Bologna 2021-26. La mortadellosa mitomania di Bologna che non è sfuggita al New York Times (linkiesta.it)

di

Vuoi mettere la community

Ho l’identità di codice postale, mi percepisco milanese.

Del resto, i bolognesi pensano seriamente che dei cuochi amatoriali locali potranno cucinare alla Casa Bianca

Tu, mi dice sempre una postmodernista che conosco, dovresti capire meglio di chiunque altro la questione delle persone trans, avendo anche tu un’identità non di genere ma di codice postale: sei di Bologna ma ti percepisci di Milano.

È in effetti vero che il tempo che trascorro a Bologna lo trascorro a borbottare qualche variazione su «vuoi mettere Milano»: le amiche telefonano lamentandosi di Sala, del fatto che non funziona più niente, del metrò che passa con frequenza romana, e io come un disco rotto chiedo se vogliano fare a cambio con Lepore che non raccoglie la spazzatura.

È però altrettanto vero che il tempo che passo a Milano lo passo borbottando «si vede proprio che sono finiti i soldi». Solo in un pomeriggio di questa settimana: i cartelli nella fermata del metrò di Montenapoleone che avvisano che gli ascensori li stanno riparando e se avete bagaglio dovete usare un’altra fermata, come se la città ad agosto ancora si fermasse come quando c’erano i soldi; la trasformazione di Corso Como 10, il concept store del lusso quando c’erano i soldi, in spaccio di saldi; il Ratanà che è chiuso a pranzo perché quel genio del sindaco, con l’imprinting della sua giovinezza in un secolo in cui c’erano i soldi e Milano ad agosto era deserta, fa fare i lavori lasciando la zona senz’acqua per intere giornate; i taxi che non si trovano, perché i tassisti saranno organizzati come quando c’erano i soldi e le città d’agosto erano deserte, e se si trovano non riescono però a venire a prenderti in via della Spiga perché via del Gesù è interrotta anche lei dai lavori: tutta la manutenzione concentrata ad agosto, come agosto fosse l’agosto del Novecento.

Il mio preferito tra gli account Twitter (o come si chiama ora) è uno che si chiama “Editing The Gray Lady”, tenuto da un picchiatello che, mentre noi dormiamo, sta lì a controllare come il New York Times cambia titoli o url degli articoli che solo dopo averli messi on line si rende conto possano risultare imprecisi o, peggio, disturbanti per qualcuno.

Ieri mattina mi ha segnalato che il pezzo su Bologna che avevano pubblicato aveva cambiato titolo, rinunciando al meraviglioso “Come la mia amata città italiana è diventata un incubo di mortadella”. Chissà se l’autrice ha fatto notare alla redazione che “Mortadella nightmare” sarebbe parso, ai più anziani bolognesi, un attacco a Romano Prodi. Bologna nel titolo è diventata “inferno di turisti” – che, converrete, è troppo generico.

(Davide Cantelli)

L’articolo del New York Times mette a parte gli stranieri d’un’osservazione che chiunque sia cresciuto a Bologna fa da parecchi anni. Ricopio da un articolo che scrissi per La Stampa nel 2021, parlando della cartoleria in cui compravo scemenze color pastello da piccina: «Adesso, a quel civico di piazza Minghetti c’è un bistrot, perché ormai Bologna è fatta solo di posti dove mangiare (al posto di Naj Oleari c’è una pizzeria)».

Nel frattempo ha smesso d’esser vero: le mie madeleine non sono più rimpiazzate solo da mense di vario tipo. L’ultimo posto a resistere, la mesticheria di piazza Galvani dove le bambine della mia generazione compravano i colori e il Das, ha chiuso l’anno scorso, ora al suo posto c’è un negozio di vestiti d’acrilico. Siamo troppi, è scomparso il gusto, e dobbiamo tutti comprare in continuazione vestiti brutti e cibo sovrapprezzato.

Al posto del cinema porno Ambasciatori, c’è la libreria preferita del ceto medio complessato, col suo bravo Eataly all’interno, e chissà perché quel baluardo culturale in cui i bolognesi andavano a farsi le seghe dopo aver pagato il biglietto nessuno lo rimpiange mai, reliquia di quando si pagava tutto, persino il porno.

Come da titolo originale, il pezzo del New York Times si concentra sull’iconografia porcina nelle vetrine, e sulla quantità di posti che vendono mortadella, ma quella è nient’altro che la mano invisibile del mercato. Quando Stanley Tucci venne a Bologna e andò a mangiare la mortadella col tizio delle Sardine (che, a nominarlo adesso, sembra più recente Ciro Cirillo), ricordo settimane d’indignazione social perché Tucci aveva detto che nella mortadella c’era l’aglio. Se pensate che i romani con la loro ortodossia della carbonara siano noiosi, non avete mai visto i bolognesi.

La cucina bolognese non esiste, ma su questo apriamo un dibattito un’altra volta. Pur non esistendo, è però l’unica attrattiva locale, l’unico orgoglio, l’unica specificità, epperciò: mortadella. Certo che è straniante vedere un posto che fa solo panini alla mortadella aprire succursali in tutto il centro, ma ogni volta che passo davanti a qualche succursale ci sono decine di persone in fila: è difficile resistere al mercato, amore mio.

Io d’altra parte non collaboro alla demortadellizzazione. Qualche sera fa, incuriosita da un articolo di Gastronomika, sono andata a cena in un giapponese che non conoscevamo né io né i miei commensali. Abbiamo mangiato molto bene, ma quando all’inizio la cameriera ci ha spiegato che avevano un solo vino perché loro non sono un ristorante ma un cocktail bar con assaggi di cibo, molti occhi si sono alzati al cielo: maronn’, Bologna quando vuol fare Milano che a sua volta vuol fare New York, e in tutto questo rimbalzo di desiderio mimetico arriva tre giri in ritardo.

Il turista che passa da Bologna preferirà fare la fila per cinque euro di panino alla mortadella o andare a mangiare in un posto che nelle foto per Instagram (l’unica ragione per cui ormai si viaggi) non sembrerà tipicamente bolognese? Il turista medio, che si percepisce viaggiatore perché come bagaglio a mano ha una borsa con stampato il mappamondo, saprebbe distinguere un posto in cui si mangia bene da una trappola per turisti? Certo che no, sennò nove decimi dei ristoranti nel centro di Roma avrebbero già chiuso, e a Venezia ci sarebbero solo i residenti.

Che siamo troppi e troppo privi di gusto e che lo scempio delle città dipenda da questo ben più che da RyanAir è un dato di realtà che nessuno ha voglia di affrontare. Mentre scrivo questo articolo mi arriva la mail d’una lettrice che dice che no, la questione della sovrabbondanza di turismo non è come l’ho descritta l’altro giorno, è che chi ci governa non ci educa con un’offerta culturale – sì, buonanotte.

Ieri mattina, mentre nel mondo leggevano il New York Times, a Bologna leggevano il dorso locale del Corriere, che in prima pagina aveva questo titolo: “Una Cesarina per la Casa Bianca – La rete di cuochi amatoriali nata a Bologna si offre per cucinare al prossimo presidente”. Procedo a leggere convinta si parli della Cesarina, famoso e antico ristorante bolognese. E invece.

E invece, m’informa il Corriere senza mai ridere in faccia alla proposta che sta riferendo, si tratta della «community riunita attorno alla piattaforma cesarine.com, nata a Bologna nel 2004». Quando vedo la parola «community» metto mano alla pistola, ma mi contengo e proseguo nella lettura.

La cuoca della Casa Bianca vuole ritirarsi, e quindi «la proposta di Cesarine prevederebbe la rotazione trimestrale di cuoche e cuochi amatoriali, provenienti da diverse regioni».

Come ogni persona sana di mente, sono svenuta all’idea che non solo sia plausibile che alla Casa Bianca optino per «cuochi amatoriali» (la mia insalata di pesche e pomodori varrà un invio di curriculum?), ma anche che le indagini di sicurezza vengano rifatte ogni tre mesi per far entrare alle dipendenze del presidente dei nuovi dilettanti con la passata di pomodoro in valigia. Ma il Corriere non ride, e insiste.

«Non sta nella pelle Davide Maggi, ceo di Home Food Società Benefit, cui fanno capo la community e la piattaforma: “Siamo entusiasti – conferma – di annunciare la candidatura delle nostre 1.500 Cesarine e Cesarini”». Immagino che non stiano, come si direbbe in frasifattese, nella pelle neanche i servizi segreti americani, che non vedono l’ora di vagliare mille e cinquecento fedine penali a scopo di soffritto.

Spero che al New York Times non si siano persi questo ritaglio del Corriere, e abbiano capito che non la mortadella, non il numero tendente a infinito di posti dove si mangia (male), non le torri e le tette e i tortellini, distinguono Bologna da Milano, Bologna da New York, Bologna da qualsivoglia luogo.

Sempre e solo, a caratterizzare la città rispetto alla quale vorrei variare sui documenti la mia identità, è la mitomania. Specialità locale diffusa anche altrove (Manuel Fantoni e Bruno Cortona sono entrambi romani), ma mai mai mai con la totale, assoluta, talentuosa mancanza di senso del ridicolo che caratterizza la nostra più mortadellosa mitomania di provincia.

(Paolo D’Andrea)

«A Davigo ricordo: le prove si acquisiscono in dibattimento, non prima. Il resto è fuffa» (ildubbio.news)

di Giovanni Maria Jacobazzi

Parla Pieremilio Sammarco, avvocato e ordinario 
di diritto comparato all'Università di Bergamo

«E se Giovanni Toti al termine del processo risultasse innocente? Che succede? Nessuno mi pare porsi questa domanda», afferma Pieremilio Sammarco, avvocato e ordinario di diritto comparato all’Università di Bergamo.

Professor Sammarco, sull’istituto della custodia cautelare in questi giorni si è nuovamente scatenata la polemica politica. Qualsiasi tentativo di riformarla, come ha proposto il deputato di Azione Enrico Costa, è visto come un salvacondotto per i “famigerati” colletti bianchi.

La vicenda di Toti è emblematica e allo stesso tempo sconcertante: per mezzo di un provvedimento cautelare emesso da un solo giudice si è paralizzata, fino all’abbattimento, una giunta regionale votata da oltre 700mila persone. In caso di una sua assoluzione, come gli auguro, chi è responsabile? E soprattutto chi paga il costo dell’indizione di nuove elezioni? Nel primo caso, nessuno, nel secondo la collettività.

Soluzioni?

A mio avviso, per gli amministratori delle Regioni e delle città, andrebbe sospesa, per tutta la durata della carica, l’imputabilità per i reati connessi alla funzione svolta.

La presunzione di innocenza è garantita nel nostro Paese?

Purtroppo, constato che non solo non è garantita, ma il principio è stravolto. Vi è una presunzione di colpevolezza, ancor prima dell’inizio del processo. Penso alle conferenze stampa dei procuratori della Repubblica, ai servizi televisivi, agli articoli di stampa, per non parlare di quello che si legge sui social media. Pensiamo al caso di un innocente accusato di un reato che deve affrontare un pubblico ministero “mediatico”: per forza di cose è destinato a soccombere in questa lotta impari. Mi piace ricordare la frase di Larivière, autore del pamplet “Il circo mediatico- giudiziario”: “Il contatto con un’imputazione giudiziaria crea una sorta di malattia che, quando finalmente se ne viene a capo, lascia l’ammalato molto, molto debole”.

Piercamillo Davigo ieri sul Fatto Quotidiano ha criticato aspramente la riforma della custodia cautelare. Un commento?

Ho letto attentamente l’articolo di Davigo e, al di là, della sua volontà di stupire con frasi ad effetto, nel merito gli ricordo solo un principio cardine del nostro processo che sembra aver dimenticato: le prove si acquisiscono nel dibattimento con le dovute garanzie per l’imputato e non prima o al di fuori di esso. Il resto è folclore.

Come vede l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio?

Il mio giudizio è senz’altro positivo. Si trattava di una fattispecie di reato che prevedeva una condotta così fumosa ed astratta che ha prodotto effetti negativi nella pubblica amministrazione, incutendo negli amministratori pubblici il terrore della firma, provocando uno stallo, se non talvolta una paralisi, delle attività per non incorrere in problemi giudiziari.

Perché ci sono ancora tutte queste resistenze, soprattutto da parte della magistratura associata?

Conosco personalmente molti magistrati, i quali, per le ragioni esposte, sono favorevoli a questa abolizione; l’Anm è solo una voce, seppur rappresentativa, che si è dichiarata contraria; forse perché vuole mantenere il predominio dell’ordine giudiziario sulle attività della politica.

È vero, come affermano alcuni giuristi, che senza peculato per distrazione sarebbe rimasto un vuoto di sanzionabilità a causa dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio?

Non mi trova d’accordo. La verità è che le norme che prevedono i reati contro la pubblica amministrazione sono ormai diventate un bizantinismo giuridico che si prestano alle interpretazioni più svariate da parte della giurisprudenza. Si pensi che la Cassazione ancora si sta arrovellando – senza trovare soluzione – nel descrivere la differenza tra il reato di tentata corruzione e istigazione alla corruzione.

È necessaria una riforma complessiva dei reati contro la Pa?

Per le ragioni che dicevo, ritengo che sia improcrastinabile. Occorre eliminare o riformulare le norme che prevedono condotte così vaghe e indefinite che non garantiscono alcuna certezza del diritto e soprattutto prevedibilità in merito ai giudizi dei Tribunali. Mi riferisco al reato di traffico di influenze illecite, alle ipotesi del concorso esterno, al voto di scambio e così via.

Il piccolo incubo del carnevale antifascista (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

La tenacia con cui si chiede, si rivendica, si esige, che fascisti, neofascisti e postfascisti si dicano antifascisti richiama alla memoria una scena segnata dall’infamia e dalla tragedia

Credo di capire le buone intenzioni dei sinceri democratici che non fanno passare sera senza chiedere, rivendicare, esigere, da fascisti, neofascisti, afascisti e postfascisti al governo, di dichiararsi antifascisti. Le buone intenzioni urtano frontalmente contro la logica, e la politica si concede molte deroghe alla logica, alla morale e al resto.

Quella insistita domanda è retorica, certo, e non basterebbe che ricevesse la risposta auspicata, perché la faccia tosta è capace di tutto, e bisognerebbe interpretare con che risolino, e in che tono, e con quale ammiccamento, la frasetta sia stata pronunciata.

Ma quella insistita domanda mi richiama alla memoria una scena segnata dall’infamia e dalla tragedia, e il destino delle tragedie, oltre che di ripetersi in farse, è di ripresentarsi alla rovescia ridicolmente come in un perfetto carnevale. La scena è quella di un uomo, un lavoratore, un operaio, un bracciante, un professore, socialista, comunista, anarchico, cattolico, liberale, circondato da un manipolo di squadristi che gli legano le mani e il fondo dei calzoni e lo ingozzano di olio di ricino, e sghignazzano e gli urlano: “Di’ che sei fascista.

Di’: io sono fascista!” Ecco, nella versione del carnevale, ci sono persone beneducate e contegnose che dalle seggiole di una conversazione televisiva o dalle colonne di un giornale o da tutti gli altri luoghi deputati alla rivelazione di sé (quando non era carnevale c’erano pennelli, secchi e muri notturni, e uno a fare il palo) che chiedono, rivendicano, esigono dai fascisti, neofascisti, afascisti e postfascisti, di dire: “Io sono antifascista!” La legge del carnevale poi era di durare poco, e cedere alla resa dei conti. Che paragone del cazzo, direte. Infatti. Non è un paragone, è un incubo piccolo e passeggero.

Un cattivo ricordo.

Un promemoria per avvertire che, qualunque dichiarazione di antifascismo facessero le personalità suddette, non toglierebbe niente al fatto che sono andate al governo, secondo legge e costituzione, tre quarti di secolo dopo la liberazione.

E che la tenacia con cui si chiede, si rivendica, si esige, che si dicano antifascisti, somiglia alla proverbiale postura (ecco, per una volta ho usato anch’io questa paroletta irresistita) secondo cui: Ce le hanno date, ma gliene abbiamo dette!

Il ministro Sangiuliano silura il social media manager: le gaffe può farle solo lui senza dimettersi (ilriformista.it)

di Giovanni Pisano

La vendetta senza senso

Lo avevo anticipato che la colpa dell’ultima gaffe del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano sarebbe stata attribuita al social media manager di turno.

Ma ancora una volta il ministro di Fratelli d’Italia commette l’ennesima errore con un messaggio sui social successivo.

Sangiuliano silura il social media manager: “Accettato dimissioni”

“L’errore sul profilo Instagram relativo alla nascita del Comitato nazionale “Neapolis 2500” evidentemente è del mio social media manager. Per questo ho accettato le sue dimissioni”. Queste le parole di Sangiuliano che asfalta il suo collaboratore, accettando le dimissioni per un errore commesso. Peccato che di errori il ministro della Cultura, senza scaricare le colpe sui suoi social media manager, ne ha commessi tanti aprendo semplicemente la bocca.

Le gaffe le può fare solo il ministro

Tutte le gaffe le abbiamo ricordate qui. La domanda sorge spontanea: come mai l’ex direttore del Tg2 non ha mai pensato a un passo indietro? Non era forse meglio lavare i panni sporchi in famiglia senza portare sulla graticola il social media manager (per i lettori resterà anonimo ma tra gli addetti ai lavori il nome già circola…) o respingere le dimissioni (senza ovviamente farlo sapere).

Un ministro poco garantista Sangiuliano nonostante imprecisioni, gaffe e svarioni che hanno minato il suo percorso alla guida del ministro della Cultura. Dopo l’episodio di oggi l’unico che può sopravvivere ad ogni gaffe è proprio Sangiuliano.

L’associazione Nazionale Social Media Menager annuncia approfondimenti: “E’ offensivo scaricare la colpa pubblicamente e unicamente su un dipendente per un errore del genere e per questo addirittura farlo dimettere. Approfondiremo la questione”.

L’ultima gaffe sulla nascita di Napoli

Se per il governatore campano Vincenzo De Luca è il ministro della cerimonieGennaro Sangiuliano rischia seriamente di passare in questa attuale legislatura come il ministro della gaffe sulla Cultura, dicastero che presiede dalla nascita, nell’ottobre 2022, del governo Meloni.

L’ultima è davvero suggestiva anche se, probabilmente, la responsabilità verrà data al social media di turno. Sui social Sangiuliano pubblicano una sua foto con alle spalle il Vesuvio e la scritta: “Il Consiglio dei ministri vara il comitato per celebrare 2 secoli e mezzo di Napoli”.

Gaffe Sangiuliano: colpa del social media…

Napoli però non festeggia 250 anni ma 2500, ovvero due millenni e mezzo. Un errore prontamente rimosso e corretto con “2500 anni” e, soprattutto, il blocco dei commenti per evitare facili ironie. Quella di oggi è solo l’ultima di una lunga serie di strafalcioni del ministro.

Anzi forse quella di oggi non è diretta responsabilità del ministro che ha uno staff a disposizione che cura comunicazione e social e che in queste ore avrà avviato una “indagine interna” per scovare il responsabile…

La storia infondata dei presunti «massimi esperti» e i vaccini Covid come «armi biologiche» (open.online)

di Juanne Pili

FACT-CHECKING

I presunti esperti sono noti per aver diffuso teorie infondate, come in questo caso

Riscontriamo diverse condivisioni di un video dove si sostiene che presunti esperti, i quali avrebbero fatto delle «dichiarazioni giurate» in tribunale o in audizione parlamentare, confermerebbero diverse teorie infondate sui vaccini contro il nuovo Coronavirus. Abbiamo già trattato numerosi esempi in articoli precedenti. Stavolta torniamo in particolare al tema cospirativo, circolante anche negli ambienti No vax, dei vaccini (chiamati impropriamente «sieri») intesi come «armi biologiche», o addirittura «armi di distruzione di massa».

Analisi

Il genere di condivisioni di cui trattiamo in questo articolo – in cui si paragonano i vaccini Covid alle armi biologiche -, potrebbero introdurre la clip in oggetto con didascalie come la seguente:

CLAMOROSO! I tre massimi ESPERTI mondiali fanno dichiarazioni giurate in tribunale provando che i sieri covid-19 NON SONO VACCINI, ma SONO ARMI BIOLOGICHE e armi di distruzione di massa! Ridicolizzate le sentenze della Corte Costituzionale Italiana

Un altro esempio:

La questione degli “studi”

Dietro tali «dichiarazioni giurate» non ci sono esperti della materia (come vedremo a breve), né citano revisioni sistematiche o meta-analisi, ovvero articoli scientifici che studiano la letteratura di settore per un determinato argomento (ci scusiamo se abbiamo semplificato troppo).

Visto che questo genere di contenuti trasuda lacune su cosa sia una evidenza scientifica, è bene ricordare l’ABC. Può capitare infatti di trovare nel Web contenuti simili, dove vengono citati singoli studi – o presunti tali -, che da soli non possono certo ribaltare quel ch’è emerso in seno all’intera comunità scientifica.

Chi sono presunti esperti

Non entriamo nel merito dei veri o presunti meccanismi giudiziari americani citati nel filmato, perché sono scientificamente irrilevanti. Chi sono gli autori di queste dichiarazioni giurate? Vediamo in ordine di comparizione Francis Boyle (le nostre precedenti analisi qui qui), Joseph SansoneKaren Kingston e Ana Mihalcea.

Nei link associati a ogni nome verrete reindirizzati ai relativi articoli dei colleghi e/o nostre precedenti analisi, dove si mostra che si tratta di personaggi i quali non presentano reali prove a sostegno delle loro tesi.

Infatti, sono noti per precedenti ossessioni cospirative sui vaccini Covid (Boyle è tra i primi a paragonarli alle armi biologiche). In generale queste persone sembrano prediligere i cavilli legali alle reali evidenze scientifiche.

Conclusioni

Consapevoli che l’uso di termini come siero o arma biologica sia errato per definire i vaccini anti Covid, il video in oggetto e le dichiarazioni dei presunti esperti non vengono dimostrate.

Le dichiarazioni giurate, se non supportate da prove scientificamente concrete, non hanno valenza scientifica.