Ma smettila! Nazionalismi e paure (doppiozero.com)

di Enrico Palandri

Di fronte alle insidie della destra in tutta 
Europa è difficile non retrocedere in analogie 
con il passato poco utili. 

Il passato non illumina l’agire politico, ci offre una grammatica attraverso cui tentiamo di leggere quello che avviene, ma proprio come la lingua, dove conoscere etimologie non ne raffina o precisa l’uso, così nel pensare il mondo, la storia, sempre utilizzata con grande disinvoltura da tiranni di ogni tipo, dalla riedizione dell’impero romano di Mussolini alle farneticazioni putiniane che accompagnano i suoi carrarmati, non chiarisce il presente. Al più, proietta alle nostre spalle la nostalgia di senso per quel di cui siamo parte.

Per restare nell’analogia tra lingua e storia, la lingua che parliamo è fatta di mancanze, eccezioni, errori. Il parlato è sempre superiore al parlare correttamente, così come lo stile nella scrittura è profondo, incontrollabile, non la ripulitura che si dà alla fine a un manoscritto.

In generale le irregolarità sono il conto che la realtà ci presenta continuamente, riemersioni da substrati, invenzione di gerghi che travolgono le norme. È proprio quel che è irregolare a mostrare l’arbitrio e a volte la violenza delle norme. Le lingue naturali sono piene di incrostazioni, traumi, impennate, rivisitazioni, traduzioni.

Tutto è sempre molto imperfetto. Vorremmo poter dire le cose in modo chiaro e semplice e già il volerlo racconta come in realtà quanto vogliamo raccontare sia più complicato, quante lingue, dialetti, registri, quanti comportamenti erotici e umani, quanti miscugli di Dei e umani, rimozioni e ricerche si agitino nel fondo, insomma quanto tutto è ampio.

Dar forma a quello che si svolge in noi e davanti ai nostri occhi è un materiale che vorremmo fosse passato, ma preme invece da ogni lato, risorge, come la colpa, il rimpianto e il rimorso, come l’Angelus Novus di Benjamin, come le azioni dei padri e dei nonni, il fascismo che non muore mai, i crimini degli Argolidi (Agamennone, Clitemnestra, Oreste cc.) o dei Labdacidi (Cadmo, Labdaco, Laio, Edipo, Antigone Eteocle, Polinice e Ismene). Cicli di colpe che rinascono di generazione in generazione.

Anche più intimamente, la consapevolezza di un’ombra interna, quella che la psicanalisi descrive come inconscio e la letteratura e la musica coltivano con arte, il nostro segreto che si scioglie tra le braccia di un altro, quando l’inquietudine di essere se stessi si apre e si svolge in una relazione che ci accoglie, sono il marchio della diversità.

Siamo diversi, sempre, dai nostri fratelli e genitori, dai vicini e dai compagni di scuola, dai passanti che come noi si sfiorano nelle strade della città. Consapevoli della nostra diversità, sorridiamo appena possiamo abolirla: scambiare due parole simpatiche con il giornalaio o il nostro barista, incontrare uno sconosciuto, sciogliere il peso di essere sé. Andare verso l’altro e, quando ci riesce, amare e conoscere.

È così bello sorridere, che insieme è resa e incontro con l’altro, che sembra di ritrovare la vita. Smettere la propria diversità, lasciarsi attirare in un’abitudine in cui impariamo a smussare i nostri tratti distintivi per abitare quel luogo in cui essere sé non è più così difficile.

Ma smettila! ci dice un amico con un invito scherzoso chiedendoci di non arroccarci in noi e tornare a essere insieme. A volte è possibile, si sorride di se stessi e si torna a far parte della vita con gli altri. A volte invece non riesce, l’ombra è troppo ampia, lì qualcuno si è suicidato, o c’è stata una violenza sessuale, o la guerra non è finita, tornare al tono scherzoso è troppo difficile, anzi ci irritiamo per la superficialità degli altri.

© Louise Bourgeois
(© Louise Bourgeois)

Tutto in noi allora torna diverso: in noi è precipitato male, la lingua, il corpo, la storia nella forma di nazioni che si sono combattute, migrazioni, assimilazioni, l’età, il genere, in breve, tutto il passato. Quello che è in definitiva l’inconscio freudiano, lo straniero che è in noi, il passato che Dio sa se ci piega la schiena.

In una intervista che avevo fatto a Londra circa trent’anni fa a Carlo Dionisotti per il Mattino di Napoli, gli avevo chiesto del fascismo. Parlando delle manifestazioni nella sua giovinezza e di chi erano i fascisti mi disse: i nazionalisti. Gli interventisti del 1914, i reduci ubriachi di patriottismo, di revanscismo, i nati dalla nostalgia.

Le diverse forme che prendono gli stati in Europa e l’Europa stessa, i contrasti che si articolano nelle elezioni americane, nella guerra in Ucraina o nello sterminio a Gaza, hanno tutte a che fare con la risposta di Dionisotti.

La grande passione come filologo di Dionisotti era stata il Quattro e Cinquecento italiano, ma aveva vissuto la maggior parte della vita adulta in Inghilterra ed era un appassionato lettore di Ugo Foscolo. Intorno al nostro romanticismo aveva visto formarsi un’idea di nazione moderna e la sua ideologia: il nazionalismo. All’inizio pieno di promesse, vi aderirono i migliori poeti e scrittori di almeno due generazioni. In seguito, sempre più prigioniero di una decadenza malmostosa, era finito nel fascismo.

Certo, parlavano d’Italia anche Dante e Petrarca, Machiavelli addirittura ipotizzando una certa unione politica, ma nessuno di loro aveva in mente il progetto che ci è diventato così familiare e che ci fa oggi dire che essere italiano o tedesco, argentino o senegalese debba avere un significato, anche se è difficile spiegare quale sia. Se è il passaporto, ora che il passaporto europeo è desiderabile, ci sono pressioni dai russi a Cipro ai sudamericani discendenti di europei di diverse generazioni fa che hanno più o meno diritto ad averlo. Sono certo molti più dei nati e residenti in Europa.

E perché dovrebbe avere più diritto a questo ambito documento qualcuno che è nato in Italia ma ha vissuto tutta la vita in Argentina, o magari i suoi figli o nipoti, piuttosto che un africano che sia arrivato illegalmente ma lavora in Italia? Se è l’adesione ai colori nello sport, quale più bella nazionale di quella allenata dall’argentino Velasco con Sylla, Egonu, Antropova, tra le nostre stelle?

Ma non è un’adesione sentimentale che fa la nazione, sono piuttosto cicli storici che in ognuno di noi mescolano materiali diversi. Mia nonna, come tutti quelli nati prima della prima guerra mondiale in buona parte del nord est, era nata austriaca; l’Italia aveva del resto solo cinquant’anni di più e il sogno romantico nazionalista era già in brandelli.

Negli USA i discendenti di emigrati irlandesi (dai Kennedy ad Obama a Biden) o italiani, o gli WASP (white anglo saxon protestant), che a parte qualche famiglia arrivata con il Mayflower sono in gran maggioranza emigrati in America 100 o 150 anni fa, sembrano opporsi all’immigrazione di oggi. In base a quale principio? Oggi non si entra ma 100 anni fa sì? L’aver sterminato i nativi dà un diritto?

Nelle nostre biografie registriamo tutti il continuo passaggio delle forme dello stato da confederazioni e imperi a stati nazione e viceversa, i primi ispirati da una forma di integrazione di lingue e culture, o di sottomissione a una cultura dominante, i secondi appellandosi a una purezza che prende le armi contro gli altri. In tutti e due i casi siamo vulnerabili e diversi. Per origini, abitudini sessuali, per come percepiamo il nostro aspetto fisico.

Non solo il colore della pelle ma anche l’altezza, il colore degli occhi, il tipo di corpo. Per come parliamo. A volte di più e a volte di meno, ma quando gli adolescenti si tormentano per il loro aspetto confrontandosi con idoli del cinema o del calcio, rivisitano dolorosamente una storia complicata quanto la lingua. Perché siamo diversi da idoli del calcio o della canzone? Come possiamo amare noi stessi e gli altri se questa diversità ci segna profondamente?

Qualcuno dovrebbe dirci ma smettila! ma siamo circondati da guerre, gente che oggi affoga nel mediterraneo come nel secolo scorso si vedeva invasa, perseguitata, ridicolizzata da altri che si rifugiavano in un’ideale identità nazionale per paura della propria diversità. Per questo il fascismo è sempre omofobo, anti-migrazione, tende a imprigionare le donne, a sopprimere tutto quel che è diverso.

Quando si scatenano i pogrom alcuni, se possono, scappano, altri tentano di mimetizzarsi, assimilarsi, altri ancora si uniscono ai persecutori. Apollinaire, nato a Roma Guglielmo Alberto Wladimiro Apollinaire de Kostrowitzky, diviene un interventista francese per cercare di venire accolto nel delirio nazionalista che precipita nella prima guerra mondiale. Questo è il dolore di ognuno: la molteplicità della differenza e il terrore delle ondate di conformismo che risorgendo perseguitano i diversi e quindi ognuno di noi.

La ricerca di identità nasce dalla profonda cognizione di quanto sia impossibile, così come è impossibile un amore sempre perfetto. La parola identità (da idem, medesimo) è un parossismo, perché non c’è mai o nulla di medesimo in noi, se non la prepotenza narcisista che vuole sopprimere l’altro e immagina di farlo per amore, assimilandolo a sé nel perverso desiderio di immaginare che l’amore per l’altro alla fine della fiera sia amore di sé. Un amore così non lo desideriamo affatto.

È con l’altro che si aprono le porte, che il diverso, l’estraneo, lo sconosciuto sia il fondo del nostro carattere, il non familiare. Un fondo che non è storia e non è mai passato. Quanto sia impossibile dare una forma a quello che in noi tira in ogni direzione e si rifiuta a una regola è l’esperienza di ogni vivere. Non c’è maglioncino di cashmere o impiego rispettabile che possa calmare questa inquietudine.

La paura che nasce quando iniziano a serpeggiare nella società i temibili rivendicatori di purezze nazionali, etniche, religiose, linguistiche o di comportamento, è solo il senso della realtà. Sappiamo che si sforzano di rinchiudere l’altro nel proprio specchio e che mandano il cacciatore nella foresta con Biancaneve, perché gli riporti il cuore di chi lo specchio stesso gli ha rivelato essere più bello: l’altro.

(Immagine di copertina: © Seomin Ko)

© Seomin Ko

Qual è la posizione di Harris e Walz sulle principali questioni politiche del 2024 (politico.com)

di Declan Harty

Elezioni 2024

L’ascesa del ticket Kamala Harris-Tim Walz ha riempito un anno di campagna elettorale già caotico di “mocciosi” e “strani” e ha trasformato la miseria del Partito Democratico in una cauta euforia.

Colpo alla testa del candidato

Harris – Potrebbe non attirare gli elettori indecisi / L’obiettivo principale per i repubblicani

Colpo alla testa del candidato

Walz – Può attirare gli elettori indecisi / Non è un obiettivo importante per i repubblicani

Ora, la coppia ha 11 settimane per convincere gli elettori di ciò che un’amministrazione Harris-Walz potrebbe effettivamente significare.

Ci sono aree in cui il duo è effettivamente in sintonia sulle questioni principali del Partito Democratico, incluso il diritto all’aborto: la vicepresidente ha fatto dell’aborto un pilastro della sua nascente campagna, e l’esperienza personale della famiglia Walz con la fecondazione in vitro è un’opportunità per presentare ulteriormente l’assistenza sanitaria riproduttiva come una questione che gli uomini dovrebbero valutare a novembre. Anche.

Ma dopo quattro anni di lavoro all’ombra del presidente Joe Biden, Harris si sta ancora ripresentando agli elettori al di fuori della sua nativa California, rendendo nuovamente rilevanti le sue precedenti posizioni politiche anche se, su alcune questioni, rompe con il fianco sinistro del suo partito.

Walz, il governatore del Minnesota, è destinato a fungere da complemento a Harris, in particolare perché lei e l’ex presidente Donald Trump fanno un gioco per i sindacati fedeli a Biden.

Ma le posizioni politiche in cui Harris e Walz rimangono in qualche modo ambigue aprono una strada a Trump e agli altri repubblicani per inquadrare la loro nuova competizione di fronte agli elettori prima che lo facciano i candidati.

Ecco un corso accelerato su dove si colloca il ticket Harris-Walz su molte delle questioni principali di oggi, su come le loro politiche possono giocare con gli elettori e se stanno diventando il bersaglio degli attacchi del GOP.

L’economia

Per molti elettori, la competizione tra Harris e Trump riguarda principalmente quale candidato genererà la maggiore spinta finanziaria.

Malconci da anni di prezzi alle stelle, pesanti pagamenti con carta di credito e un mercato immobiliare cupo, gli americani sono iperfissati su ciò che la corsa del 2024 significherà per l’economia e se il presidente entrante riuscirà ad alleviare parte della tensione finanziaria avvertita negli ultimi quattro anni.

Harris è riuscito a evitare gran parte del controllo economico che incombeva sulla campagna di Biden e un recente sondaggio ha mostrato che il vicepresidente sta rapidamente guadagnando la fiducia degli elettori sull’economia. Venerdì ha iniziato a presentare i suoi piani economici in un discorso incentrato sulla riduzione dei costi per gli americani comuni, chiedendo al Congresso di vietare l’aumento dei prezzi da parte delle multinazionali alimentari.

Questo messaggio fa eco a una spinta più ampia tra i democratici che vedono le questioni dell‘”economia della cura” come un modo per fare appello agli elettori di tutto lo spettro politico. È anche uno che si incastra con il record di Walz in Minnesota.

A St. Paul, Walz, il cui appeal tra gli elettori della classe operaia e nel Midwest è stato un’attrazione per la campagna di Harris, ha trascorso gli ultimi anni concentrandosi sull’affrontare le spese quotidiane. Ha promulgato una legislazione che garantisce il congedo familiare e medico retribuito e fornisce centinaia di milioni di dollari in crediti d’imposta ai genitori del Minnesota, muovendosi anche per espandere le opzioni abitative a prezzi accessibili. Harris ha già sostenuto proposte simili in precedenza.

Ma l’economia è ancora in sospeso per i democratici che si dirigono verso il loro conclave di Chicago questa settimana: mentre l’inflazione è diminuita, la disoccupazione è aumentata inaspettatamente a luglio, e la maggior parte degli americani pensa che gli Stati Uniti siano in recessione – e Trump si sta appoggiando all’idea. Durante una pausa della campagna elettorale la scorsa settimana, l’ex presidente ha affermato che una presidenza Harris manderebbe i mercati finanziari e l’economia a barcollare in “una depressione in stile 1929”.

Aborto e fecondazione in vitro

Quando Biden è uscito dalla corsa il mese scorso, Harris si è affrettata a orientare la campagna su una questione che negli ultimi anni ha costantemente radunato gli elettori dietro i democratici: l’aborto.

La vicepresidente si era già affermata come voce di spicco e forte sui diritti riproduttivi all’interno dell’amministrazione dopo che la Corte Suprema aveva ribaltato la sentenza Roe v. Wade nel 2022. Ma la decisione di Harris di assumere una posizione più moderata sull’accesso all’aborto una volta in testa alla lista ha reso il record della sua compagna di corsa sulla questione più importante per la base del partito.

Nel 2019, ha chiesto protezioni che andassero oltre la Roelimitando le restrizioni statali sull’aborto. Ma la campagna di Harris ha detto che ora sostiene la posizione di Biden di ripristinare la Roe, che ha protetto l’aborto fino al punto di vitalità fetale.

Walz ha una lunga esperienza nella protezione dei diritti riproduttivi. L’anno scorso ha firmato una legge che codifica il diritto all’aborto, un punto che la campagna di Harris ha richiamato poco dopo che la vicepresidente ha nominato Walz come suo compagno di corsa. E a marzo, Harris e Walz hanno visitato un centro sanitario di Planned Parenthood in quella che è stata la prima volta che un vicepresidente o un presidente in carica è stato in una clinica che fornisce aborti.

Il governatore del Minnesota ha un interesse personale nella protezione dei diritti riproduttivi al di là dell’aborto. Lui e sua moglie hanno usato la fecondazione in vitro per concepire i loro due figli, che Walz ha incorporato nel suo discorso durante la campagna elettorale.

I sondaggi mostrano che la maggioranza degli americani sostiene la conservazione dell’accesso alla fecondazione in vitro e all’aborto nella maggior parte dei casi.

Ma l’opposizione alla fecondazione in vitro tra i conservatori religiosi e altri attivisti anti-aborto ha creato fratture all’interno del Partito Repubblicano che Walz può continuare a martellare come anti-famiglia. La questione è diventata un fattore nella corsa per la Casa Bianca dopo che la Corte Suprema dell’Alabama ha stabilito all’inizio di quest’anno che gli embrioni congelati possono essere considerati bambini secondo la legge statale, una sentenza che ha messo alle calcagna molti repubblicani.

Lavoro

Harris non ha perso tempo a cercare di bloccare il voto sindacale prima di novembre. Il suo tono: aspettatevi più o meno lo stesso.

Il movimento sindacale ha goduto di un’agenda inequivocabilmente incentrata sui sindacati da parte dell’amministrazione Biden, e Harris sta chiarendo nelle telefonate con i capi sindacali e nelle interruzioni della campagna elettorale che intende portarla avanti se sarà eletta. Finora, la sensibilizzazione ha dato i suoi frutti con le approvazioni. Tuttavia, non è ancora chiaro se i lavoratori di base – molti dei quali sostengono Trump – seguiranno l’esempio.

La vicepresidente ha una lunga esperienza con il lavoro organizzato che risale al suo periodo come procuratore generale in California. Alla Casa Bianca, ha presieduto una task force sull’empowerment dei lavoratori, un gruppo che cerca di abbattere le barriere per l’organizzazione dei lavoratori. E il presidente della United Farm Workers, Teresa Romero, ha recentemente attribuito a Harris il merito di aver rapidamente approvato le protezioni dal calore per i lavoratori all’aperto quest’estate.

L’aggiunta di Walz, che ha coltivato un passato favorevole ai sindacati come governatore, può solo aiutare.

I sindacati sono una parte centrale della base del Partito Democratico nell’alto Midwest, che è stato fondamentale per la vittoria di Biden nel 2020. E Walz ha molto di cui vantarsi per quella folla, in particolare perché gran parte della sua agenda sindacale riecheggia quella di Biden. L’anno scorso ha firmato una legge che vieta i nuovi accordi di non concorrenza, impedendo di fatto alle aziende di limitare la capacità dei lavoratori di passare a determinati concorrenti. I sindacati hanno anche applaudito le mosse di Walz per espandere il congedo retribuito e impedire ai datori di lavoro di costringere i lavoratori ad ascoltare messaggi antisindacali durante l’orario di lavoro.

“La gente del Midwest aveva bisogno di qualcuno che assomigliasse a un operaio dell’auto o di un’acciaieria, e questo è ciò che è Tim Walz”, ha detto di recente a POLITICO Chuck Rocha, uno stratega democratico. “Qualcuno che riporti indietro quegli elettori di Joe Biden”.

L’ambiente

Dopo essersi preoccupata che Biden potesse essere troppo moderato su una serie di questioni, la sinistra ha dovuto rispettare la sua eredità ambientale una volta che ha firmato una storica legge sul cambiamento climatico due anni fa. Tuttavia, questo record – e il sostegno ora invertito di Harris per un divieto del fracking – ha anche alienato alcuni degli elettori negli stati della Rust Belt come la Pennsylvania, un’apertura che Trump e altri repubblicani hanno cercato di sfruttare.

Questo ha reso Walz il pragmatico più convincente del ticket democratico.

Alcuni democratici avevano spinto in modo aggressivo affinché il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro corresse con Harris, citando come il suo sostegno all’industria dei combustibili fossili del suo stato d’origine avrebbe alleviato le preoccupazioni tra i sindacati. Ma Walz, che ha rappresentato un distretto storicamente conservatore al Congresso, ha un record molto più contrastante sulla politica ambientale di quanto indicherebbero i titoli dei giornali del suo governatorato progressista.

Al Congresso, ad esempio, Walz è stato raramente visto come un campione dell’ambiente dai suoi colleghi e ha votato per completare la costruzione dell’oleodotto Keystone XL. Come governatore, Walz ha irritato alcuni ambientalisti che sostengono che la sua amministrazione dovrebbe muoversi per fermare lo sviluppo minerario nel suo stato.

Harris sta anche affrontando domande da sinistra su come potrebbe differenziarsi da Biden, compresa la sua agenda climatica. Un’area che è emersa è la lunga e rumorosa difesa di Harris per le comunità nere, ispaniche e povere che sono state esposte a livelli di inquinamento smisurati.

Come procuratore distrettuale di San Francisco a metà degli anni 2000, Harris ha istituito un’unità di giustizia ambientale e ha sponsorizzato la legislazione sulla questione mentre prestava servizio al Senato. In qualità di vicepresidente, ha anche contribuito a garantire 15 miliardi di dollari per la sostituzione dei tubi dell’acqua potabile in piombo come parte della legge bipartisan sulle infrastrutture di Biden, ha riferito POLITICO.

E nonostante le sue posizioni sull’estrazione mineraria, una questione che è diventata più importante man mano che le nazioni si affannano per ottenere i minerali critici necessari per la tecnologia verde, i gruppi ambientalisti hanno ampiamente lodato la scelta di Harris come compagno di corsa. Il governatore del Minnesota è stato un forte sostenitore di standard di inquinamento automobilistico simili a quelli della California e di un requisito per l’energia a zero emissioni di carbonio entro il 2040.

Trump e i suoi alleati hanno, a loro volta, tentato di inquadrare Walz come una scelta di sinistra che sosterrà le politiche che alla fine costringeranno i posti di lavoro fuori dagli Stati Uniti.

Imposte

Mentre Harris ha precedentemente sostenuto politiche fiscali progressive come ha fatto la sua compagna di corsa, la vicepresidente ha già chiarito che non ha intenzione di aumentare le tasse per la maggior parte degli americani.

Pochi giorni dopo essere diventata la candidata presunta, la campagna di Biden ha rapidamente annunciato che Harris – come Biden – non avrebbe aumentato le tasse a chiunque guadagnasse meno di $ 400.000 all’anno se eletto.

La strategia è una mossa per rafforzare il sostegno di molti degli stessi elettori dei colletti blu che sono stati fondamentali per la vittoria di Biden nel 2020 – e cruciale a causa delle persistenti ansie che gli elettori hanno per l’economia.

In alcuni casi, Harris chiede persino tagli alle tasse. Il vicepresidente, in particolare, ha sostenuto un piano lanciato per la prima volta da Trump per porre fine alle tasse federali sulle mance, nonostante lo scetticismo diffuso tra gli economisti e i costi sbalorditivi per l’attuazione dell’idea. Harris ha sostenuto il piano mentre parlava a Las Vegas, dove un tale divieto potrebbe giocare bene in particolare con gli elettori latini.

Ma i precedenti di Harris e Walz suggeriscono che, se eletti, la loro amministrazione potrebbe guardare alla politica fiscale come mezzo per finanziare alcuni dei loro più grandi piani – un’apertura per i repubblicani a far saltare la coppia come classici liberali tassa-e-spendi.

Sotto Walz, il Minnesota adottò quelle che sono ampiamente considerate alcune delle politiche fiscali più progressive del paese. Il credito d’imposta per i figli del Minnesota, ad esempio, è stato finanziato da centinaia di miliardi di dollari che sono stati raccolti attraverso una nuova tassa sulle multinazionali come 3M, che ha sede a St. Paul. Il suo più ampio pacchetto fiscale da 3 miliardi di dollari ha anche ampliato i crediti per le spese per l’istruzione K-12 e ha tagliato le tasse per i beneficiari della previdenza sociale.

Agricoltura

La California può essere il più grande stato produttore agricolo della nazione, ma Harris non ha mai fatto dei terreni agricoli un punto di riferimento della sua carriera politica.

Walz, d’altra parte, ha fatto esattamente questo.

Nel corso di sei mandati al Congresso, il nativo del Nebraska ha fatto parte della Commissione Agricoltura della Camera e ha contribuito a redigere il sempre critico disegno di legge sull’agricoltura nel 2008, 2014 e 2018. E come governatore del Minnesota – il sesto più grande stato produttore di agricoltura – Walz ha dato il via libera alla legislazione per espandere l’accesso alla banda larga rurale e legalizzare la cannabis per uso adulto, una mossa che ha detto essere fondamentale per migliorare l’economia dello stato.

La politica agricola non è in cima alla lista delle priorità di molti elettori in vista delle urne, ma i suoi effetti a catena sui prezzi dei prodotti alimentari, sull’energia e sull’economia lo sono. I democratici sperano che l’attenzione di Walz per il Midwest rurale – insieme al suo comportamento popolare, al curriculum e alle capacità mediatiche – lo renderà ancora più caro tra gli elettori delle comunità che si sono sentite lasciate indietro dal Partito Democratico negli ultimi anni e che si sono schierate in modo schiacciante per Trump. La senatrice Tina Smith (D-Minn.) ha recentemente affermato che la “capacità di Walz di essere reale” è un punto di forza chiave per il ticket.

“Ha intenzione di convertire i repubblicani più accaniti? Probabilmente no”, ha detto in una recente intervista a POLITICO Mark Liebow, un funzionario locale del Partito Democratico-Contadino-Laburista che ha incontrato Walz per la prima volta nel 2006. “Motiverà i democratici e le persone che prima erano ai margini, nella categoria ‘meh’? Sì”.

Israele e Cina

Harris gode di un sostegno maggiore rispetto a Biden tra i giovani elettori che la vedono come una migliore messaggera nella guerra di Israele contro Hamas, ma continua a subire pressioni dal fianco sinistro del suo partito per il continuo sostegno degli Stati Uniti a Israele.

Walz potrebbe aiutare a rassicurare quegli elettori che la sua amministrazione adotterà un approccio più empatico al conflitto rispetto a Biden.

Alcuni critici del sostegno degli Stati Uniti a Israele hanno detto di sentirsi fiduciosi sulla scelta di Walz. Mentre Walz ha condannato gli attacchi di Hamas contro Israele il 7 ottobre, ha anche invitato i democratici a impegnarsi con le preoccupazioni degli elettori “non impegnati”.

“Walz è un bersaglio mobile. Penso che possiamo ottenere qualche vittoria in più da lui”, ha detto in una recente intervista Asma Mohammed, un’organizzatrice filo-palestinese.

Harris non ha nemmeno la buona fede militare che può alleviare i dubbi persistenti sulle capacità di sicurezza nazionale di un candidato. Ma Walz, un veterano che si è costruito una reputazione a Capitol Hill come sostenitore di migliori benefici per i membri del servizio, potrebbe aiutare a bilanciare questo e consentire alla campagna di Harris di fare breccia tra le famiglie dei militari.

I repubblicani hanno scavato nella storia militare di Walz cercando di neutralizzare quell’effetto. Molti di loro stanno criticando la tempistica del suo ritiro dalla Guardia Nazionale dell’Esercito, prima del dispiegamento della sua unità in Iraq, e sottolineando le inesattezze del passato nel modo in cui Walz e la campagna di Harris hanno descritto il servizio militare di Walz.

I legami personali di Walz con la Cina e le dichiarazioni passate sulle relazioni tra Stati Uniti e Cina hanno già generato attacchi repubblicani secondo cui il democratico del Minnesota è troppo conciliante nei confronti di Pechino, un bersaglio preferito di Trump. Alcuni repubblicani hanno anche insinuato che Walz, che ha insegnato inglese in Cina poco dopo la laurea e ha organizzato viaggi per gruppi di studenti nel paese con sua moglie, promuoverà gli interessi cinesi se eletto vicepresidente.

Eric Bazail-Eimil ha contribuito a questo rapporto.

La minaccia del ritorno del fascismo in Europa e negli Usa: l’analisi del Der Spiegel che cita anche Meloni

di Dario Conti

Il settimanale tedesco Der Spiegel analizza il 
rischio di un ritorno del fascismo citando 
Le Pen e Trump, ma anche Giorgia Meloni.

C’è anche Giorgia Meloni.

Il suo è uno dei nomi citati dal settimanale tedesco Der Spiegel in un viaggio attraverso l’Europa e gli Stati Uniti per lanciare l’allarme su quello che viene ritenuto il rischio di un ritorno al passato più oscuro del nostro continente, un ritorno al fascismo.

Da Donald Trump a Marine Le Pen, passando per i tedeschi di Alternative fuer Deutschland, la copertina del giornale tedesco parla di uno spettro che aleggia sull’Europa e che può diventare sempre più concreto in futuro. Perché non ci sono solo i partiti di estrema destra che già governano in diversi Paesi, Italia compresa, ma anche quelli che potrebbero raggiungere il potere con le prossime elezioni, a partire dagli Stati Uniti con Trump.

“Come inizia il fascismo. Gli Hitler nascosti”, è il titolo dello Spiegel in cui viene citata anche la presidente del Consiglio italiana. La copertina del settimanale è dedicata ai volti di Bjoern Hoecke (di Alternative fuer Deutschland), Marine Le Pen (leader del Rassemblement National francese) e Donald Trump (in corsa per le presidenziali Usa).

La minaccia del ritorno del fascismo: l’allarme dello Spiegel

La prima preoccupazione i tedeschi la vedono in casa: a settembre ci sarà il voto delle elezioni amministrative nei Laender dell’est. I sondaggi dicono che un’affermazione dell’Afd è probabile e proprio da questo timore nasce l’analisi sulla minaccia del ritorno del fascismo.

“Il ritorno del fascismo è la paura atavica della società democratica moderna. Ma ciò che a lungo suonava come un qualcosa di isterico e inimmaginabile, sembra diventato nel frattempo serio e reale”, è il concetto di base da cui parte il racconto del settimanale tedesco. Un rischio “serio e reale”, quindi, tanto più se si pensa che in alcuni Paesi è già molto concreto.

I casi citati dallo Spiegel sono diversi. E tra questi c’è anche quello italiano, con Giorgia Meloni nominata – e immortalata nelle foto – insieme al presidente russo Vladimir Putin e al premier ungherese Viktor Orban. Situazioni ritenute, quindi, almeno in parte simili. I giornalisti tedeschi fanno quindi una lunga lista di esempi, prima di arrivare ad analizzare la situazione statunitense, quella che può avere – con le elezioni di novembre – maggior peso a livello globale.

Una lunga lista

Der Spiegel fa quindi riferimento alle “ambizioni imperialiste” di Putin, al “governo nazionalista” di Nerendra Modi, ma anche alla “vittoria di Meloni in Italia”. Non è finita qui, nell’elenco rientra anche la “strategia di normalizzazione di Marine Le Pen in Francia”, così come “la vittoria di Javier Milei in Argentina” e la “dominanza autocratica di Viktor Orban in Ungheria”.

La minaccia è ben più larga di quel che si possa pensare, tanto che la lista continua: “Il comeback di FPOE in Austria o di Geert Wilders in Olanda. Afd nell’est della Germania. Il dominio autocratico di Nayb Bukele a El Salvador, passato per lo più sotto traccia ma incredibilmente determinato, dove il parlamento è stato costretto con la violenza delle armi alle decisioni”. E, per chiudere in bellezza, viene citato il “rischio di una rielezione di Donald Trump” negli Stati Uniti.

Al di là delle singole situazioni, secondo il settimanale tedesco ormai il ritorno del fascismo è diventato un tema discusso, “in politica, nei media, fra cittadine e cittadini, nei think tank, fra politologi e filosofi”. E discusso “seriamente”. “La storia si ripete? C’è un nuovo fascismo? Aiutano le analogie storiche? Cosa è andato storto? E potrebbe accadere che la democrazia aiuti la ricostruzione di un mostro che costituisce il suo più grande terrore?”, si chiede il Der Spiegel nella sua analisi.

Una discussione non del tutto nuova, che in Italia va avanti sin dalla campagna elettorale del 2022 che ha poi visto la vittoria di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia, ma che oggi arriva anche al di fuori dei nostri confini, in Germania e in Europa.

Qui un tempo era tutta Lega (pagellapolitica.it)

di Federico Gonzato

Veneto
In Veneto il partito ha perso un milione di voti in pochi anni. Secondo gli ex dirigenti locali delusi, dietro al calo ci sono la gestione del partito e i dubbi sul futuro di Luca Zaia

«Siamo tornati alle percentuali che prendevamo con Umberto Bossi, ma senza l’ideale che ci guidava all’epoca e senza il nostro popolo». Così Francesco Tranossi, ex segretario della sezione della Lega a Scorzè, comune di ventimila abitanti in provincia di Venezia, riassume la situazione in Veneto del suo partito, o meglio: del suo ex partito. Dopo una militanza di quasi trent’anni, prima nella Lega Nord guidata da Bossi e poi nella Lega di Matteo Salvini, a giugno di quest’anno Tranossi è stato ufficialmente espulso dal partito.

Alle elezioni comunali dell’8 e 9 giugno, insieme a una parte dei militanti della sezione locale della Lega, Tranossi non ha sostenuto a Scorzè  il candidato sindaco del centrodestra Giovanni Battista Mestriner, esponente di Fratelli d’Italia e «imposto», secondo Tranossi, dai vertici provinciali della Lega in virtù di accordi elettorali. «Se un tempo le decisioni venivano prese consultando le sezioni locali, ora nella Lega le decisioni arrivano dall’alto e non c’è quasi mai la possibilità di discuterle. Altrimenti sei fuori», ha aggiunto a Pagella Politica l’ex segretario leghista, che alle elezioni comunali ha appoggiato la ricandidatura della sindaca leghista uscente Nais Marcon, sostenuta da due liste civiche e sconfitta da Mestriner al ballottaggio con circa 400 voti di scarto. Nonostante la vittoria del centrodestra unito, alle elezioni di Scorzè la lista della Lega ha raccolto meno del 4 per cento dei voti e ha eletto un solo consigliere comunale. Cinque anni prima la lista del partito di Salvini aveva raggiunto il 26 per cento.

Il caso di Scorzè non è isolato: è uno dei tanti esempi del malcontento che da anni si è diffuso dentro la Lega in Veneto, dove il partito di Salvini ha sempre avuto una delle roccaforti elettorali. Qui la Lega ha preso il 31 per cento dei voti alle elezioni politiche del 2018, una percentuale quasi doppia rispetto a quella ottenuta a livello nazionale. Alle elezioni politiche successive, quelle del 25 settembre 2022, la Lega ha dimezzato i voti rispetto a quattro anni prima, scendendo al 14 per cento a livello regionale, doppiata da Fratelli d’Italia che ha sfiorato il 33 per cento. Lo stesso copione si è ripetuto alle ultime europee: a giugno 2024 la Lega ha preso il 14 per cento dei voti in Veneto, perdendo circa un milione di voti rispetto a quelli ottenuti alle europee del 2019, quando aveva sfiorato il 50 per cento dei consensi.

Ma a che cosa è dovuto questo crollo elettorale della Lega nella regione che più di tutte, nella sua storia, è stato il principale bacino elettorale? A domande sulla situazione attuale in Veneto i vertici della Lega non rispondono, mentre è più facile parlare con singoli amministratori locali o ex militanti usciti dal partito. «La maggior parte di noi sa che c’è una serie di questioni e di problemi, ma qui nessuno vuole parlare apertamente, a meno che non voglia mettersi fuori dalla Lega stessa», ha detto a Pagella Politica una fonte istituzionale del partito di Salvini, che ha preferito rimanere anonima.

La “madre di tutte le Leghe”

Per capire il legame speciale tra il Veneto e la Lega, è necessario fare un passo indietro nel tempo, alle origini della Lega Nord, il partito federalista nato nel 1989 e guidato fino al 2012 da Bossi. Nel 2017 dalla Lega Nord è nata la “Lega Salvini premier”, il nuovo soggetto politico che ha sostituito il precedente con l’obiettivo di diventare un partito nazionale, non più legato solo alle regioni settentrionali. Allo stesso tempo però, anche se non più attiva politicamente, la Lega Nord è rimasta in vita perché gravata da vari debiti, tra cui 49 milioni di euro di rimborsi elettorali percepiti illecitamente, per i quali il partito è stato condannato a risarcire lo Stato.

«Il Veneto è molto importante per la Lega, perché la Lega Nord nacque dalla volontà di Bossi di unire una serie di movimenti e partiti autonomisti regionali, tra cui uno dei principali era la Liga Veneta», ha spiegato a Pagella Politica Gianluca Passarelli, professore di Scienza politica all’Università La Sapienza di Roma e autore di diversi saggi sulla Lega, tra cui La Lega di Salvini. Estrema destra di governo, pubblicato dal Mulino nel 2018. La Liga Veneta è stata fondata nel 1980 da Franco Rocchetta, imprenditore e storico esponente dell’autonomismo veneto, eletto deputato alle elezioni politiche del 1992 proprio con la Lega Nord. Come ha raccontato il giornalista veneto del Corriere della Sera Gian Antonio Stella, Rocchetta era una personalità alquanto particolare. «Figlio di un commerciante di lana veneziano, ex comunista, ex socialista, ex democristiano, ex tutto, ma specialmente ex fascista di Ordine Nuovo, accusato tra l’altro di aver preso parte a un campo di addestramento in Grecia ai tempi dei colonnelli», così Stella ha descritto Rocchetta nel libro Dio Po. Gli uomini che fecero la Padania (Baldini&Castoldi), pubblicato nel 1996.

Immagine 1. Il fondatore della Liga Veneta Franco Rocchetta in occasione di una manifestazione venetista a Venezia, 25 aprile 2014 – Fonte: Ansa

(Immagine 1. Il fondatore della Liga Veneta Franco Rocchetta in occasione di una manifestazione venetista a Venezia, 25 aprile 2014 – Fonte: Ansa)
Al di là della figura di Rocchetta, la Liga Veneta era nata dunque nove anni prima della Lega Nord, di cui sarebbe entrata a far parte in seguito, e quattro anni prima della Lega Autonomista Lombarda, il movimento federalista lombardo che Bossi ha fece confluire nella Lega Nord. «Tra tutte le leghe che componevano la Lega Nord, la Liga Veneta rappresentava l’ala più “passionaria”, perché non era un semplice partito politico, ma rappresentava e dava voce a un’identità culturale, linguistica e storica molto forte e specifica come quella appunto del Veneto», ha detto Passarelli.
La svolta “nazionale”
Dietro al legame tra Veneto e la Lega c’è anche una questione, per così dire, pragmatica. «Nonostante le spinte autonomiste e identitarie, storicamente il Veneto ha sempre cercato rappresentanti e interlocutori a Roma, politici che sappiano portare le istanze della regione a livello nazionale», ha spiegato Passarelli.

Durante tutta la cosiddetta Prima repubblica, tra il 1946 e il 1992, questo ruolo di interlocutore politico privilegiato è stato ricoperto dalla Democrazia Cristiana (DC), che in Veneto ha vinto tutte le tornate elettorali, con picchi di consenso intorno al 50 per cento. «In Veneto la Democrazia Cristiana rappresentava la classe media e imprenditoriale agricola, molto diffusa sul territorio, che dopo Tangentopoli e la crisi della stessa DC ha trovato rappresentanza nella Lega Nord, il partito che Bossi aveva presentato come il “sindacato del Nord”», ha spiegato Passarelli. «Questa fetta di popolazione è passata a votare la Lega e l’ha sostenuta fintanto che questa è riuscita a rappresentare il sentimento e le istanze del Veneto al governo del Paese».

Secondo alcuni, dietro al calo elettorale della Lega in Veneto degli ultimi anni c’è proprio la rottura del legame tra il popolo e il partito. «In Veneto è venuta meno la nostra spinta ideale, quel sentimento che portava le persone a venire ai nostri banchetti, a farci domande. Lo si vede nella difficoltà di organizzare manifestazioni sul territorio, semplici gazebo o le nostre tradizionali sagre estive», ha detto a Pagella Politica una fonte istituzionale della Lega.

Di questo è convinto anche Gianantonio Da Re, esponente della Lega dal 1982 al 2024, che in passato è stato il segretario regionale del partito in Veneto. «Poteva anche andare bene la scelta fatta da Salvini di trasformare la Lega in un partito nazionale, allargandone la base ad altre regioni. Il punto è che non puoi snaturare il partito, elevando a cavalli di battaglia istanze lontane anni luce dal nostro popolo, come la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina», ha detto a Pagella Politica Da Re, che a marzo di quest’anno è stato espulso dalla Lega per aver dato del «cretino» a Salvini, criticando la gestione del partito. La costruzione del ponte sullo Stretto di Messina, storica battaglia di Forza Italia e del suo fondatore Silvio Berlusconi, è entrato nel programma della Lega in vista delle elezioni politiche del 2022. Prima di cambiare idea, in passato lo stesso Salvini era contrario alla realizzazione dell’opera, considerata inutile e pericolosa.

Nonostante il tentativo di parlare a tutto il Paese, secondo Passarelli la Lega continua a essere un partito che porta avanti le istanze del Nord: basti pensare al percorso per approvare la nuova legge sull’autonomia differenziata, di cui la Lega è il principale sostenitore. «Salvini ha dato una torsione nazionalista al partito per farlo sopravvivere agli scandali e ai debiti accumulati durante la gestione di Bossi, e finché questa soluzione ha funzionato da un punto di vista elettorale nessuno si è mai lamentato davvero nel partito», ha fatto notare l’esperto. Come detto, grazie alla svolta nazionalista, alle elezioni politiche del 2018 la Lega ha raggiunto il 17 per cento dei voti a livello nazionale, il suo risultato migliore dopo quello del 1996, e in Veneto ha superato il 30 per cento dei consensi, con picchi del 36 per cento tra le province di Belluno e Vicenza.

Una questione di credibilità politica

Dopo quelle elezioni, a maggio 2018 la Lega ha stretto l’accordo di governo con il Movimento 5 Stelle guidato all’epoca da Luigi Di Maio, dando vita al primo governo guidato da Giuseppe Conte. Questa alleanza è durata poco più di un anno, fino all’estate del 2019, quando Salvini ha deciso di togliere la fiducia al governo. «In quel frangente, con l’alleanza insieme al Movimento 5 Stelle, la Lega non solo era il “sindacato del Nord” ma aveva dato a tanti cittadini la speranza di un governo antisistema, di un governo che avrebbe cambiato le cose», ha sottolineato una fonte istituzionale della Lega. «Queste speranze sono state tradite nel momento in cui Salvini ha deciso di far cadere quel governo, perché voleva a tutti i costi andare a elezioni anticipate e diventare presidente del Consiglio, cosa che come sappiamo non è avvenuta. Lì c’è stato il punto di rottura con il nostro popolo, soprattutto in Veneto, dove abbiamo perso sostanzialmente credibilità».

Dopo la caduta del primo governo Conte, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella non ha indetto nuove elezioni ed è nato il secondo governo Conte, sostenuto questa volta dal Movimento 5 Stelle insieme al Partito Democratico. Da lì è iniziato il calo dei consensi della Lega, tornata al governo a febbraio 2021 per sostenere il governo di Mario Draghi, insieme a tutti i principali partiti in Parlamento eccetto Fratelli d’Italia.

Immagine 2. Il discorso di Giuseppe Conte in Senato poco prima della caduta del suo primo governo, 20 agosto 2019 – Fonte: Ansa

(Immagine 2. Il discorso di Giuseppe Conte in Senato poco prima della caduta del suo primo governo, 20 agosto 2019 – Fonte: Ansa)

Dopo il picco di consensi delle elezioni europee 2019, alle elezioni politiche del 2022 la Lega è scesa sotto il 9 per cento a livello nazionale ed è stata superata da Fratelli d’Italia in tutte le province del Veneto, dove il partito di Giorgia Meloni ha ottenuto più del doppio dei voti del partito di Salvini. La stessa situazione si è ripetuta in occasione delle elezioni europee di quest’anno, dove Fratelli d’Italia in alcune province venete, come Rovigo, ha sfiorato il 40 per cento, mentre la Lega è scesa fino all’11 per cento in quella di Venezia. «Questi risultati si spiegano con il fatto che siamo diventati letteralmente la copia sbiadita di Fratelli d’Italia e le persone alla fine finiscono inevitabilmente per votare l’originale», ha commentato Da Re.

Secondo Jacopo Maltauro, referente regionale degli amministratori under 35 della Lega, il calo dei consensi del suo partito non è dovuto alla rottura del legame con i veneti, ma a un cambiamento generale del comportamento politico delle persone, che non riguarda solo la Lega. «La mia è una valutazione personale e una considerazione che si basa su quanto avviene a livello locale. Penso che ormai tutti i partiti siano sottoposti a un calo fisiologico dei consensi in maniera ciclica. Da diversi anni, a differenza di quanto poteva avvenire nella Prima repubblica, assistiamo a un comportamento politico degli elettori molto umorale. In un’elezione magari un partito ottiene grandi consensi e di conseguenza grandi lodi, mentre la volta dopo, in breve tempo, ottiene risultati poco entusiasmanti», ha detto Maltauro, che ha 24 anni ed è iscritto alla Lega da quando ne aveva 16. «Certo, poi c’è sicuramente una questione di credibilità politica: anche in Veneto Fratelli d’Italia è stata riconosciuta in questi ultimi anni come un partito coerente rispetto ai governi che si sono succeduti alla guida dell’Italia. È innegabile che oggi Giorgia Meloni sia riconosciuta come una leader molto credibile, quindi un profilo di merito per Fratelli d’Italia c’è», ha aggiunto Maltauro, che è stato l’unico eletto della Lega in consiglio comunale a Vicenza in occasione delle elezioni comunali del 2023.

A Vicenza, alle elezioni comunali dello scorso anno, ha vinto la coalizione di centrosinistra guidata da Giacomo Possamai, 34 anni di età, già consigliere regionale del Partito Democratico. Al ballottaggio Possamai ha battuto per meno di mille voti il sindaco uscente Francesco Rucco, candidato del centrodestra. Per la Lega non sono state elezioni molto fortunate. Ha ottenuto meno del 7 per cento dei voti, perdendone circa 4 mila rispetto alle precedenti elezioni del 2018.

Al contrario, Fratelli d’Italia ha superato il 10 per cento dei consensi, guadagnando quasi 4 mila voti rispetto a cinque anni prima, quando aveva ottenuto meno del 2 per cento. «A Vicenza siamo passati da avere tre assessori e sei consiglieri comunali, ad avere solo un consigliere, ossia io. Certamente ci sono stati problemi e i cittadini hanno bocciato l’operato della classe dirigente del nostro partito in città», ha detto Maltauro. «Detto questo, la Lega rappresenta ancora un partito fondamentale nel centrodestra, in queste ultime elezioni comunali abbiamo confermato tanti sindaci del centrodestra grazie al nostro supporto e ne abbiamo conquistati di nuovi, come per esempio a Rovigo», ha aggiunto. Alle ultime comunali, a Rovigo la candidata del centrodestra Valeria Cittadin ha vinto al ballottaggio contro il sindaco uscente Edoardo Gaffeo, sostenuto dal Movimento 5 Stelle e da altre liste civiche. In queste elezioni, la Lega ha comunque perso oltre 2.500 voti rispetto a cinque anni fa.

L’anno scorso, tra le elezioni comunali che si sono tenute nel 2023 in Veneto, la Lega è riuscita comunque a rieleggere come sindaco di Treviso Mario Conte, tra i principali esponenti del partito in Veneto. Conte ha vinto al primo turno con oltre il 60 per cento dei consensi, frutto soprattutto del 30 per cento ottenuto dalla lista civica personale del candidato sindaco di centrodestra. A Treviso la Lega è riuscita a superare Fratelli d’Italia, ottenendo circa il 18 per cento, contro l’11 per cento del partito di Giorgia Meloni.

Divisioni interne

Al di là della linea politica e della credibilità del partito, dietro alle difficoltà della Lega in Veneto ci sono anche i dissidi interni, che hanno influito sui risultati delle elezioni comunali di quest’anno.

A Bassano del Grappa, il secondo comune più popoloso della provincia di Vicenza, il centrodestra ha vinto con Nicola Finco, già consigliere regionale della Lega. Finco è riuscito a vincere solo al ballottaggio contro il candidato del centrosinistra Roberto Campagnolo, perché la sindaca uscente leghista Elena Pavan si è ricandidata per un secondo mandato, ma senza il supporto del suo partito. Al primo turno Pavan ha ottenuto il 24 per cento dei voti e al ballottaggio non ha sostenuto con la sua lista civica il candidato del centrodestra. La sindaca uscente ha lanciato la sua candidatura ad aprile 2024, dopo la scelta del suo partito di sostenere Finco.

All’epoca, Pavan aveva detto che i vertici della Lega le avevano varie volte assicurato il loro sostegno, salvo poi ritirarlo all’ultimo minuto. «Questa circostanza mi era stata detta direttamente dai vertici del mio partito a inizio a novembre e dicembre dello scorso anno, e a inizio marzo, quindi c’è stata effettivamente sorpresa e uno stupore amaro nel comprendere che questo non corrispondeva alla verità», ha detto ad aprile di quest’anno la sindaca uscente di Bassano, che è stata poi espulsa dal partito per la sua scelta di ricandidarsi in solitaria. «La scelta di non ricandidare Pavan arriva proprio dalla base della Lega, dal gruppo consiliare, dal direttivo, che vivendo il territorio avevano percepito questa voglia da parte della cittadinanza di un cambio di passo», aveva risposto Andrea Viero, segretario locale della Lega, ribadendo che non c’era stata nessuna imposizione dai vertici del partito. La candidatura di Pavan è stata sostenuta al primo turno anche da Fratelli d’Italia, che al ballottaggio ha scelto di sostenere Finco, contribuendo alla sua vittoria.

A Vittorio Veneto – ventisettemila abitanti in provincia di Treviso – dove alle elezioni del 2019 la Lega era stato il primo partito con il 28 per cento dei consensi, è andata peggio. Il candidato sostenuto da Lega e Fratelli d’Italia Giovanni Braido non è riuscito ad arrivare al ballottaggio, superato sia dalla candidata del centrosinistra Mirella Balliana (poi vincitrice) sia da Gianluca Posocco, sostenuto da Forza Italia e da due liste civiche, tra cui quella di Toni Da Re, espulso dalla Lega pochi mesi prima. La lista di Da Re ha ottenuto il 12 per cento dei voti, superando quella della Lega, che si è fermata al 7 per cento. In vista del secondo turno, il candidato della Lega Braido ha detto che avrebbe votato per la candidata del centrosinistra piuttosto che votare Posocco, accusando il segretario provinciale della Lega, il deputato Dimitri Coin, di non averlo sostenuto a sufficienza e di aver favorito implicitamente Posocco e Da Re. Il 30 luglio, a quasi un mese dal ballottaggio, il direttivo provinciale della Lega di Treviso ha espulso Braido per il suo sostegno alla candidata del centrosinistra. Questa decisione non è stata condivisa da tutti: il coordinatore organizzativo della Lega in Veneto Giuseppe Paolin ha definito «grave» l’espulsione di Braido, perché è stato pur sempre l’unico che ha corso davvero con la Lega alle comunali, a prescindere da come sono andate.

Paolin ha anche criticato la scelta della segreteria provinciale della Lega di nominare Franco Manzato come commissario straordinario del partito a Vittorio Veneto. Ex deputato, vicino politicamente a Toni Da Re, Manzato si è candidato a giugno dello scorso anno per diventare segretario regionale della Lega in opposizione ad Alberto Stefani, rappresentante dell’ala salviniana del partito e attuale segretario. «Mettere Franco Manzato, amico fraterno di Toni Da Re, è come nominare il lupo tutore di cappuccetto rosso», ha commentato Paolin.

Anche a Montecchio Maggiore, tra i principali poli industriali della provincia di Vicenza, il candidato del centrodestra ha perso per una divisione interna alla Lega. Il sindaco uscente, il leghista Gianfranco Trapula, si è ricandidato per un secondo mandato con alcune liste civiche dopo che la Lega ha deciso di sostenere Milena Cecchetto, già sindaca dal 2009 al 2014.

Una questione di metodo

Secondo Maltauro, queste diatribe a livello locale non sono il segno di una spaccatura dentro alla Lega. «Penso che a livello locale queste divisioni siano frutto di dissapori e inimicizie personali, tipici dei contesti più piccoli e ristretti, e non possono per questo essere generalizzate a livello regionale o nazionale», ha detto il consigliere leghista di Vicenza. Per i più critici, invece, le divisioni e i malumori nascono da una gestione sbagliata del partito a livello locale, troppo verticistica e poco disposta al dialogo. E c’è chi contesta direttamente anche l’attuale segretario regionale Stefani, oggi deputato alla sua seconda legislatura.

Come anticipato, Stefani è vicino politicamente a Salvini ed è stato eletto segretario della Lega in Veneto nel 2023, dopo sette anni in cui non era mai stato convocato un congresso regionale e quattro di commissariamento da parte dei vertici nazionali del partito. Lo stesso Stefani era stato nominato da Salvini commissario del partito in Veneto nel 2021, in sostituzione di Lorenzo Fontana, attuale presidente della Camera, nominato commissario in Veneto nel 2019. A partire dal 2019 Salvini ha commissariato tutte le sezioni locali della Lega Nord, creando le nuove sezioni locali della “Lega Salvini premier”, completando così la transizione da un partito all’altro.

Immagine 3. Alberto Stefani insieme a Luca Zaia e Matteo Salvini in occasione di una manifestazione della Lega a Montecchio Maggiore, 21 giugno 2024 – Fonte: Ansa

(Immagine 3. Alberto Stefani insieme a Luca Zaia e Matteo Salvini in occasione di una manifestazione della Lega a Montecchio Maggiore, 21 giugno 2024 – Fonte: Ansa)
«In un momento in cui il partito è già in flessione e tu come segretario regionale avvalli le “purghe” interne, in cui esponenti di peso o rappresentanti locali sono cacciati perché dissentontono dalla linea, vuol dire rischiare di trovarsi tra i soliti pochi intimi, e questo certamente non fa bene al partito», ha detto a Pagella Politica una fonte istituzionale della Lega. Abbiamo contattato Alberto Stefani per avere un suo commento sulla situazione del partito in Veneto, ma al momento della pubblicazione di questo articolo siamo in attesa di una risposta.
La situazione finanziaria
Dal punto di vista finanziario, la situazione della Lega in Veneto è altalenante. In base alle verifiche di Pagella Politica sugli ultimi bilanci disponibili, al 31 dicembre 2023 la sezione veneta della Lega (la “Liga veneta”) aveva debiti per circa 70 mila euro, accumulati a partire dal 2019, ossia da quando è nata ufficialmente. Tra tutte le 22 sezioni locali del partito, la Liga veneta è terza per debiti accumulati negli ultimi cinque anni, dietro alla sezione della Lombardia (189 mila euro di debiti) e a quella della Romagna (77 mila euro). Nel 2023 la Liga veneta ha avuto un disavanzo di esercizio (ossia una differenza tra uscite e entrate in un anno) pari a circa 7 mila euro. Nel 2022 il disavanzo di esercizio registrato dalla Liga veneta era stato ancora più ampio, pari a circa 700 mila euro.
In questo arco di tempo ci sono stati alti e bassi anche per quanto riguarda le entrate derivanti dalle quote associative pagate da sostenitori e militanti. Nel 2020 le quote associative annuali alla Lega Veneta avevano portato nelle casse del partito circa 152 mila euro, saliti nel 2021 223 mila. Nel 2022 i proventi delle quote associative sono scesi a 166 mila euro e nel 2023 155 mila euro, tornando ai livelli di quattro anni fa.
L’incognita Zaia
Il futuro della Lega in Veneto dipenderà molto dal futuro del suo politico più forte: il presidente della Regione Luca Zaia. Esponente storico prima della Lega Nord e poi della Lega, ministro dell’Agricoltura nel quarto governo Berlusconi, Zaia è presidente della regione da quasi quindici anni. Eletto per la prima volta nel 2010, Zaia è stato rieletto per il terzo mandato consecutivo nel 2020, nonostante la legge nazionale vieti ai presidenti di regione di fare più di due mandati consecutivi. Questo è stato possibile perché il Veneto ha applicato il limite dei due mandati nel 2012, con l’approvazione della nuova legge elettorale regionale. Siccome la legge non può essere retroattiva, il primo mandato di Zaia, quello svolto tra il 2010 e il 2015, non è conteggiato nel computo totale.

In tutte e tre le elezioni in cui è stato confermato alla guida della Regione Veneto, Zaia ha ottenuto oltre il 50 per cento dei voti, e alle ultime elezioni regionali del 2020 è arrivato al 76 per cento dei consensi. Nelle elezioni del 2015 e del 2020, oltre che dalla Lega e dagli altri partiti di centrodestra, Zaia è stato sostenuto dalla sua lista civica “Zaia presidente”, che al suo interno aveva diversi esponenti veneti della Lega. In entrambi i casi, la lista personale di Zaia è arrivata prima nei consensi superando ampiamente la Lega: nel 2020 ha raggiunto il 45 per cento delle preferenze, contro il 17 per cento del suo stesso partito.

Immagine 4. Il presidente della Regione Veneto Luca Zaia insieme a Matteo Salvini e Roberto Maroni in Piazza del Popola Roma sventolano la bandiera di San Marco, 28 febbraio 2015 – Fonte: Ansa

(Immagine 4. Il presidente della Regione Veneto Luca Zaia insieme a Matteo Salvini e Roberto Maroni in Piazza del Popola Roma sventolano la bandiera di San Marco, 28 febbraio 2015 – Fonte: Ansa)

A oggi, nel consiglio regionale del Veneto la lista “Zaia presidente” può contare 17 consiglieri regionali contro i 13 della Lega. Per la forza che detiene Zaia in Veneto sarà quindi fondamentale capire che cosa farà l’attuale presidente di regione in vista delle prossime elezioni regionali, in programma per il 2025.

Come detto, Zaia non si può più ricandidare a causa del limite dei mandati. In questi mesi la Lega, attraverso vari emendamenti in Parlamento, ha cercato più volte di eliminare questo limite per i presidenti di regione, consentendo così una nuova ricandidatura di Zaia. Tutti i tentativi però sono falliti per l’opposizione degli alleati di Fratelli d’Italia e di Forza Italia, che secondo vari commentatori sperano di poter indicare loro il possibile sostituto di Zaia. A gennaio Alberto Stefani ha depositato alla Camera una proposta di legge per aumentare il limite di mandati per i presidenti di regione da due a tre, ma il testo non ha ancora iniziato l’esame in commissione.

Il 13 giugno, all’indomani delle recenti elezioni comunali, Stefani ha detto che il Veneto rappresenta «la linea del Piave» per la Lega, ma che comunque «sarà il tavolo dei leader di centrodestra a scegliere a chi spetterà la regione». «Se Zaia non dovesse più fare il presidente di regione, gli si aprirebbero molte strade, compresa quella di contendere la leadership della Lega a Salvini. Qui da noi tre quarti delle persone vorrebbero Zaia al posto di Salvini», ha detto Tranossi, l’ex segretario della Lega a Scorzè. «Il punto è che Zaia su questo non si espone perché è un uomo fedele al partito e concentrato nella sua battaglia principale, quella per ottenere l’autonomia differenziata».

Altri sono convinti che in questo momento non sia conveniente assumere la guida della Lega. «Tutti speravano che Zaia potesse fare un altro mandato, ma ormai a mio parere l’ipotesi è tramontata e anche se diventasse il nuovo leader della Lega avrebbe a che fare con una situazione interna molto provante, che potrebbe mettere in discussione la sua autorevolezza di buon amministratore locale», ha sottolineato una fonte istituzionale della Lega.

Per altri, l’incertezza di Zaia sulle sue mosse future non aiuta il partito. «Fino a poco tempo fa in Veneto noi della Lega, noi della base, ci facevamo forti della presenza di Zaia e facevamo leva sulla sua reputazione di buon amministratore per convincere nuove persone a iscriversi, nonostante la leadership ingombrante di Salvini», ha raccontato a Pagella Politica Emanuele Ferrarese, ex segretario della Lega a San Bonifacio, tra i comuni maggiori della provincia di Verona, dimessosi perché contrario ad alcune nomine volute dal partito dopo le elezioni comunali dello scorso 8-9 giugno. «Ora invece, complice il silenzio di Zaia, tante persone e militanti si sentono smarriti perché si aspettano una sua presa di posizione, quantomeno un segnale», ha aggiunto Ferrarese. «Nel mentre qualcuno decide di passare direttamente a Fratelli d’Italia, sia per la vicinanza delle posizioni tra i due partiti sia perché ora, specie se vuoi essere eletto in qualche consiglio comunale, hai più possibilità se stai nel partito di Meloni. Anche qui in Veneto».

Per Sansonetti le Br fecero bene all’Italia (italiaoggi.it)

di Antonino D’Anna

Mah. 

Piero Sansonetti, direttore dell’Unità, sul numero del 14 agosto espone un’audace teoria: le Brigate Rosse e più che altro il terrorismo rosso, negli anni tra il 1972 e il 1992 (ma gli anni di piombo convenzionalmente non terminano nel 1984 con la strage del Rapido 904?), hanno spinto l’Italia verso le riforme e il socialismo.

Incredibile ma vero: il Partito comunista italiano, nella figura del suo segretario Enrico Berlinguer, seppe cogliere al balzo il momento e se ci fate caso, scrive Sansonetti, riforme come l’aborto o l’abolizione dei manicomi arrivano meno di sei mesi dopo l’assassinio di Aldo Moro, anno 1978. Insomma, i “compagni che sbagliano” erano eroi che hanno cambiato l’Italia in meglio, e non lo sapevamo.

Perché le loro vittime a differenza per esempio di quelle dell’Italicus sono morte almeno per un nobile scopo, portare l’Italia a diventare un Paese moderno quale era nel 1979, quasi vicino al socialismo. Parentesi: socialista era Bettino Craxi e lui con le Br ci trattava per Moro vivo, non per sacrificare gente sull’altare dell’ideologia.

Chissà che cosa ne pensano i parenti delle vittime di Via Fani. Chissà che ne pensa quell’ex ragazza di appena vent’anni che da quel 1978 non riesce a toccare una chitarra perché gli spari e i raschi dei motori che si portavano via il presidente della Democrazia Cristiana (per Sansonetti uno che detensionava la situazione ma non era riformista) lasciando cinque morti per terra si sono portati via un pezzo della sua gioventù.

Chissà che ne pensano gente tipo Alberto Torregiani o il fratello di Andrea Campagna, freddato pure lui da Cesare Battisti e compari perché poliziotto. Campagna che era contento perché s’era comprato l’Alfasud usata e si doveva sposare: ecco, gente così evidentemente non aiutava il riformismo ma è morta per un fine buono, sono morti più degni delle vittime degli “altri”.

Bocca mia taci.