L’imbarazzante distanza politica dell’Italia dall’offensiva ucraina in Russia (linkiesta.it)

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Fuori dall’Europa

Il governo Meloni ha immediatamente condannato l’attacco di Kyjiv sul territorio russo, nonostante l’Ue abbia sostenuto l’iniziativa militare.

Il rischio è che questo sia l’antipasto di un riposizionamento strategico, magari aspettando Donald Trump alla Casa Bianca

L’Ucraina che doveva cadere tre giorni dopo l’invasione dei carrarmati di Vladimir Putin, due anni e mezzo dopo è entrata lei in territorio russo. Il mondo libero dovrebbe esultare.

O perlomeno solidarizzare con la controffensiva di Kyjiv che in appena venti ore ha strappato ai russi tanto suolo quanto all’incirca essi ne hanno occupato nel corso di un’intera offensiva. Un blitz fulmineo che ha scatenato la rappresaglia russa nel Donetsk facendo morti e feriti ma l’offensiva ucraina non si è fermata.

La guerra è entrata in una nuova fase delicatissima e drammatica. Giustamente l’Unione europea a trazione democratica e antisovranista è a fianco dell’Ucraina – legittimo l’ingresso sul territorio russo –, con la Germania che ha assunto una posizione chiara: «Noi abbiamo dato le armi, l’Ucraina le usa come crede».

L’Italia invece è tornata l’Italietta che quasi chiede scusa per aver inviato armi a Kyjiv, armi per difendersi, armi che per carità non vengono utilizzate sul suolo russo: già, s’immagini un capitano ucraino in battaglia dire al suo sergente di non usare quelle armi perché sono italiane.

E allora c’è da chiedersi perché mai il ministro della Difesa Guido Crosetto, finora coerente con il pieno sostegno alle truppe ucraine, abbia detto che «nessun Paese deve invadere un altro Paese, è un principio generale valido non solo per la guerra in Ucraina».

Come se la controffensiva sul suolo del nemico fosse vietata. Come se gli Stati Uniti non avessero invaso la Normandia senza dimenticare, ha fatto notare l’analista Nona Mikhelidze, responsabile  di ricerca presso l’Istituto Affari Internazionali, che «l’Unione Sovietica, per difendersi, invase (giustamente) la Germania nazista».

Dice Crosetto che «se vogliamo arrivare alla pace non possiamo incentivare passi ulteriori di guerra che portino a un conflitto ancora più duro». Ma più duro de che? Qui la questione non è militare ma politica. Non si tratta solo della tradizionale cautela di Crosetto, un ministro che si ritrova in un governo pieno di amici di Putin e che spesso – secondo esponenti di primo piano dell’opposizione – parla troppo.

Molto duro il senatore democratico Filippo Sensi: «Passi indietro del governo italiano nel sostegno al diritto alla difesa ucraino sono un pessimo segnale. Per l’Europa, per la tenuta della coalizione internazionale che sostiene la resistenza dell’Ucraina contro la brutale aggressione russa. Intollerabile un nostro disimpegno».

Infatti il punto è che per la prima volta sull’Ucraina emerge una posizione italiana diversa da quella europea. Dal giorno in cui Giorgia Meloni votò contro la conferma di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea l’Italia si distingue dalla Ue con troppa facilità. È un fatto nuovo.

E il sospetto più inquietante è che le parole di Crosetto, al netto del suo protagonismo personale, preludano a un cambio di politica internazionale magari aspettando Donald Trump alla Casa Bianca, il vero spettro mortale che aleggia sulla testa del popolo ucraino. Ma se è così è bene che il Paese lo sappia.

Se stiamo mollando Kyjiv, anche per ragioni di facile ricerca di consensi, il governo lo dica chiaramente. O taccia.

Le Olimpiadi perse da un certo modo di fare giornalismo sportivo in Italia (valigiablu.it)

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L’Italia dello sport sta facendo indubbiamente 
una bella impressione ai Giochi Olimpici, 

ed è un peccato non sia sempre raccontata con la dovuta serietà e competenza da parte degli addetti ai lavori.

"Ti aspetti Biles, vince D'Amato: dietro la divina sorpresa c'è la forza morale delle donne italiane". Il titolo, discutibile, di un articolo di Aldo Cazzullo esemplificativo di come il giornalismo sportivo ha coperto le Olimpiadi di Parigi.

Essere giornalisti sportivi, nel nostro paese, non è un mestiere semplice, ma la situazione non può non sembrare paradossale nel momento in cui troppo spesso si leggono sui quotidiani articoli di penne illustri che abbondano di superficialità e retorica. Purtroppo, le ultime settimane ci hanno regalato non pochi casi di questo tipo, ultimo dei quali un articolo di commento di Aldo Cazzullo sulla medaglia d’oro della ginnasta Alice D’Amato.

Nella chiusura del pezzo, il giornalista del Corriere della Sera scrive che questo successo, unito al cammino della squadra femminile di volley, testimonia non solo la crescita della scuola italiana nella ginnastica, ma è anche “la conferma della forza morale delle donne italiane”.

Una bella frase, a sentirsi, ma totalmente svuotata di significato: quale sarebbe questa “forza morale” che caratterizza le “donne italiane” (si badi bene: non le atlete, ma le donne in generale) rispetto a quelle di altri paesi, che di certo non sono da meno in termini di medaglie nelle più svariate discipline?

Si potrebbe pensare, per esempio, all’eccezionalità della brasiliana Rayssa Leal, che a soli 16 anni ha già partecipato a due edizioni dei Giochi, vincendo un argento a Tokyo e un bronzo a Parigi nello skateboard. Brasiliana come Rebeca Andrade, oro a Tokyo nel volteggio e, quest’anno, nel corpo libero, davanti a Simone Biles.

L’uso delle parole di Cazzullo desta delle perplessità: se si fosse parlato di forza “mentale” si sarebbe potuto comprendere (sebbene, anche in questo caso, la questione andrebbe un po’ smitizzata, come proprio Biles ha fatto capire in passato).

Ma da quando in qua il successo sportivo è indice di “moralità”, qualunque cosa si intenda con questo termine? Nell’articolo in questione non ci sono considerazioni tecniche di alcun tipo, non c’è nulla che uno spettatore non avrebbe potuto carpire dalla visione della gara.

Cosa aggiunge un giornalismo sportivo di questo tipo? Ci si sofferma, invece, su dettagli da retorica nazionalista vecchio stampo, come D’Amato – cinque volte su sei chiamata solamente “Alice”, senza cognome – che canta “emozionatissima” e “in sussurri” l’inno di Mameli, “con la mano sul cuore”. Cioè, allo stesso modo della maggior parte delle atlete e degli atleti, italiani e non solo.

Moralità e cattiveria

La vacuità di questo commento è addirittura amplificata da un altro pezzo di Cazzullo uscito solamente il giorno precedente, e dedicato all’oro vinto da Novak Djokovic nel tennis. Anche in questa occasione, l’articolo si conclude con un riferimento ambiguo alla “forza morale” del serbo, che dovrebbe essere “una lezione per tutti noi”.

L’ossessione per la moralità degli atleti, trasmessa e dimostrata in modi imperscrutabili dai successi sportivi, diventa un motivo ricorrente e una narrazione di comodo, una facile scappatoia da discorsi più prettamente incentrati sul lato sportivo.

Parlando di Djokovic emerge però anche un altro tratto distintivo del commento olimpico di Cazzullo: l’esaltazione della “cattiveria” come elemento distintivo del campione, anche se poi lo stesso autore non sa descrivere in cosa consista questo concetto, e riesce solamente a elencare cosa non è.

La stessa retorica era stata usata in un precedente articolo sugli schermidori italiani di Parigi, ritenuti molto bravi ma, come difetto, “troppo bravi ragazzi”. Li contrapponeva ai colleghi del passato, citando due esempi alquanto spiazzanti. Di Paolo Milanoli, Cazzullo non citava i successi, ma il fatto che combattesse “duelli al primo sangue in una palestra buia”, compiacendosi del fatto che, essendo la scherma un’uccisione metaforica dell’avversario, “meno metafora è, più si vince”.

A proposito di Stefano Cerioni, il giornalista del Corriere della Sera ricorda invece con altrettanta malcelata simpatia come “da ct finì nei guai per un video in cui sottoponeva una matricola a un fastidioso rito iniziatico”. Questo culto della crudeltà del guerriero non si capisce in che modo possa sposarsi con l’esaltazione della “moralità” fatta pochi giorni dopo.

Sta di fatto che Daniele Garozzo, che nel fioretto ha vinto un oro a Rio e un argento a Tokyo, ha replicato all’articolo segnalandone la retorica come “fuori luogo e anacronistica”, ma soprattutto “diseducativa”.

Garozzo non è stata la prima persona del mondo dello sport a dimostrare, nelle ultime settimane, una sensibilità completamente opposta a chi invece commenta sui media, come ha dimostrato il caso tra Pilato e Di Francisca (anche se, ovviamente, in questo caso pure la seconda è stata un’atleta).

La retorica della cattiveria agonistica sembra oggi molto più radicata tra chi parla e scrive di sport che tra chi invece lo pratica, con conseguenze che dal piano atletico si spostano su quello comunicativo.

Julio Velasco, leggendario allenatore di volley italo-argentino, già alle Olimpiadi di tre anni fa aveva centrato il punto, commentando le critiche ingenerose che già all’epoca Di Francisca fece alla scherma italiana: “Sembra che adesso cercare di essere buono è un difetto. Adesso risulta che uno che cerca il bene è un idiota, un buonista, che non è sincero, che è falso”.

L’assenza di cultura sportiva si nota con sempre maggiore evidenza nel giornalismo di settore, che non tra gli atleti, generando spesso un circolo vizioso: gli atleti competono, ma non fanno opinione con le proprie parole; il giornalismo, invece, insegna ai tifosi questa cultura distorta.

Lo ritroviamo nelle domande aggressive e spesso provocatorie che Elisabetta Caporale ha spesso fatto agli atleti durante i collegamenti Rai da Parigi di questi giorni, oppure in precedenza da un articolo di Massimo Gramellini in cui accusava gratuitamente Sinner di essere un talento “più costruito che naturale” (altra retorica priva di senso, da cui chiunque scrive di sport dovrebbe tenersi alla larga).

Un giornalismo senza medaglie

L’Italia tornerà certamente soddisfatta da Parigi, sul lato sportivo, ma su quello giornalistico è stata sconfitta (quasi) su tutta la linea. Quest’anno si è visto un forte scollamento tra chi lo sport lo pratica e chi lo racconta, specialmente sui grandi quotidiani (ma ormai, nel giornalismo sportivo, la tendenza generale è questa: qualità e competenza si stanno spostando sempre più sull’online e sulle testate indipendenti, e sono spesso sottopagate, se non del tutto volontarie).

Ne è un esempio abbastanza evidente il discusso titolo di La Repubblica sulla squadra della scherma femminile, “Le 4 regine: l’amica di Diletta Leotta, la francese, la psicologa e la veterana”: in seguito alle polemiche che ne sono seguite, il titolo è stato riscritto, cambiando “l’amica di Diletta Leotta” con “la musicista”.

Questa superficialità si ripercuote a più livelli della narrazione, come si è visto anche nel caso della pugile algerina Imane Khelif, che quasi ogni testata italiana ha definito come “trans” senza un minimo di approfondimento e verifica. Il nostro giornalismo sportivo si è fatto trovare del tutto impreparato nel discutere di una questione che è tanto sportiva quanto politica.

Dovremmo domandarci a cosa serve un giornalismo sportivo così incapace di raccontare lo sport di oggi, sia a livello culturale che nelle sue problematiche sociali. E com’è possibile che le sue firme più prestigiose – quelle che hanno il privilegio di poter fare opinione e di parlare a un vasto pubblico – sembrino oggi così fuori dal mondo che sono pagate per raccontare.

Il prima citato Aldo Cazzullo ha seguito come inviato sei edizioni dei Giochi Olimpici e altrettante dei Mondiali di calcio: non è certo l’ultimo arrivato del settore.

Eppure è difficile capire, oggi, a chi vogliano parlare i suoi articoli.

Misure necessarie per il disagio mentale dietro le sbarre (ilsole24ore.com)

di Robero Galullo

Il problema, non emergenziale ma strutturale.

È poco censito e affligge oltre il 40% dei detenuti

Nel dibattito ricorrente sulle condizioni nelle quali la popolazione carceraria è condannata a sopravvivere c’è sempre un convitato di pietra: il disagio mentale. L’emergenza psichiatrica negli istituti di pena – che colpisce i reclusi ma si riflette su direttori, agenti, funzionari giuridico-pedagogici, personale medico e volontari – è presenza incombente ma invisibile, che tutti conoscono ma che pochi nominano.

Per molti analisti, esperti e politici, l’argomento è tabù perché, a 11 anni dalla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e di fronte all’agonia delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza – che ne hanno preso il posto –, nessuno o quasi sa cosa fare.

Eppure, nel manuale del 2009 sui detenuti con bisogni speciali, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, ha identificato a livello mondiale otto gruppi di detenuti con bisogni speciali motivati da una situazione di particolare vulnerabilità: al primo posto ci sono quelli con bisogni (al plurale) di assistenza psichiatrica.

Poco o nulla è cambiato negli ultimi anni. Anche perché – nella rimozione del problema che non è emergenziale ma strutturale – molto incide il fatto che le statistiche per i detenuti con bisogni di assistenza psichiatrica non sono raccolte in modo sistematico.

E così nessuno sa in realtà quanti siano i reclusi con disagio mentale e psichiatrico e il loro tasso di gravità. Nell’ultimo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione si legge che il disagio mentale è maggiore tra le donne che tra gli uomini.

Le recluse con diagnosi psichiatriche gravi rappresentavano, negli istituti visitati dall’Associazione, il 12,4% delle presenze, contro il 9,2% della rilevazione complessiva. Le donne che facevano regolarmente uso di psicofarmaci rappresentavano il 63,8% delle presenze, contro il 41,6% complessivo.

Può, dunque, quel dato complessivo – 9,2 diagnosi psichiatriche gravi ogni 100 detenuti – essere attendibile? Assolutamente no, perché se così fosse – su una popolazione che oggi oscilla intorno alle 61mila presenze contro una capienza massima di 51.234 posti – ci sarebbe poco o nulla da preoccuparsi. Invece – come ricorda Antigone – «sta diventando un carcere di matti».

Le Aziende socio-sanitarie – che dovrebbero gestire l’area sanitaria negli istituti – raramente assumono o convenzionano psichiatri a tempo pieno e sfuggono alle diagnosi migliaia di casi. L’aleatorietà di alcune statistiche, di fronte alla nuda realtà, è testimoniata anche da quanto scrive il magistrato Roberta Palmisano – ex direttore dell’Ufficio studi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – nel n. 3 del 2015 di «Rassegna penitenziaria e criminologica». Palmisano ricorda che uno studio che coinvolse sei regioni sui bisogni di salute di 16mila detenuti (1/3 della popolazione penitenziaria di allora) rivelò che il problema della salute mentale affliggeva oltre il 40% dei detenuti.

I numeri, dunque, dicono poco se non hanno alla base sistematicità, impegno continuo nella raccolta, capacità di analisi e progettualità, oltre alla realizzazione delle strutture previste, la formazione degli operatori, l’ingresso di figure preparate (e non che siano agenti o funzionari giuridico-pedagogici ad affrontare le patologie) e sponde politico/sociali.

È ancora il lavoro di Antigone – nell’aggiornare le schede dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione – a svelare le troppe falle del sistema. Leggiamo cosa dicono quelle di Bolzano e Reggio Calabria. Nord e Sud.

Partiamo da Bolzano. Alla voce “Numero settimanale complessivo di ore di presenza degli psichiatri” la risposta è «non disponibile». Stessa risposta alle voci “Quante persone presentano diagnosi psichiatriche gravi?” e “Persone con diagnosi psichiatriche gravi”. Infine, non esiste un’articolazione per la salute mentale o un reparto per i detenuti con infermità psichica.

Nella casa circondariale Panzera di Reggio Calabria, il Reparto di osservazione psichiatrica, che prevede al massimo la presenza di 5 detenuti, è stato definitivamente chiuso e in attesa di lavori di ristrutturazione per spostarci alcuni ambulatori.

È ora che il convitato di pietra diventi visibile a tutti. A partire dalla politica.

(Nathan Wright)

Bologna 2021-26. Lepore e NYT sui social (diario.world)

Consumi

Michele Pompei

cara Emily Clancy, un tal Lepore, che fa il sindaco in questa città, ha pensato bene di lanciare una shit storm contro una brava giornalista e sinologa che si chiama IlariaMaria Sala.
Le parole a sproposito di tal Lepore, a cui i genitori non hanno evidentemente mai insegnato che dissentire è un diritto e che attaccare una persona dall’alto della sua carica è cosa da non farsi, mai, confermano il basso profilo di che le ha scritte.
Nulla di nuovo.
Ma visto che queste parole, sai, basta poco, hanno un peso, queste sono state sufficienti a scatenare i coloriti anatemi con i quali la giornalista e sinologa Ilaria Maria Sala è stata bersagliata e continuerà ad essere bersagliata nelle prossime ore.
Siccome so che ti sta a cuore il rispetto delle donne e che sei vicesindaca in quella che vorrebbe essere la città più femminista, se non del mondo, se non di europa, se non dell’emilia romagna, almeno della provincia bolognese, potresti ricordare a tal Lepore di abbassare i toni e di contare fino a 43 mila prima di scrivere ciò che non avrebbe mai dovuto scrivere? Così magari qualcuno evita di dare della troia ad una giornalista, solo perché ha fatto il suo lavoro?
Potrebbe essere un'immagine raffigurante il seguente testo "Ilaria Maria Zucchina 2h・ … chiamata Il sindaco è indignato contro una "tale Maria Sala"!! Screditiamo l'autrice invece di leggere quello che scrive!! sul mio Instagram vengo una "vegana di merda" e una "troia idiota". Fin'ora ho cancellato e bloccato. Adesso fotografo e blocco. Ho molti, molti difensori, ma un sindaco che scrive così a una sua concittadina? Perché non vuole sentire opinioni diverse dalla sua? esempio di democrazia, sindaco Matteo Lepore Grande"
Grande Ilaria! Sul resto del carlino il sindaco di Bologna si è lamentato del tuo articolo dimostrando che non sa leggere e dimostrando che non sa cosa succede a Bologna (io ci vivo tutt’ora!)
I’m a local tour leader, Bologna was not ready for this assault. A lot of new eateries and food shops with questionable quality.But there still are genuine trattorie, Michelin star restaurants,local markets, hand made pasta and great stories. Great espresso and the best gelato you can imagine. I’m sure that Ilaria wants to push us in right direction and is exactly what I will do. See you in Bologna!
Il destino di tutte le città italiane ridotte a macchietta culinaria, un incubo! Brava ilaria
Direi che è un articolo ridicolo, Bologna in questo momento ha un sacco di scelte culinarie e anche di cultura e divertimento , magari potrebbe venire a vedere visto che vive ad Honk kong . Bologna è una città viva e ed per tutti. Vegani e non.
Very very true, as a fellow Bolognese living abroad I have seen as well this kind of change. A lot of the places I loved when I was a kid are now infested with tons of tourist and this senseless TikTokfoodchains. All the tourists taking pictures of what they eat and not of the beautiful city….
Ho letto l’articolo sulla nostra città, lei, evidentemente, non ha idea dell’offerta che c’è oggi nel centro di Bologna …dalle offerte più turistiche alle più selezionate come il tagliere dei Salsamentari De.Co., noi facciamo salumi dal 1242…si informi, poi parli….
Bell’articolo. I turisti arrivano senza sapere NULLA della città. Non si informano. Ho una cantina ad Imola e li vedo arrivare in visita da noi…annoiati dopo due giorni passati a Bologna a mangiare e dopo sazi non sanno più cosa fare ! Assurdo.
This article makes me truly mourn for a Bologna of a decade+ ago, and sadly one I never experienced. Although I admit that fried tortilla sound dangerously more-ish.
A monte di questo processo c’è la volontà dell’amministrazione di aver investito nello sviluppo ‘facile’ incentrato sul turismo come monocultura e qualche scampolo di azienda tecnologicamente all’avanguardia come il tecnopolo in fiera. La città si è poi adeguata, l’università diventata un diplomificio, il centro mangiato da negozi usa e getta e la perdita di tutti i centri sociali che arricchivano politicamente la città, che grazie a loro era una vera avanguardia ideologica. Ma questa bolla è destinata a scoppiare, covid docet.
Davvero ben scritto. Temo purtroppo sia un destino condiviso da molte altre città. Avevo scelto di visitare Bologna circa 8 anni fa per festeggiare i miei trent’anni, e l’ avevo trovata così viva e affascinante. Da vegana adesso mi lascia esterrefatta la dissonanza cognitiva con la quale si raffigura il maiale che serve se stesso…ma anche questo non solo a Bologna..
purtroppo c’è una politica che preferisce attaccare chiunque osi gettare ombre anche indirette sul “palazzo”. Molto più facile fare i permalosi che analizzare i problemi. Articolo impeccabile, ma come sempre se sollevi un problema diventi il problema. Bologna sta perdendo tanto della propria identità, e non è solo colpa di Lepore, è un destino innegabile che sta toccando inesorabilmente a qualsiasi meta preda del turismo. Interrogarsi è d’obbligo.
Trovo francamente grotteschi i toni usati dal Sindaco Lepore contro l’articolo del New York Times.
Lepore si ricorda ora che Bologna è “cultura”, che a Bologna c’è “l’università”….
Per chi avesse la memoria corta, ripubblico sotto un articolo del 2014: l’allora assessore Matteo Lepore in delegazione a New York andò ad illustrare la scelta di legare la promozione di Bologna nel mondo al cibo. Bologna come “City of Food”.
Potrebbe essere un'immagine raffigurante pasta e testo Un “brand” di cui faceva parte il grande progetto”FICO”( che si è visto come è andato a finire).
Potrebbe essere un'immagine raffigurante testoPotrebbe essere un'immagine raffigurante testo
Invece di fare autocritica, e di riconoscere che l’idea di promuovere Bologna nel mondo come “City of Food” è stata un errore, Lepore si scaglia contro chi si limita a evidenziare le conseguenze della scelta fatta, ovvero che la città è ridotta a un ” mangificio”.
Ricordo en passant che a Bologna oggi c’è un bar/ristorante ogni 30 abitanti.

Bologna 2021-26 – «Invece di risolvere mi discredita» (corriere.it)

di F. P.

Bologna

«Mi rammarica molto che il mio sindaco, sentendosi offeso e chiamato in causa da un articolo che ho scritto per il New York Times non si sia nemmeno premurato di trascrivere il mio nome per intero e che invece di affrontare quello di cui scrivo, scelga di discreditare me e mettere in dubbio la mia provenienza e la mia competenza a scrivere quello di cui scrivo».

Inizia così la lunga risposta di Ilaria Maria Sala al sindaco Lepore.

«È vero, abito a Hong Kong. Faccio parte delle centinaia di migliaia di italiani che abitano all’estero, fra i quali ci sono molti bolognesi. Malgrado questo, passo ogni anno diverso tempo a Bologna, la mia città, dove sono cresciuta: questo mi rende più sensibile ai cambiamenti rapidi e a mio giudizio negativi che l’hanno modificata, dato che certe differenze si notano con maggiore intensità quando, dopo un periodo di distanza, si torna a casa. Tutte cose sottolineate con enfasi anche dai miei amici che risiedono a Bologna tutto l’anno. Peraltro moltissimi articoli scritti in italiano su giornali italiani dipingono un quadro molto più nero».

E la domanda. «Cosa fa Palazzo d’Accursio per governare l’over ourism? Non si può far finta di non vedere quanto il centro città sia svilito». «Molto cordialmente, la sua concittadina Ilaria Maria Sala».

Leggi anche: Un articolo del New York Times ha fatto arrabbiare il sindaco Lepore

(New York Times)

La Dotta è troppo Grassa: parola di NYT (corriere.it)

di Francesco Rosano

Il New York Times ha fatto indigestione della
 «City of food». 

Per il quotidiano statunitense, che negli scorsi anni ha spesso tessuto le lodi di Bologna, la città è ormai «un inferno turistico».

Un marchio pesante, che conferma come i problemi emersi negli ultimi anni (overtourism, affitti brevi, ristorantini di taglieri e così via) abbiano raggiunto un punto di non ritorno.

(Foto: Gregorio Dimonopoli )

D’altronde l’amaro ritratto della città è scritto da una giornalista nata a Bologna, Ilaria Maria Sala, che ha visto con i propri occhi la metamorfosi. «Poco più di dieci anni fa Bologna non era considerata una grossa destinazione turistica», si legge sul Nyt, ma «le compagnie low cost, gli affitti brevi e i social» l’hanno trasformata «in una vera e propria città turistica dove è meglio evitare le strade principali».

Colpa dei proprietari che hanno convertito gli appartamenti in affitti brevi «allontanando gli studenti dall’università». Mentre in centro proliferano i pubblici esercizi dedicati alla mortadella, consumata in «quantità tali da intorpidire la mente e inibire il battito cardiaco».

Della Dotta, Grassa e Turrita — conclude il quotidiano — è rimasto poco: «Gli studenti sono stati sradicati e la Torre è nei guai. Solo il grasso regna sovrano».