate in Italia e all’estero esclusi gli scarti di macchina, una cosa è la diffusione media, altra ancora sono le copie realmente vendute e pagate.
Tra i primi venti quotidiani italiani troviamo sul podio Corriere della Sera, Repubblica e La Gazzetta dello Sport Lunedì, mentre in ultima posizione si trova Il Fatto Quotidiano.
1 – CORRIERE DELLA SERA Tiratura media 609.785 – Diffusione Media 474.395 – Totale Pagata 440.613
2 – LA REPUBBLICA
Tiratura media 509.141 – Diffusione Media 396.446 – Totale Pagata 357.797
3 – LA GAZZETTA DELLO SPORT – LUNEDÌ Tiratura media 491.172 – Diffusione Media 366.653 – Totale Pagata 340.762
4 – IL SOLE 24 ORE Tiratura media 331.753 – Diffusione Media 262.360 – Totale Pagata 256.676
5 – LA STAMPA
Tiratura media 350.297 – Diffusione Media 253.971 – Totale Pagata 248.535
6 – CORRIERE DELLO SPORT – STADIO LUNEDÌ Tiratura media 372.390 – Diffusione Media 236.807 – Totale Pagata 234.420
7 – LA GAZZETTA DELLO SPORT Tiratura media 367.624 – Diffusione Media 261.250 – Totale Pagata 234.204
8 – TUTTOSPORT – LUNEDÌ
Tiratura media 329.178 – Diffusione Media 195.265 – Totale Pagata 193.914
9 – IL MESSAGGERO
Tiratura media 247.002 – Diffusione Media 176.800 – Totale Pagata 172.215
10 – CORRIERE DELLO SPORT – STADIO
Tiratura media 272.236 – Diffusione Media 156.904 – Totale Pagata 154.684
11 – IL RESTO DEL CARLINO Tiratura media 183.714 – Diffusione Media 137.247 – Totale Pagata 134.412
12 – IL GIORNALE Tiratura media 220.386 – Diffusione Media 129.689 – Totale Pagata 127.601
13 – L’AVVENIRE
Tiratura media 160.649 – Diffusione Media 121.998 – Totale Pagata 120.487
14 – LA NAZIONE Tiratura media 145.905 – Diffusione Media 110.358 – Totale Pagata 108.386
15 – LIBERO Tiratura media 166.282 – Diffusione Media 96.657 – Totale Pagata 94.585
16 – TUTTOSPORT
Tiratura media 189.841 – Diffusione Media 93.110 – Totale Pagata 91.922
17 – GAZZETTINO
Tiratura media 99.955 – Diffusione Media 77.047 – Totale Pagata 74.883
18 – IL MATTINO DI NAPOLI
Tiratura media 92.942 – Diffusione Media 67.929 – Totale Pagata 65.853
19 – IL TIRRENO
Tiratura media 83.183 – Diffusione Media 65.905- Totale Pagata 64.361
20 – IL FATTO QUOTIDIANO Tiratura media 110.667 – Diffusione Media 56.380 – Totale Pagata 55.926