Tristestate, quando le playlist si chiamavano compilation (rivistastudio.com)

di Federico Sardo

Estate

Tredici canzoni rippate da tredici cd per raccontare come si diffondeva la musica quando Spotify non c’era.

Quando la redazione di Rivista Studio mi ha chiesto di selezionare «una canzone, un libro o un film “dell’estate”, che non siano però troppo scontati» mi è venuta vagamente in mente una frase, che ho recuperato più precisamente solo in seguito. La frase era “canzoni tristi, ma belle. Estive, ma in un modo diverso” e l’avevamo scritta io e l’altro autore (ma più probabilmente lui) per presentare una compilation, nell’estate del 2011.

L’altro autore è Emiliano Colasanti, che all’epoca era soprattutto un giornalista musicale, co-fondatore di una piccola etichetta discografica, ora una delle più importanti d’Italia tra le indipendenti (42Records pubblica, tra gli altri, I Cani, Colapesce, Cosmo, Andrea Laszlo De Simone, Any Other). Non sono passati tantissimi anni, ma in realtà ripensare anche solo al concetto di compilation, fatta da due amici, per essere distribuita gratuitamente (e di fatto illegalmente) su internet, ci ha spalancato scenari su quanto siano cambiate le cose nel mondo della musica e di come la fruiamo.

Ovviamente le origini del progetto si perdono tra le nebbie della memoria. Sicuramente nacque da un dialogo tra noi, e dall’idea di mettere insieme un po’ di canzoni accomunate da un binomio affascinante: quello di essere allo stesso tempo dichiaratamente estive (per il titolo o il testo, spesso) ma anche tutto sommato tristi, o almeno malinconiche.

In piena antitesi (e in questo direi perfettamente adatte alla richiesta della redazione di Studio) rispetto alla definizione “canzone che parla di estate e ballare con qualche parola in spagnolo e ritmi latini assortiti” successivamente coniata per le hit estive da Francesco Farabegoli (anche lui all’epoca coinvolto in questa compilation: è colui che scrisse il titolo sopra alla foto scelta per la copertina).

Insomma l’origine viene sicuramente da un dialogo, altrettanto sicuramente avvenuto online, e probabilmente addirittura su FriendFeed, altra reliquia di un lontano passato: un social network estinto ormai da quasi dieci anni, che a sua volta ci ha rispediti in un pesantissimo amarcord.

Emiliano mi ricorda, visto che io non ho mai avuto un blog (frase con la quale forse potrei confezionare una maglietta), che «di certo era una roba che si faceva abbastanza abitualmente in epoca blog, probabilmente però è vero che l’idea di farla congiunta è nata su FriendFeed. Io le facevo spesso, ma appunto era una cosa che all’epoca azzardavamo in tanti, Polaroid se ti ricordi ne faceva una a Natale addirittura di inediti (e credo la faccia tuttora, per Santa Lucia)».

Una cosa che colpisce è la serietà con cui approcciammo questo progetto di fatto del tutto amatoriale, velleitario, senza alcun tipo di ritorno, e senza, va detto, nemmeno l’aura mitica dei mixtape o delle fanzine dei decenni precedenti. Ancora Emiliano: «Credo che siano in pochi a mettere nella stesura delle playlist – che quasi tutti ascoltano in shuffle – l’attenzione che noi avevamo messo in quella compilation.

Che comunque aveva una scaletta ragionata e funzionava come un disco. Poi c’è la questione più importante: non tutta la musica era (ed è) stata digitalizzata. Per cui parte del gioco era proprio quella di andare a prendere anche cose che non potevi sentire in nessun altro modo, tranne qualcosa su YouTube».

Perché dopo le discussioni per decidere quali pezzi includere e quali no (ancora rimpiangiamo di aver escluso Dennis Wilson, ma non potevamo lasciar fuori Brian), e in quale ordine, stando attenti a non sforare la durata di quello che si poteva masterizzare su un cd, si trattava di capire chi avesse in casa cosa: andare materialmente a tirare fuori i cd, metterli nel computer per estrarre la traccia, e convertirla in mp3.

Ancora Emiliano: «La cosa che mi faceva impazzire di più era fare i tag. Fare in modo che i brani fossero indicizzati nel modo giusto eccetera. Siamo sicuramente diventati più pigri. Pure io che uso Apple Music mi sono tenuto Spotify per ragioni lavorative, ma anche perché è più facile, e volevo fare le playlist».

Fatto questo, passammo al “packaging”. Quindi scegliemmo una fotografia per la copertina – la trovai io, su suggerimento di un’amica, su Flickr. Scrissi all’autore (Stefan Lewandowski, che riscopro solo ora, andando a vedere che fine ha fatto, che era pure il co-fondatore di Type Records) chiedendogli il permesso di utilizzarla e di cambiarne i colori.

Poi chiedemmo al già citato Farabegoli di scriverci sopra il titolo («Is this your celebrated summer?», dalla nota canzone degli Hüsker Dü, da noi inserita in una particolarmente malinconica versione interpretata da Mark Kozelek).
Infine la diffusione: la compilation venne caricata su Mediafire, che esiste ancora ma è stato largamente soppiantato da WeTransfer, e che all’epoca era per esempio il posto dove venivano normalmente caricati i dischi in free download delle band punk.

Perché stiamo ovviamente parlando di un’epoca precedente alla diffusione delle piattaforme di streaming, il che significa anche che se volevi ascoltare musica fuori casa dovevi scaricarla in mp3. Chi voleva diffondere la propria senza farla pagare solitamente sceglieva quella strada (di lì a poco avrebbe cominciato a diffondersi maggiormente l’utilizzo di Bandcamp, che era comunque guardato con qualche sospetto).

A quel punto non restava che promuoverla sui nostri social, e a Emiliano sul suo blog. Una delle cose che mi sembrano più lunari, oggi, è il fatto che all’epoca quella era una cosa piuttosto normale, che facemmo senza nasconderci, con i nostri nomi e le nostre facce, anzi cercando di farla girare il più possibile, anche sul blog di una testata giornalistica.

Nonostante, di fatto, fosse tutto assolutamente illegale. Tredici canzoni sulle quali non avevamo alcun diritto, da noi personalmente rippate da cd e caricate in un file .zip affinché il mondo le scaricasse. Emiliano: «Verissimo, all’epoca si parlava di musica liquida come se fosse l’emblema di una generazione. Quella che era passata dall’ascolto fisico a quello digitale, e ci dimentichiamo come quel passaggio sia stato essenzialmente e più realmente tra musica legale e musica illegale.

Tre anni dopo quella compilation sono sbarcati in Italia prima Deezer e poi Spotify: Deezer addirittura fece un focus group dove emerse che per i ventenni italiani fosse assolutamente normale ascoltare e reperire musica illegalmente. In questi anni c’è stato proprio un totale cambiamento dei consumi e del modo in cui stiamo su internet».

È il caso eclatante di un settore dato quasi per morto che poi è incredibilmente riuscito, davvero, a “sconfiggere la pirateria”. Anche se, come sappiamo, sono molte e dibattute le problematiche di quello che si è rivelato il “modello vincente”.
Gli anni passati sono tredici, e nel frattempo sono tante le canzoni che avremmo potuto aggiungere. Nell’inverno successivo ne sarebbe addirittura uscita una intitolata “Summertime Sadness”.

Secondo Emiliano: «Una canzone che per me in qualche modo rimanda all’estate anche se non so se poi si può riferire direttamente alla stagione estiva è “Chamber of Reflection” di Mac De Marco, che parla in realtà di un amore finito ma lo fa proprio con quel mood malinconico strascinato da pomeriggio estivo dopo il temporale che è anche un ricordo chiaro di adolescenza passata.

“Feels like summer” di Childish Gambino invece parla proprio d’estate e lo fa con un modo perfetto da canzone estiva molto estiva ma con un testo che in realtà parla di giornate tutte uguali e una vita che scorre immune ai cambiamenti come sono appunto certe tradizioni estive identiche in quasi tutte le parti del mondo (o per lo meno dell’Occidente).

D’altronde l’estate si presta tantissimo a ispirare canzoni ed è perfetta per fare “compilation” (io comunque non ho mollato e dal 2022 a Ferragosto faccio uscire Ferrarrosto, che però è una playlist)».

Insomma, dopo che vi siete letti questa storia non potevamo esimerci, e ve l’abbiamo messa – rigorosamente senza aggiunte o modifiche, anche se, andando a memoria, siamo abbastanza sicuri dei brani ma non del loro ordine – su Spotify, in maniera legalissima. Talmente legale che manca una canzone, perché quel disco di Battisti su Spotify non c’è (se volete recuperarla, era “Windsurf”).

È interessante anche notare, in chiusura, che l’algoritmo nel suggerire altre canzoni da aggiungere alla playlist fa il suo dovere consigliando cose come Stephen Malkmus o gli Spiritualized, ma non è in grado di cogliere il tema di fondo – evidentemente neanche riconoscendo la parola “summer” nella maggior parte dei titoli. Forse manca ancora qualche mese al completo dominio delle macchine. Buon ascolto, e buona (trist)estate.

Ognuno di noi ha un libro, una canzone, un film che associa all’estate. “Cose d’agosto” è una raccolta di articoli in cui le autrici e gli autori di Rivista Studio raccontano questo loro feticcio estivo, che sia intellettuale o smaccatamente pop.

Joseph Conrad fa ancora tremare i polsi (internazionale.it)

di

Ci sono scrittori – in verità non molti – che 
fanno tremare i polsi a chi si accinge a scriverne. 

Per la ricchezza, l’originalità e la profondità dei loro libri, ma anche per la loro varietà, per l’indissolubile intreccio tra vita e opere, e per la provocazioni delle loro riflessioni, capaci di mettere in crisi anche il lettore più convinto delle proprie idee, sicuro che siano sensate e radicate.

Joseph Conrad è uno di loro, insieme a pochi altri: Franz Kafka, Fëdor Dostoevskij, Lev Tolstoj, Nathaniel Hawthorne, William Faulkner. Si potrebbero certamente fare altri nomi, oltre ovviamente a quelli che da sempre sono alla base di tutto: gli Omero e gli Alighieri, i Cervantes e gli Shakespeare, e i tanti autori della Bibbia e del Corano.

Perché dunque Conrad, di cui ricorre in questi giorni l’anniversario della morte, avvenuta il 3 agosto 1924 a Bishopsbourne, nel Regno Unito, il suo paese elettivo? Di origini polacche, aveva trovato un’identità nuova e forte nell’Inghilterra vittoriana e nel buonsenso delle sue tradizioni, nella saldezza delle sue istituzioni, perché detestava le rivoluzioni, il loro disordine, la loro ferocia.

Per amore della vita e per gusto dell’avventura, ma all’inizio per necessità, fu marinaio in tante imprese e in tante parti del mondo, e al mare dedicò molti suoi libri, raggiungendo senza apparente fatica la grandezza di Melville. Ambientò le sue storie in diverse parti del mondo, un mondo di conflitti e brutalità, ingiustizie e rivoluzioni, detestando le prime ma non amando le seconde, di cui vide la violenza e le tentazioni autoritarie.

Scrisse capolavori su sfondi diversissimi tra loro, che comprendono L’agente segreto, un giallo antiterrorista (antianarchico, per la verità), che fu portato al cinema da Alfred Hitchcock e influenzò non poco i Maugham, gli Ambler e i Greene a venire; e il più grave dei romanzi di mare, Lord Jim (da cui un altro capolavoro cinematografico, di Richard Brooks e con la grande interpretazione di Peter O’Toole) il cui perno fu la convinzione – teorizzata in realtà da altri – che se si sbaglia un’esperienza, sarà molto difficile il successo di una seconda chance.

Al mare dedicò anche La linea d’ombra, che è la linea che divide la giovinezza dalla maturità (e che scegliemmo per una rivista dopo la crisi dei movimenti, negli anni ottanta, per tenerne vivi i ricordi, le lezioni, le eredità); e Il negro del NarcisoNostromoUn reietto delle isoleTifoneVittoria, eccetera.

Un racconto formidabile è Duello, contenuto nella raccolta Un gruppo di sei, da cui fu tratto un altro film assai bello. La storia mostra l’odio irrazionale e mortale di due giovani militari.

Ma non si finirebbe di citare, titolo dopo titolo, senza dimenticare ovviamente quel Cuore di tenebra, un capolavoro che spiegava bene gli orrori della colonizzazione europea in Africa e che avrebbe ispirato il grande film di Francis Ford Coppola Apocalypse now – opera pari a quella di Kubrick, Full metal jacket – che osò affrontare di petto l’orrore della guerra del Vietnam. Il film di Coppola seppe confrontarsi con Conrad nella parte finale e nel personaggio di Kurtz, affidato al genio istrionico di Marlon Brando (“L’orrore, l’orrore…”).

Insomma, la storia della letteratura come parte della storia della cultura e della storia in assoluto, non ha potuto e non può fare a meno di Joseph Conrad, che della storia diffidava conoscendone la ferocia, così come diffidava di quelli che la storia volevano cambiarla.

Scrittore “reazionario”, lo si sarebbe detto un tempo, senza sbagliare, ma di cui la storia, la nostra storia, di cui siamo volenti o nolenti il prodotto, non ha potuto e non può fare a meno, se vogliamo capirne i movimenti più profondi e gli effetti più radicali, più micidiali. Fu pari a Dostoevskij – a cui è più vicino, rispetto a Tolstoj – nell’analisi delle passioni umane e negli effetti della Storia con la maiuscola, “lo scandalo che dura da diecimila anni”, come ribadiva Elsa Morante.

Conrad è stato nel suo tempo il rivale diretto di Charles Dickens e del suo pur geniale e lucido buonismo. Pur senza arrendersi al male, sappiamo che il male è il mondo, e che non si può vincere. Sarebbe di estremo interesse leggere il parere di qualche grande teologo su Conrad: sulle sue idee del bene, del male, del destino umano e della storia.

Ma certamente va letto e riletto, e i suoi romanzi non possono che inquietarci come la prima volta che li si leggono. Inquietarci, provocarci, costringerci a fare i conti con i mali del mondo, della storia, dell’essere umano, della natura.

(Alamy)

La dichiarazione degli spiccetti e la terzomondità su cui si regge l’Italia (linkiesta.it)

di

La tassa sull’elemosina

La flat tax sulle mance pone fine al tacito accordo tra chi paga le tasse e poi fa la carità a chi non le paga, permettendogli di evadere. Siamo un paese popolato da così tanta gente onesta che certamente funzionerà benissimo

È la primavera del 2013, sono in un ristorante italiano di New York, a cena con un gruppo di italiani. Uno di noi è famoso, e quindi succede quella cosa che gli ingenui pensano sia cominciata a succedere coi #gifted e altri cancelletti, ma che è sempre accaduta: alla fine della serata, il proprietario si avvicina e annuncia a quello famoso che siamo suoi ospiti, che non dobbiamo pagare il conto.

È sempre la legge di Geri Halliwell, che se sei ricco e famoso e puoi permetterti tutto, è proprio allora che non ti viene chiesto di pagare quasi nulla. La fama è una valuta, e il ristoratore medio si sente onorato a offrirti la cena. Sono sempre i capponi di Renzo Tramaglino, ne abbiamo già parlato. E infatti oggi voglio parlare dei minuti successivi.

Quelli in cui, dopo che il famoso aveva detto al ristoratore «Grazie, ma permettimi almeno di lasciare una mancia ai ragazzi», ci eravamo resi conto che nessuno di noi aveva contanti. Chiunque abbia passato anche solo due giorni all’estero, specialmente negli Stati Uniti ma non solo, lo sa: arriva la ricevuta della carta di credito e tu, prima di firmarla, aggiungi la mancia sull’apposito rigo.

Non esci coi contanti per lasciare la mancia, perché la mancia la aggiungi al conto e ti viene addebitata sulla carta.

Solo che, se il conto non c’è, improvvisamente ti servono i rotoli di contanti del benzinaio. Anche perché, chiunque sia stato anche solo due ore negli Stati Uniti lo sa, quello è un paese in cui non fa il suo dovere il governo, che non fornisce ai cittadini assistenza sanitaria gratuita, non fanno il loro dovere gli imprenditori del turismo, che non pagano ai camerieri stipendi sufficienti alla sopravvivenza, non fa il suo dovere nessuno e ci si aspetta che i soldi dei ricchi colino sui poveri, nel caso dei ristoranti in forma di mance.

Insomma, con le mance al venti per cento, una cena come quella, che come minimo sarà valsa millecinquecento dollari, ne sarebbe valsi trecento e più che i camerieri si sarebbero spartiti tra di loro. Solo che noialtri avevamo portafogli ricchi di carte di credito ma che nel caso più fornito contenevano una banconota da dieci dollari. Li abbiamo messi insieme come quando andavamo a scuola, ma erano comunque pochissimi.

Ieri ho rievocato la storia con una delle commensali, che non se ne ricordava e mi ha detto che la mia ricostruzione non era plausibile: figurati se non siamo andati a prelevare a un bancomat. Già, perché nessuno ha pensato a prelevare? Non lo so, ma so che sono undici anni che ripenso a quanto ci avranno considerati pezzenti i camerieri: non solo cenano a scrocco, ma ci lasciano l’uno per cento di mancia, ’sti barboni.

Sono undici anni che penso di tornare in quel ristorante apposta per spiegare che è stato un equivoco, siamo brava gente, non apparteniamo a quella fascia di criminali sociali che gli americani tanto disprezzano: i bad tipper, quelli che lasciano poca mancia.

La ragione per cui ho rievocato il mio massimo trauma è che qualche giorno fa ero in treno quando sul telefono mi è comparso un tweet di Daniela Santanchè. Diceva così: «Le chiamano mance, ma la detassazione del 5% ai lavoratori del turismo vale 943 euro annui. Purtroppo ancora pochi la applicano, si preferisce dar poco spazio al buon governo».

L’articolo del Sole 24 Ore cui si riferiva dice che, secondo uno studio su 720mila dichiarazioni dei redditi di lavoratori dipendenti, questi 943 euro sono la media di tasse risparmiate da gente che ha ricevuto mance tassate non come reddito ma, secondo la legge di bilancio del 2023, al cinque per cento.

«Il prelievo del 5% riguarda le mance raccolte dal datore di lavoro – in contanti o con strumenti di pagamento elettronici – e poi riversate al lavoratore in busta paga». Ho molte domande. La prima e più importante è: i pos italiani non danno la possibilità di inserire la mancia, come fai a lasciare una mancia «con strumenti di pagamento elettronici»?

La seconda è: in Italia esistono gli stipendi, quindi di mancia lasciamo due spiccetti. Capisco che, uno spiccetto alla volta, il fattorino di JustEat cui do due euro guadagnerà più di me; faccio più fatica a credere che quei due euro li inserisca in dichiarazione dei redditi.

La terza è: ma fanno la dichiarazione dei redditi anche i mendicanti? Perché io ho poche certezze con cui arginare l’americanizzazione del mondo, e una di esse è che la mancia è un’elemosina. E invece il barista dichiara quei venti centesimi di resto del cappuccino che lasciamo sul bancone perché ci darebbero fastidio in tasca?

La quarta è: ma se tutti dichiarano tutto ciò che avviene in contanti – il barista i venti centesimi di resto che lasciamo sul bancone, il fattorino della pizza i due euro che gli diamo quando fa le scale al posto nostro, il cameriere i cinque euro che lasciamo dopo cena la sera in cui ci sentiamo generosi ma non certo americani – perché mai sosteniamo che i tassisti non vogliano il pos perché sono dei loschi evasori fiscali?

Poiché esiste un dio che è sceneggiatore, scesa dal treno è successo un mezzo miracolo: c’erano dei tassì al posteggio che c’è alla stazione dell’alta velocità di Bologna, quella sotterranea dove si perderebbe anche Bruce Chatwin, quella dove in genere ci sono cinquanta turisti straniti in fila e mai un tassì neanche per sbaglio.

Questo è il punto in cui un’altra vi direbbe che poi il tassista, anche se lo trovi, ti dice che non gli funziona il pos, ma io no, e sapete perché? Perché non ho mai avvisato un tassista che avrei pagato con la carta, e qualche volta (poche, va detto) quando alla fine gliela porgi sbuffano, ma non è mai successo che qualcuno si permettesse di dirmi che dovevo avvisarlo prima.

Ogni volta che leggo qualcuna (son sempre donne: sarà certamente un caso) che si lamenta che al preventivo annuncio di carta il tassista l’abbia scartata dalla clientela, penso: procuratevi un carattere, ragazze mie.

Però un miracolo è un miracolo, e in quella città ferma al 1986 trovare il tassì nei sotterranei era senza dubbio un miracolo, e meritava adeguata gratitudine. Che è aumentata quando il tassì è uscito dal sotterraneo e mi sono resa conto che su Bologna grandinava senza senso.

Quando siamo arrivati a destinazione, e io non avevo aspettato, non avevo preso la grandine, non mi ero innervosita, non mi ero rovinata i capelli, ero così miracolata che ho pensato di ricambiare: ho chiesto al tassista se preferisse, alla carta che gli stavo per allungare, cambiarmi cinquanta euro. E lui naturalmente preferiva.

Era un tacito accordo: io ti permetto di evadere le tasse su questi otto euro e quaranta, e tu quando scendo dal tassì non borbotti ma tu guarda questa stronza, potevo fare una corsa più lunga e fruttuosa, e invece è salita lei e mi ha pure pagato con la carta e ora ’sti otto euro mi fanno cumulo del reddito.

È un tacito accordo di quelli che ci rendono un paese che si regge sulla terzomondità: io, che le tasse le pago perché lavoro in un settore in cui non esiste il nero, permetto di evadere le tasse a te, che dovresti pagarle ma fai una vita talmente più di merda della mia che mi sento generosa e ti faccio la carità. E adesso arriva la Santanchè e mi dice che invece pure gli spiccetti d’elemosina vengono inseriti nella dichiarazione dei redditi.

Come potevamo aspettarci diversamente, dai ligi cittadini onesti che popolano questo paese.

Dietrich Bonhoeffer, teologo della resistenza (doppiozero.com)

di Alessandro Zaccuri

Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer è un 
libro che non appartiene a un genere letterario 
riconoscibile e che, proprio per questo, si situa 
in costellazioni differenti. 

È un caposaldo della teologia novecentesca e un capolavoro di epistolografia carceraria, è una testimonianza di fede cristiana e una celebrazione degli affetti terreni (la famiglia, l’amicizia, l’amore), è un catalogo di progetti irrealizzati e una raccolta di frammenti perfetti, è un dossier imprescindibile per la conoscenza della lotta al nazismo e una meditazione sul futuro della cultura europea, è prosa che va verso la poesia, è una collezione di sabbia che, di pagina in pagina, rivela la consistenza concettuale del granito.

Può stare sullo stesso scaffale del commento di Karl Barth all’Epistola ai Romani e dei documenti del Concilio Vaticano II, ma anche tra il Diario di Anne Frank e le Lettere da Stalingrado, oppure tra la Consolazione della Filosofia di Boezio e i Pensieri di Pascal.

Conferma per via bibliografica del principio di indeterminazione (l’avventura di Bonhoeffer si svolge negli stessi anni in cui si pongono le basi della fisica quantistica), Resistenza e resa è più che altro un libro che l’autore non ha concepito come tale, ma che altri hanno allestito, elevandolo a statuto canonico.

Per trovare una definizione che le racchiuda tutte, bisognerebbe limitarsi ad affermare che Resistenza e resa è il libro per cui Bonhoeffer è Bonhoeffer. Il resto della sua opera – tutt’altro che irrilevante nelle sue implicazioni – non può che essere letto secondo la prospettiva di questi scritti il cui valore testamentario si stabilisce con graduale consapevolezza, fino a imporsi con forza inequivocabile.

Non fosse che per questa ragione, un volume su Bonhoeffer doveva prima o poi figurare in “Eredi”, la collana che Massimo Recalcati cura per Feltrinelli come estensione della propria ricerca psicoanalitica. Il significato dell’impresa appare evidente quando si pensa che lo stesso Recalcati ha scelto per sé il profilo del suo maestro Jacques Lacan, affidando a Silvano Petrosino il ritratto di Emmanuel Lévinas e a Luigina Mortari quello di María Zambrano, e via esemplificando.

k

Adesso, per rendere omaggio a Bonhoeffer e per ribadire l’attualità della sua riflessione, viene convocato il biblista ed ebraista Ludwig Monti, già monaco della Comunità di Bose e molto noto sia per gli apprezzati contributi specialistici sia per i numerosi saggi di carattere spirituale.

Insieme con Mario Cucca e Federico Giuntoli, inoltre, Monti ha portato a termine la monumentale impresa della nuova traduzione commentata della Bibbia edita da Einaudi nel 2021 sotto la supervisione di Enzo Bianchi. Il suo Dietrich Bonhoeffer. Esserci per il mondo (Feltrinelli, pagine 204, euro 16) si presenta come un resoconto impeccabile sul piano della struttura espositiva e nello stesso tempo profondamente connotato sotto il profilo personale.

Fin dalle prime righe, Monti ricorda di essere un biblista e non un teologo, ma la circostanza non gioca affatto a suo sfavore. La scoperta della Scrittura come esperienza costituiva del credere è infatti uno snodo decisivo nella maturazione di Bonhoeffer, che solo dopo aver portato a termine gli studi teologici arriva a percepire la sconvolgente radicalità del Discorso della Montagna e la semplicità rivelatrice del linguaggio dei Salmi. Il percorso che condurrà a Resistenza e resa parte da qui, dall’incontro con la Parola di Dio riconosciuta non più come oggetto di speculazione, ma come irrinunciabile fonte di vita.

Una volta stabilito, il nesso fra teologia e biografia non può essere revocato, e proprio nel segno di una «teologia biografica» si snoda la trattazione proposta da Monti e scandita in quattro frasi principali. La prima, corrispondente al decennio 1923-1933, è occupata dalla formazione universitaria (Bonhoeffer è nato nel 1906 a Breslau, in una famiglia della borghesia luterana non particolarmente devota), dall’ordinazione a pastore e dai primi passi di una carriera accademica che verrà presto abbandonata.

Dal 1934 al 1939, poi, il giovane teologo è una figura di spicco della Chiesa confessante, espressione di un’opposizione al nazismo tanto nobile quanto priva di effettiva incidenza. Il terzo momento si apre con il breve viaggio negli Stati Uniti del giugno-luglio 1939, durante il quale Bonhoeffer matura la decisione di rinunciare ai privilegi dell’esilio per fare ritorno in Germania, dove partecipa attivamente alla resistenza.

Infine, a partire dalla primavera del 1943, l’arresto, la reclusione nel carcere berlinese di Tegel, la condanna a morte e l’esecuzione, avvenuta per impiccagione nel lager di Flössenburg il 23 aprile 1945, esattamente una settimana prima del suicidio di Hitler.

I testi organizzati in Resistenza e resa dall’amico Eberhard Bethge risalgono tutti al periodo di Tegel e sono, come già ricordato, il vero lascito di Bonhoeffer. Ma questo non comporta una svalutazione della produzione precedente, all’interno della quale spicca il dittico composto da Sequela (1937) e Vita comune (1939). In questi testi, ideale preludio all’incompiuto progetto di Etica, è già dichiarato il rifiuto di una grazia «a buon mercato», inconciliabile con la drammatica concretezza dell’Incarnazione («Solo dentro al mondo Cristo è Cristo», si legge nei manoscritti di Etica).

Al momento della cattura, Bonhoeffer si è dunque attestato su una posizione «non religiosa», termine spesso equivocato, che non comporta affatto il superamento del culto, quanto piuttosto l’affrancamento della fede da ogni pretesa consolatoria. Illuminante, in questo senso, la celebre immagine del «Dio tappabuchi» polemicamente tematizzata in Resistenza e resa: in un mondo fattosi «maggiorenne» per effetto della scienza, Dio rischia di essere sempre più relegato ai margini, come estremo tentativo di fornire spiegazione a ciò che ancora si percepisce come inspiegabile.

La visione millenaria della religione come istanza suprema per la comprensione della realtà non ha più corso, ma non per questo il cristianesimo può ritenersi superato. Al contrario, l’estinzione del religioso apre nuovi spazi e presuppone nuove forme per l’annuncio del Vangelo come autentica teologia della reale. «La trascendenza gnoseologica non ha a nulla a che fare con la trascendenza di Dio – avverte Bonhoeffer –. È al centro della nostra vita che Dio è aldilà».

j

Le lettere, le poesie, i racconti e gli abbozzi teologici di Tegel abbondano di formule divenute proverbiali, come la metafora polifonica del cantus firmus per alludere alla centralità di Dio nella vita cristiana. Monti sceglie giustamente di soffermarsi sulla coppia di concetti evocata da Bonhoeffer nel cosiddetto “Progetto di uno studio”, la cui ossatura è conservata in Resistenza e resa. Se Cristo è stato «l’uomo per altri» (der Mensch für andere), il credente non può praticare se non «l’esserci-per-altri» (für-andere-dasein), locuzione folgorante per immediatezza ed esattezza. Ne deriva, appunto, il dinamismo tra Widerstand, la «resistenza» agli eventi mondani, e Ergebung, termine che in italiano è tradizionalmente tradotto come «resa», ma che sconfina nell’abbandono, nell’affidamento, nella consegna di sé, perché «Dio non porta a compimento tutti i nostri desideri, bensì tutte le sue promesse».

Non diversamente da quanto accade in Kaj Munk (il pastore luterano e drammaturgo danese universalmente noto per Ordet – La Parola e morto martire del nazismo nel 1944), anche in Bonhoeffer l’impegno politico sottintende la dimensione mistica, e viceversa. Rileggere la sua opera, della quale il saggio di Monti costituisce un’eccellente introduzione, comporta il rischio di attraversare un campo di forze nel quale il cristianesimo è messo in discussione, perché solo nelle tensioni della quotidianità il cristianesimo rimane vivo e vitale. Non per niente, a Bonhoeffer si sono ispirati narratori come Eraldo Affinati (Un teologo contro Hitler, 2002) e Michele Toniolo (La tentazione di Bonhoeffer, 2018), accomunati dalla volontà di indagare il mistero di una possibilità che sembrerebbe non essersi realizzata. Soccorre, una volta di più, la materica consistenza di un’illuminazione che Bonhoeffer esprime proiettando fuori dal tempo il linguaggio del suo tempo: «Non esistono due sfere, ma solo l’unica sfera della realtà di Cristo, in cui la realtà di Dio e la realtà del mondo sono fra loro unite».