Del buon uso delle lacrime (doppiozero.com)

di Nicole Janigro

“Fra me intanto pensavo: quando Strogoff fu fatto 
prigioniero, i feroci tartari volevano accecarlo 
con i ferri roventi. 

Strogoff era un uomo duro, ma aveva anche molto amore dentro di sé. Per questo suo amore lontano gli si riempirono gli occhi di lacrime.

E furono proprio queste lacrime a salvarlo, perché raffreddarono i ferri roventi”. Hannah, la protagonista di Michael mio, è innamorata dell’eroe di Verne, per lei è una guida come lo è stato per Amos Oz, l’autore del romanzo.

Lo scrittore che da grande gli dedicherà un libro ricorda il suo timore bambino delle lacrime e l’incontro con Michele Strogoff che legittima le emersioni dei suoi sentimenti perché capace di rappresentare, insieme, la presunta debolezza femminile unita alla virtù virile.

E proprio dal pianto dei piccoli inizia Che emozione! Che emozione? Piccola conferenza (cura e traduzione dal francese di Maria Nadotti, Luca Sossella editore, 2024) di Georges Didi-Huberman che con Per che obbedire? (sempre per la cura e traduzione di Maria Nadotti, Luca Sossella editore, 2023), aveva già composto un altro testo breve di questa serie ideata da Gilberte Tsaï rivolta ai ragazzi dai dieci ai quindici anni e a coloro che li accompagnano.

Nei particolari di una sequenza di fotografie utilizzate da Darwin per L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali ecco bambini in lacrime, bambini che frignano, bambini che singhiozzano.

Per Darwin l’emozione era un fenomeno primitivo, presente in uccelli, cani e gatti e negli umani inferiori, o perché “razze umane che hanno poco a che fare con gli europei”, o perché bambini, donne, qualcosa di riscontrabile soprattutto nelle pazze e nei vecchi senili.

Insomma, gli inglesi e gli adulti non piangono e questa gerarchia positivista psico-valoriale non era lontana da alcuni aspetti delle idee di Freud: l’illusione religiosa appartiene a uno stadio infantile della personalità e colpisce soprattutto le donne, ma non si confaceva al maschio adulto. Sappiamo quanto “trattenere le lacrime” in pubblico sia stato un invito rivolto, fino a non molto tempo fa, a chi doveva dimostrare di riuscire a ricoprire un ruolo, svolgere una performance che mal si coniugava con l’esprimere la propria sensibilità.

Oggi anche i calciatori possono versare lacrime, ma il pianto spasmodico di un bambino può creare un vuoto in un ristorante.

E seppure ammesso e a volte anche invocato – “lacrime retoriche e artificiali” come accade in molti programmi televisivi –, il nostro pianto ci interroga, a volte ci inquieta per la sua imprevedibilità. Dirsi emozionati è diventato un po’ uno stereotipo in conversazioni pubbliche e private, ma non è mai facile governare la grammatica dei propri stati d’animo che assorbono una grande energia e la cui decifrabilità non è sempre immediata.

Forse, perché, scrive Didi-Huberman, “un’emozione non è forse una emozione, cioè un movimento, che consiste nel metterci fuori da (e-, ex), fuori da noi stessi? (…) Essa è in me, ma fuori di me”. Il punto esclamativo del titolo dice “una situazione di sorpresa: un’emozione mi cade addosso senza preavviso”, (…), ma questo primo gesto di stupore non sarebbe fino in fondo filosofico se non si prolungasse in “una serie infinita di punti di domanda; che cosa intendiamo per ‘emozione’? che genere di emozione? e perché l’emozione?”

Chi piange si espone all’altro, mostra qualcosa del vissuto interiore che in quel momento non riesce a nascondere. Il rischio, afferma Didi-Huberman, è che possa apparire ridicolo, venga considerato “patetico”. La storia del pathos contrapposto al logos, l’essere sopraffatti da un’emozione che impedisce di reagire, inibisce l’azione, è intrecciata alla storia della filosofia.

“Dopo Nietzsche i filosofi sono un po’ più emozionati”, ma nel senso comune rimane radicata la contrapposizione tra emotività e razionalità. L’emersione del velo di lacrime, ma anche del rossore, del sudore dice che nel corpo traspare qualcosa che nell’anima si muove; e non sono “parti basse”, ma sensazioni fondamentali per comprendere che cosa ci accade, indispensabili quando dobbiamo scegliere un orientamento.

Ma se l’emozione da cui siamo posseduti, se dissociata dal nostro sentire cosciente, conferma che l’Io “non è padrone a casa propria”, dall’altra offre la possibilità, il potere di essere visti. Rappresenta un io che si trasferisce dalla prima alla terza persona: piango diventa piange.

E un “pianto rituale”, come accade durante una cerimonia funebre, può toccare tutti, il lutto singolare diventa plurale, unisce la comunità: assume una dimensione etica. E gesti antichi “sono come fossili in movimento. Hanno una storia molto lunga – e molto inconscia. Sopravvivono in noi”.

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A questo punto, al suo giovane pubblico, Didi-Huberman cerca di rendere in modo semplice la sua complessa teoria delle immagini: l’idea di un rapporto dialettico tra visibile e invisibile, l’idea che le immagini hanno un pensiero, una storia e un destino, la costruzione di una “storia delle arti visive – della pittura e della scultura, ma anche della fotografia o del cinema – che possa essere letta come un’immensa storia delle emozioni figurate, quei gesti emotivi che Warburg chiamava “formule del pathos”.

E all’Atlante della memoria di Warburg Didi-Huberman collega quello, storicamente contemporaneo, delle sequenze nel film La corazzata Potëmkin dove i concetti di pathos, migrazioni, sopravvivenze appaiono il centro dell’antropologia di Ejzenštejn.

Nella sequenza della morte del marinaio, la figura carismatica che ha guidato la rivolta, si assiste al passaggio dalla tristezza e dalla commozione alla rabbia: “le mani dolenti diventano pugni chiusi”. Il popolo in lacrime diventa il popolo in armi. Il sentire diventa politica. Le emozioni hanno dimostrato la loro capacità di azione, rinsaldato “l’idea che l’emozione non può definirsi uno stato di pura e semplice passività”.

Nelle risposte al pubblico Didi-Huberman sottolinea la sua passione antropologica per l’espressività dell’immagine – sottoposta a un’indagine sintomatologica come aveva fatto nella ricerca sulla messa in scena del corpo delle isteriche. Ammette di essere più interessato alla trasformazione visibile delle lacrime, ai suoi effetti civili e sociali, piuttosto che alle conseguenze interiori che può produrre un pianto notturno.

Il suo scopo non è indagare l’aspetto psicologico del fenomeno, ed è forse questo a portarlo alla considerazione sconcertante secondo la quale le persone che non conoscono turbamenti sono pazze o psicotiche.

Che emozione! Che emozione? Piccola conferenza riprende alcune parti di un’opera che l’autore stava scrivendo, Popoli in lacrime, popoli in armi. L’occhio della storia 6 (a cura di Renato Boccali, Mimesis, 2020), un vero e proprio tomo dedicato alla rilevanza storica delle immagini, alla facoltà politica e critica necessaria per restituire potere alle emozioni.

È anche un invito rivolto al lettore – spettatore impotente e passivo davanti a immagini ed emozioni che perdono il loro potere reale – a una mobilitazione attiva. Per Didi-Huberman la politica dell’immaginazione rende leggibile la drammaticità dell’era contemporanea come affermava Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri – la guerra che vediamo in ogni casa, l’incessante scorrere delle immagini sotto i nostri occhi fanno sì che non riusciamo a capire la nostra storia contemporanea.

Da qui un’inquietante dialettica di sopravvalutazione e antipatia, di rimpinzamento e di insensibilizzazione. Una spirale che immobilizza l’immagine, la paralizza. Da qui l’odio, un’indifferenza “difensiva” che può emergere dal fondo della pietà.

Popoli in lacrime, popoli in armi, conclude il curatore Renato Boccali, si presenta quindi come la chiusura del periplo, con lo sguardo rivolto all’espressione dell’emozione collettiva di popoli marginali e generalmente silenziati dalla storia.

Un’emozione che si esprime attraverso lacrime, segno di impotenza e fragilità, ma che reclama visibilità (…). Se i popoli hanno un volto, da questo volto scendono lacrime. Lacrime private, certo, ma che ben presto diventano condivise. Il pianto si fa collettivo e spinge all’azione, alla rivolta, alla sollevazione.

Le lacrime, quindi, come massima manifestazione d’impotenza, si visibilizzano e si trasformano in potere: espressivo, estetico, politico. È l’intero corpo sociale a piangere, a com-muoversi e quindi ad agire”.

Leggi anche:

Valentina Manchia | Didi-Huberman, tavole e taccuini
Silvi Vizzardelli | Georges Didi-Huberman e la somiglianza sovversiva

Le illusorie promesse ai balneari (corriere.it)

di Ferruccio de Bortoli

Concorrenza negata

Non c’è inganno più feroce della promessa che si sa di non poter mantenere.

I gestori degli stabilimenti balneari dovrebbero esigere persino i danni. Ai tanti che — in vari governi — li hanno illusi e continuano a illuderli che le concessioni (in scadenza teorica alla fine di quest’anno) saranno prorogabili in eterno.

Ovvero che si possa evitare di metterle prima o poi a bando, sfidando non solo le regole europee — che abbiamo sottoscritto non subìto — ma anche la stessa giustizia amministrativa italiana. La legislazione è incerta, i Comuni vanno in ordine sparso. Nell’incertezza si investe di meno, c’è minore spinta alle aggregazioni che darebbero più forza competitiva alla categoria, migliori servizi, tariffe più contenute.

E i cittadini che sono, fino a prova contraria, i proprietari indiretti dei beni demaniali dovrebbero, a loro volta, chiedere conto allo Stato del perché faccia rendere così poco le aree che possiede, di fatto impoverendo se stesso e i suoi amministrati, cioè noi. I canoni versati sono intorno ai 115 milioni l’anno. Il Comune di Milano, per gli affitti della sola Galleria Vittorio Emanuele, ne incassa 75. Tanto per dare un’idea dello spreco di denaro pubblico.

I balneari che ieri in pochi hanno scioperato simbolicamente (in realtà si trattava casomai di serrata) versano una miseria rispetto al fatturato.

E d è come se altri operatori, magari tra gli ospiti degli stabilimenti per le loro meritate vacanze, potessero pagare la materia prima a prezzi irrisori (lo fanno per la verità anche le banche sui depositi) indipendentemente dal fatto che sia una risorsa scarsa. Se l’economia si reggesse su questo principio sarebbe ferma al Medioevo. Se il commercio internazionale fosse animato dallo stesso spirito, il made in Italy resterebbe in Italia. Frontiere chiuse.

Pensate solo a un Paese con concessioni interminabili degli spazi pubblici, che magari si passano da una generazione all’altra, senza spazio per i giovani fuori dalla famiglia. È come avere strade e piazze occupate da chi ha antiche licenze commerciali, privilegio di inossidabili corporazioni, con affitti bloccati anche in pieno centro (nella Galleria di Milano lo furono per tanti anni, soprattutto per clientele politiche varie).

Aggiungiamo che, con l’esplosione post Covid dei dehor, siamo ormai vicini a considerarli alla stregua di «spiagge» urbane. E, infatti, si è scelta la via della proroga.

La concorrenza in Italia non piace. Lo testimonia il fatto che dovendo fare (per legge) una legge annuale sulla concorrenza ne abbiamo approvate solo quattro in quattordici anni. Non piace solo ai balneari o ai tassisti ma anche a chi ha più potere economico e meno visibilità. Le preoccupazioni dei gestori degli stabilimenti sono comprensibili. Ma li inducono a far leva più sulle protezioni politiche che sulle proprie potenzialità imprenditoriali.

Il governo cerca affannosamente di trovare un difficile compromesso con la Commissione europea, guadagnando tempo. Si studia di mettere al bando per prime, ma il più tardi possibile (a fine 2025 l’opzione minima), le concessioni là dove rappresentino una risorsa scarsa, secondo i criteri della contestatissima direttiva Bolkestein.

E sulla base, peraltro, di una mappatura generosa di litorali adattabili, in modo da ridurre le percentuali di occupazione e non far emergere l’elemento della scarsità del bene (sarebbero libere al 67 per cento). Gli operatori balneari, comunque, vanno tutelati per gli investimenti fatti, eventualmente indennizzati (allo studio anche la possibilità di prelazioni), magari ispirandosi a quanto è accaduto in Spagna e Portogallo.

Il commercio al minuto, quel poco che si è salvato dall’arrivo della grande distribuzione, ha saputo consorziarsi e sfidare, con successo, agguerriti gruppi nazionali e internazionali.

Difficile, se non impossibile, che una forte aggregazione locale di operatori balneari — rappresentanti di una comunità, di una tradizione di accoglienza, di una cultura del territorio — possa perdere una gara. Le economie di scala farebbero bene a tutti e consentirebbero di salvaguardare meglio l’ambiente, pulire le spiagge, difenderle dall’erosione.

Anche con qualche non trascurabile vantaggio per i clienti, per i turisti. E non ultimi i cittadini italiani, attraverso i maggiori incassi dello Stato. Quello che non deve più accadere è invece la ripetizione dello scandalo — che la Lega ha sepolto nei suoi archivi — delle quote latte europee che parte degli allevatori non volevano rispettare. E anche allora furono ammaliati da promesse irrealizzabili. Si sa come andò a finire.

L’Italia, deferita alla Corte di giustizia europea, sopportò oneri per 4,5 miliardi. E le multe, di fatto, le pagarono tutti i cittadini. Anche quelli che non erano mai saliti su un trattore.

Il miraggio sahariano di Wagner (novayagazeta.eu)

di Christopher Michael Faulkner (Assistente Professore di Affari di Sicurezza Nazionale, United States Naval War College)

(Mercenari del Gruppo Wagner in Africa. Foto: Zona Grigia / Telegramma)

Alla fine del mese scorso i mercenari del gruppo russo Wagner hanno accompagnato l’esercito maliano in quella che il regime del paese dell’Africa occidentale ha definito una “operazione di stabilizzazione” nella città nord-orientale di Tinzaouaten, vicino al confine algerino.

Quella missione è andata rapidamente di traverso quando sono scoppiati i combattimenti tra quella coalizione e i ribelli del Quadro Strategico Permanente, un gruppo separatista di etnia tuareg. Durante la ritirata, Wagner e le forze maliane sono state attaccate da militanti dell’affiliato di al-Qaeda Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin, o JNIM.

Secondo quanto riferito, più di 80 membri del personale Wagner e oltre 40 soldati maliani sono stati uccisi nei combattimenti. Tra le vittime c’era Nikita Fedyanin, che gestiva il popolare canale Telegram di Wagner The Grey Zone. Mentre i ribelli tuareg e il JNIM si sono affrettati a celebrare il loro successo, Mali e Wagner hanno cercato di minimizzare le loro perdite.

E comprensibilmente. La sconfitta di Tinzaouaton mette in difficoltà sia il Gruppo Wagner che la Russia. Segnala ai leader africani i limiti di avere mercenari sostenuti da Mosca come partner dell’antiterrorismo e protettori del regime, soprattutto in un contesto di sicurezza complesso come quello del Mali. Ma sfida anche la strategia di Mosca nel continente.

Cosa è successo al Gruppo Wagner dopo la morte del suo leader Yevgeny Prigozhin? E quale ruolo potrebbe avere suo figlio nel futuro dell’esercito privato più famoso del mondo?

Dalla morte del leader della Wagner, Yevgeny Prigozhin, un anno fa, Mosca ha cercato di assumere il controllo delle operazioni del gruppo istituendo l’Africa Corps, un progetto controllato dal Ministero della Difesa progettato per assomigliare a Wagner che mira a portare i combattenti Wagner direttamente sotto il comando e il controllo dello Stato russo. Ma questo si è rivelato più impegnativo di quanto Mosca avesse previsto e ha complicato i piani della Russia di espandere le sue partnership in tutta l’Africa attraverso l’offerta di sostegno da parte di compagnie militari private.

L’incidente di Tinzaouaton fu un duro colpo per Wagner, rappresentando la più grande perdita di vite umane conosciuta in Africa. Per contestualizzare, nel corso della sua missione antiterrorismo quasi decennale in Mali, i francesi hanno perso un totale di 59 soldati. L’approccio della Francia all’antiterrorismo in Mali ha contribuito a gettare i semi del malcontento militare che ha portato a molteplici colpi di stato tra il 2020 e il 2021. Ha anche gettato le basi affinché i leader del colpo di stato del Mali si rivolgessero a Wagner piuttosto che a Parigi per le sue esigenze di sicurezza.

Dalla morte del leader della Wagner, Yevgeny Prigozhin, un anno fa, Mosca ha cercato di assumere il controllo delle operazioni del gruppo istituendo l’Africa Corps.

Da quando sono entrate in Mali nel dicembre 2021, e soprattutto dopo la morte di Prigozhin, le forze Wagner sono state in grado di rivendicare alcuni successi. A novembre, i mercenari russi hanno aiutato l’esercito maliano a riconquistare la città di Kidal, una roccaforte separatista.

Quel successo potrebbe aver portato a un eccesso di fiducia; come dimostra l’incidente di Tinzaouaten, ci sono sfide molto reali per la sicurezza in tutto il Mali e le tattiche di Wagner, tra cui la violenza indiscriminata e il prendere di mira i civili, sono ben lungi dall’essere gli strumenti più efficaci per affrontare le crisi di sicurezza del Mali.

Sebbene l’incidente di Tinzaouten sia stata la più grande perdita conosciuta di Wagner in Africa, non è la prima. Nel 2019, le forze Wagner hanno tristemente promesso troppo e non sono state mantenute in una campagna antiterrorismo di breve durata in Mozambico. In quel caso, Wagner è durata solo pochi mesi prima di ritirarsi dopo che è diventato evidente che era mal equipaggiata, impreparata e troppo sprezzante nei confronti dei suoi partner militari locali mozambicani.

Anche se i recenti eventi in Mali non sono analoghi a quelli, l’abbandono del Mozambico da parte di Wagner potrebbe pesare sulle menti dei leader della giunta maliana dopo l’ultima battuta d’arresto del gruppo. Ci si chiede se Wagner o il suo successore, l’Africa Corps, continueranno a investire nella sicurezza del Mali.

Un manifestante sventola una bandiera russa durante le celebrazioni del Giorno dell'Indipendenza a Bamako, Mali, 22 settembre 2022. Foto: EPA-EFE / HADAMA DIAKITE(Un manifestante sventola una bandiera russa durante le celebrazioni del Giorno dell’Indipendenza a Bamako, Mali, 22 settembre 2022. Foto: EPA-EFE / HADAMA DIAKITE)

C’è anche la possibilità di aumentare la tensione tra l’esercito maliano e i suoi partner russi sulla missione di sicurezza e su chi sta prendendo le decisioni. Oltre a mettere alla prova questa relazione ora, potrebbe anche portare ad attriti e altri problemi lungo la strada.

La Russia ha cercato di placare le preoccupazioni all’indomani dell’attacco di Tinzaouaten. Il ministro degli Esteri Sergey Lavrov ha contattato il suo omologo maliano per riaffermare l’impegno della Russia nei confronti del Paese. Ma le chiacchiere costano poco. Se il Cremlino intenda ricompensare le perdite di Wagner dispiegando più personale rimane una questione aperta.

Ancora più importante, i problemi che affliggono il Mali non possono essere risolti con la canna di una pistola, e sia l’attuale regime di Mosca che quello del Mali si sono dimostrati disinteressati a soluzioni non militari – come negoziare con attori non statali – a minacce alla sicurezza reali o percepite.

E l’impegno della Russia in Mali è tutt’altro che altruistico. Il Mali è il quarto produttore di oro dell’Africa. Come Wagner, Mosca vuole una fetta di quel mercato. A novembre, la Russia ha firmato un accordo con il Mali per costruire la più grande raffineria d’oro del paese. In apparenza, sembra che questo potrebbe essere una spinta economica per il Mali, ma la tempistica del progetto non è chiara. Lo sforzo ha anche sfumature neocolonialiste, nonostante la retorica russa dica il contrario.

La sociologa Svetlana Stephenson spiega le modalità della stravagante esecuzione di Yevgeny Prigozhin

C’è, tuttavia, uno scenario in cui Wagner beneficia dell’ultima battuta d’arresto. Come hanno notato diversi esperti di sicurezza della regione africana del Sahel, le perdite potrebbero effettivamente aiutare a rafforzare la reputazione di Wagner presso i capi militari del Mali e la popolazione maliana in generale; La volontà di combattere e morire al fianco dei partner è un segnale forte.

Per gli stati come il Mali, che sono stati a lungo diffidenti nei confronti dell’intervento straniero, la volontà di Wagner di entrare in combattimento e intraprendere missioni che i partner di sicurezza francesi e occidentali non erano disposti a eseguire ha risuonato con parte della popolazione.

La battuta d’arresto di Wagner in Mali potrebbe avvantaggiare Mosca in un altro modo inaspettato. Giorni dopo l’incidente, un portavoce dell’intelligence militare ucraina ha insinuato che l’Ucraina potrebbe aver avuto un ruolo nel fornire intelligence ai gruppi Tuareg.

Il presidente ad interim del Mali, il colonnello Assimi Goïta. Foto: Remi Zoeringre / EPA-EFE(Il presidente ad interim del Mali, il colonnello Assimi Goïta. Foto: Remi Zoeringre / EPA-EFE)

Che sia vero o vero, quel messaggio ha portato il Mali a tagliare i legami diplomatici con l’Ucraina. Il vicino Niger ha rapidamente seguito l’esempio. Da allora l’Ucraina ha negato con veemenza il coinvolgimento. Indipendentemente da ciò, questa dinamica illustra le ricadute della competizione tra Mosca e Kiev.

L’Ucraina trarrà vantaggio dai fallimenti di Wagner in Africa, costringendo i clienti di Wagner a considerare il valore delle loro partnership con Mosca. Ma come suggerisce la reazione di Mali, tali sforzi possono chiaramente ritorcersi contro. Anche così, per la Russia, le perdite di Wagner creano più sfide che opportunità. Mosca potrebbe essere alle prese con i fallimenti di Wagner in Africa, soprattutto perché cerca di soppiantare Wagner con l’Africa Corps.

Eventi come quelli che si sono svolti alla fine di luglio non possono più essere facilmente spiegati dal Cremlino. Come ha osservato John Lechner, un esperto di Wagner e della sicurezza russa, Mosca ha permesso al marchio Wagner di vivere in Mali, in parte per dare alla Russia una copertura per questo tipo di fallimenti nella sicurezza. Per quanto tempo Mosca riuscirà a continuare questo sfarzo – negando che i fallimenti di Wagner siano anche i fallimenti della Russia, in particolare con il governo del Mali – è oggetto di dibattito.

Le perdite di Wagner creano più sfide che opportunità. Mosca potrebbe essere alle prese con i fallimenti di Wagner in Africa, soprattutto perché cerca di soppiantare Wagner con l’Africa Corps.

Nonostante il chiaro valore che la giunta del Mali ha visto nel portare Wagner, a un certo punto la missione dovrà aumentare o eventi come quelli di Tinzaouaten potrebbero diventare più comuni. Ciò è particolarmente probabile se l’esercito maliano cerca di continuare ad espandere la sua missione di controinsurrezione.

Mosca non vuole certo mettere a repentaglio le sue relazioni con i golpisti del Mali nella capitale, Bamako. Ma sta anche camminando su un delicato equilibrio, diffidando di dare potere ai resti di Wagner in qualsiasi modo significativo che possa portare il gruppo ad agire contro gli interessi di Mosca in Africa e altrove. Inoltre, le grandi ambizioni di reclutare decine di migliaia di membri del personale dell’Africa Corps sono state tristemente deluse, limitando le opzioni di Mosca.

Così, se da un lato l’incidente di Tinzaouaten offre uno sguardo sull’ambiente di sicurezza molto impegnativo del Mali, dall’altro evidenzia i limiti dell’aggancio del carro ai mercenari russi, siano essi sotto la bandiera di Wagner o riformati sotto l’Africa Corps della Russia.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta da The Conversation. Le opinioni espresse negli articoli di opinione non riflettono necessariamente la posizione di Novaya Gazeta Europe.

“Ha donato 50 dollari all’Ucraina”: Mosca la sbatte in cella (ildubbio.news)

di Gennaro Grimolizzi

La ballerina russo-americana Ksenia Karelina è 
stata condannata a 12 anni per “alto tradimento” 

Una donazione di neanche 52 dollari è costata a Ksenia Karelina (cittadina con doppio passaporto, russo e statunitense) la condanna a 12 anni di carcere per “alto tradimento”.

La sentenza è stata pronunciata in Russia, il giorno di Ferragosto, dal giudice del tribunale di Ekaterinburg, Andrei Mineev, lo stesso che ha condannato a 16 anni di prigione per spionaggio il giornalista del Wall Street Journal, Evan Gershkovich, liberato all’inizio del mese in occasione di uno scambio di prigionieri tra Russia e Stati Uniti.

Karelina è stata fermata a gennaio, dopo aver raggiunto i parenti ad Ekaterinburg. In un primo momento il fermo è avvenuto perché la donna ha usato un linguaggio poco opportuno e offensivo nei confronti degli agenti della polizia di frontiera intenti a fare i controlli di rito. Questa circostanza ha aperto, poco dopo, le porte alle accuse più gravi.

Le forze di sicurezza le hanno sequestrato in aeroporto il telefono e, dopo alcune verifiche, hanno scoperto che la ballerina residente a Los Angeles aveva trasferito nel febbraio 2022 dal suo conto americano la somma di 51,8 dollari in favore dell’organizzazione “Razom for Ukraine”.

Immancabile anche in questo caso l’intervento dell’Fsb. I servizi di sicurezza hanno imbastito le prime accuse nei confronti di Karelina, ritenendola responsabile di una raccolta fondi in favore delle forze armate ucraine «per acquistare forniture mediche tattiche, armi e munizioni». Da qui si è arrivati alla condanna di due giorni fa, al termine di un processo celebrato a porte chiuse. La procura aveva chiesto 15 anni di galera.

Non sono pochi gli osservatori che considerano l’ennesima condanna di un cittadino con passaporto straniero – o russo con altra cittadinanza – il risultato di una strategia ben precisa. La Russia mantiene vivo il cosiddetto “fondo di scambio”, una sorta di tesoretto al quale attingere in alcuni momenti di tensione con altri Stati, per lo più potenze occidentali che avversano Mosca dopo la scellerata avventura della guerra di invasione in Ucraina.

Per Ksenia Karelina, però, la permanenza in carcere durerà ancora a lungo. Altri scambi, a meno di colpi di scena, come quello del 1° agosto scorso che ha portato alla scarcerazione, tra gli altri, degli oppositori Vladimir Kara-Murza, Oleg Orlov e Ilya Yashin, non se ne vedono all’orizzonte.

Il portavoce della Casa Bianca per la sicurezza nazionale, John Kirby, ha commentato la condanna a 12 anni di carcere di Ksenia Karelina e ha usato parole molto dure. «La sentenza non è altro che la conseguenza di una crudeltà vendicativa», ha detto Kirby. «Stiamo parlando – ha aggiunto – di 50 dollari. Parlare di tradimento è assolutamente ridicolo».

Il caso Karelina si ricollega alla stretta da parte delle autorità nei confronti delle organizzazioni dichiarate “indesiderate”, che non possono operare in Russia. Le origini delle norme liberticide risalgono a prima della guerra scoppiata il 24 febbraio 2022.

Dall’inizio dell’invasione militare russa ai danni dell’Ucraina più di un centinaio di organizzazioni sono state costrette a chiudere o a trasferirsi all’estero. Numerosi sono stati i provvedimenti emessi per le critiche espresse nei confronti delle forze armate russe, per le prese di posizione contrarie all’aggressione subita dall’Ucraina o per le iniziative di raccolta fondi in favore di altre organizzazioni operanti in Ucraina o in altri Paesi ritenuti nemici.

Dall’inizio del 2022 alla fine di luglio 2024 in Russia i tribunali hanno aperto 214 fascicoli riguardanti le attività di organizzazioni “indesiderate”. Nel 2022 e nel 2023 il numero dei procedimenti aperti è stato quasi identico (58 e 55). Quest’anno, invece, fino a giugno, il numero di casi è quasi raddoppiato: i procedimenti contro le organizzazioni “indesiderate” sono al momento 101.
Andrei Pivovarov, oppositore politico originario di San Pietroburgo, già direttore di Open Russia (organizzazione fondata dal magnate Mikhail Khodorkovsky), è stato scarcerato nello scambio di detenuti dell’inizio di agosto.

Mosca ha ottenuto la liberazione di alcune spie che hanno potuto fare ritorno in Russia. Pivovarov – considerato da Memorial un “prigioniero politico” – è stato in carcere per quasi quattro anni in una colonia della Carelia. Il suo è stato il primo caso di condanna in Russia per «aver guidato un’organizzazione indesiderabile». Stava finendo di scontare per intero la pena. Gli restava solo un altro mese di carcere e l’utilizzo del “fondo di scambio” ha anticipato la sua liberazione.

Putin critica quello che lui sta facendo (italiaoggi.it)

di Marino Longoni

Secondo la Tass, Vladimir Putin, dopo l'ingresso 
delle truppe ucraine nella regione de Kursk 
avrebbe dichiarato che 

«Non ci sarà alcun negoziato di pace con Kiev a causa dell’offensiva ucraina. Di cosa possiamo parlare con gente che colpisce indiscriminatamente i civili e cerca di minacciare le centrali nucleari?».

Qualche giorno fa aveva accusato gli ucraini di «sparare indiscriminatamente con diversi tipi di armi, compreso quelle missilistiche, contro edifici civili». Esattamente quello che lui sta facendo con tutte le sue forze da oltre due anni. Dichiarazioni che lette con un minimo di senso critico, sconfinano tra l’allucinato e una propaganda di regime convinta che i suoi cittadini abbiano perso ogni contatto con la realtà.

Ed in realtà in Russia dichiarazioni demenziali di questo tipo sono frequentissime, quasi quotidiane. Probabilmente al Cremlino danno per scontato che l’unica verità è quella che promana dalle dichiarazioni ufficiali. Per loro la realtà non esiste, se è in contrasto con le dichiarazioni ufficiali e con gli interessi di chi comanda.

Se in Europa qualcuno avesse osato affermare che non si può trattare con “gente che colpisce indiscriminatamente i civili e cerca di minacciare le centrali nucleari”, sarebbe stato sommerso dalle critiche e dagli insulti. Putin ha lanciato sull’Ucraina centinaia di migliaia di razzi, missili, droni, proiettili d’artiglieria di ogni tipo.

Ne ha invaso il territorio, distrutto le città, provocato un esodo di proporzioni bibliche, ha cercato di distruggere le centrali elettriche, le dighe, gli ospedali, tiene in ostaggio la centrale atomica più grande d’Europa. E non si capacita che da qualche giorno anche gli ucraini stiano cercando di imitarlo.

Eppure, in Russia dichiarazioni spudorate come queste scivolano via come l’olio, ogni uscita del presidente è accompagnata dai peana dei cortigiani e di tutto il sistema della comunicazione pubblica. Anche quando il contrasto tra le parole e la realtà è così stridente da implicare che l’opinione pubblica abbia subito un lavaggio del cervello o una lobotomia.

Eppure, in occidente c’è ancora qualcuno, come Salvini, Grillo, Orbán, Le Pen, che tra il nostro sistema democratico, con tutti i suoi difetti, ed il regime post sovietico, preferisce ancora quest’ultimo.

Islamismo radicale e nazismo, il patto per sterminare gli ebrei anche in Medio Oriente: da Amin al-Husseini a Yaya Sinwar (ilriformista.it)

di Paolo Guzzanti

Una discendenza storica diretta

Il ruolo del Gran Muftì di Gerusalemme nella diffusione dell’ideologia nazista in Medio Oriente, la creazione di battaglioni di SS arruolati da Siria e Iraq e l’impatto sulle comunità ebraiche nei paesi arabi: il filonazismo arabo prima della nascita dello Stato di Israele

Il filonazismo arabo prima che Israele esistesse, il gran Muftì di Gerusalemme a Berlino e la nascita delle SS irachene e siriane, usate dopo la guerra per imporre il partito Baath (successore del partito nazista). Che fine hanno fatto gli 800 mila ebrei nei paesi arabi prima che Israele nascesse. I movimenti di sinistra filopalestinese e filo Hamas negano con un’alzata di spalle la discendenza diretta dell’ideologia di Hamas, di al-Qaeda e della Jihad dal nazismo hitleriano e dal fascismo di Benito Mussolini.

Mussolini, invidioso come sempre di Hitler, si autodichiarò “Spada dell’Islam”, fotografato su un cavallo bianco brandendo uno spadone.  Ma è tutto vero: Amin al-Husseini, Gran Muftì di Gerusalemme e massima autorità religiosa nel mondo sunnita, si piazzò a Berlino dal novembre 1941 fino alla fine della guerra per convincere Adolf Hitler a sterminare non soltanto tutti gli ebrei europei, ma gli ebrei che da secoli vivevano nelle comunità islamiche, e la minacciosa banda di agricoltori mitteleuropei – i terribili sionisti ispirati dall’austriaco Theodor Herzl che avevano legalmente acquistato aree incolte secondo le leggi e reso fertili le paludi malariche e il deserto al di qua del Giordano.

Il loro successo agricolo stava provocando lo spostamento di disoccupati arabi dall’Egitto, dall’Iraq, dalla Siria che si sistemavano intorno ai Kibbutz socialisti dove erano gli unici pagati, perché agli ebrei era vietato l’uso del denaro e anche i figli erano considerati comuni. Il successo degli intrusi che pagavano bene la mano d’opera araba era, per tutti gli islamici come Amin el-Husseini, un oltraggio che doveva essere curato in un solo modo: lo sterminio di tutti gli ebrei e specialmente dei loro bambini.

Riuscì a impedire uno scambio di quattromila bambini ebrei per altrettanti prigionieri tedeschi e col permesso di Hitler e l’entusiasmo di Himmler arruolò centomila arabi siriani e iracheni che nell’uniforme delle SS furono addestrati e rispediti in Medio Oriente per rifornire Auschwitz di tutti gli ebrei che, oltre ai sionisti, vivevano da secoli nei paesi arabi.

La sua azione era diretta oltre che contro gli ebrei anche contro gli inglesi che si erano impadroniti dopo la Grande Guerra della parte orientale della Terra Santa, a cui restituirono il nome romano di Palestina inventato da Traiano nel 135, per indicare la Giudea e la Samaria.

Ancora non c’era stata la Shoà (o meglio era segretamente in corso) e gli ebrei che vivevano in Egitto e in Medio Oriente erano poco meno di un milione. Oggi sono scomparsi, salvo pochi scampati in Israele. La nascita dello Stato ebraico fu decretata da una decisione delle Nazioni Unite insieme a quella di uno Stato palestinese che Al-Husseini e la Lega Araba rifiutarono con le armi in pugno, scatenando la prima guerra contro Israele, che vinse grazie al disperato coraggio dei ragazzi reduci del Ghetto di Varsavia.

Al-Husseini teorizzò l’obbligo dello sterminio di tutti gli ebrei e in particolare dei neonati e delle donne fertili, poi delle nonne e infine di ogni arabo non fedele ai “Fratelli Musulmani” (il gruppo da cui deriva Hamas).

Fu così che anche gli ebrei che nei secoli avevano vissuto in relativa serenità nelle società arabe diventarono bersaglio dei pogrom sterminatori. Il partito Nazional-socialista tedesco vinse le elezioni nel 1933, e il 30 gennaio Adolf Hitler ricevette l’incarico di Cancelliere col programma di riprendersi ogni terra che parlasse tedesco e liquidare tutti gli ebrei tedeschi, europei e del mondo intero. Hitler non aveva alcuna simpatia razziale per gli arabi che chiamava “mezze scimmie”, ma si convinse che l’Islam era una ferrea ideologia sorella del nazismo.

Così dal 1941 Hitler strinse rapporti sempre più stretti con Al-Husseini, che si era trasferito stabilmente a Berlino e che amava anche Mussolini. Da Hitler ricevette un certificato di “pura razza ariana”: sono visibili foto e filmati che lo mostrano mentre passa in rivista battaglioni di SS, circa centomila, arruolati da Siria e Iraq. Quelle formazioni furono usate dopo la guerra per imporre il partito Baath o Baas, successore del partito nazista ma generosamente considerato nel dopoguerra un partito socialista.

Il dominio assoluto degli arabi islamici (e anche dei numerosi arabi cristiani) era stato dunque incrinato dal pacifico e troppo laborioso arrivo dei visionari sionisti tedeschi, in genere di fede socialista o comunisti egualitari che sognavano una società senza denaro e senza proprietà, figli compresi.

Furono loro ad aver acquisito con regolari contratti registrati dall’impero Ottomano appezzamenti di terreno desertico o paludoso sulla riva sud del Giordano. Chiunque può vedere questi coloni in migliaia di foto, che mostrano fra l’altro la natura desertica e disabitata della Terra Santa.

Molti scrittori dell’Ottocento visitarono quella Terra Santa, fra cui l’Americano Mark Twain e l’italiano Edmondo De Amicis: tutti descrissero la desolata landa come un deserto alternato a paludi malariche, pochi pastori.

L’arrivo dei coloni tedeschi che cominciarono a trasformare paludi e deserto in aziende agricole, i kibbutz, provocò la crescita della popolazione araba che l’impero britannico classificò come “palestinesi”. Tutti erano palestinesi: Golda Meyr, che diventerà Primo ministro di Israele aveva un passaporto “palestinese”. 

Molto prima che esistesse il “foyer ebraico” promesso dagli inglesi nel 1917 la presenza di ebrei europei si era posta alle autorità islamiche: questi ebrei ricchi di progetti e attrezzature non somigliavano ai miti sefarditi, cittadini di seconda classe nelle comunità islamiche. Erano per lo più atei e socialisti, guidati una fede laica da cauterizzare come un’infezione.

Altro che due Stati: dal Giordano al mare, soltanto Palestina: come è stato mostrato il 7 ottobre 2023, dall’ultimo discendente di Al-Husseini, il ricercato Yaya Sinwar, capo di Hamas nascosto in qualche tubo del sottosuolo di Gaza.

(Il gran Muftì di Gerusalemme a Berlino)

Cos’è questa storia di Angela Carini nello spot dell’azienda che costruirà il Ponte sullo Stretto (fanpage.it)

di Annalisa Girardi

Angela Carini è tra le protagoniste di una campagna 
pubblicitaria della Webuild, l’azienda incaricata 
di costruire il Ponte sullo Stretto. 

E non sono mancate le polemiche e l’ironia sui social.

Una campagna pubblicitaria “per promuovere i valori dell’Italia che vince nel mondo”: è quella realizzata da Webuild, l’azienda incaricata di costruire il Ponte sullo Stretto, che ha come protagoniste diverse atlete, tra cui anche Angela Carini. Ma dopo le polemiche esplose durante le Olimpiadi di Parigi sul match con Imane Khelif – che ha poi vinto la medaglia d’oro – la pugile azzurra è stata presa di mira dall’ironia sui social.

La campagna si chiama “Webuild per lo sport. Costruire un sogno: storie di campionesse”. Uno spot a cui hanno partecipato, oltre a Carini, diverse atlete italiane:  la velista Caterina Banti, la judoka Alice Bellandi, e le velociste Zaynab Dosso e Antonella Palmisano. Ad ognuna di loro è stata affiancata una qualità: audacia, perseveranza, resilienza, tenacia e passione, quest’ultima scelta proprio per Carini.

Nel video diffuso dall’azienda sui social si vedono le cinque atlete impegnate ad allenarsi, delle immagini accompagnate da messaggi motivazionali che invitano a non mollare mai e andare sempre avanti. E sono subito partiti i commenti ironici e gli sfottò degli utenti.

La pugile è finita nelle scorse settimane al centro delle polemiche per aver abbandonato il match con l’avversaria algerina, Imane Khelife, dopo essere rimasta sul ring letteralmente meno di un minuto: 46 secondi, per la precisione. Il ritiro è arrivato dopo che nei giorni precedenti erano circolate vere e proprie fake news su Khelife, che era stata definita un’atleta transgender, quando non lo è.

Tra i commenti degli utenti c’è chi scrive che come Carini non ha finito il suo match, nemmeno il Ponte verrà mai davvero portato a termine. Oppure, chi dice che “se il Ponte avrò la stessa resistenza di Carini siamo in una botte di ferro”. E così via, tra messaggi decisamente poco carini verso l’atleta e diverse critiche alla scelta dell’azienda sulla campagna pubblicitaria.

Va detto che molto probabilmente si tratta di uno spot registrato prima dei giochi olimpici e di tutte le polemiche che ci sono state in queste settimane, anche se è stato diffuso solo alcuni giorni fa.

Ad ogni modo, si presume che il risultato ottenuto non sia quello a cui puntava la Webuild.