I pacifinti d’Italia che non amano il contropiede ucraino: il campo minato, la boutade di Fratoianni e il Pd con un piede in due scarpe (ilriformista.it)

di Aldo Torchiaro

Far finta di non sapere

Fratoianni alimenta la polemica di Ferragosto: “Si tolga il segreto sulle armi inviate”. In realtà il nostro paese non brilla per contributi a Kiev.

Quartapelle (Pd) incalza Crosetto: “È equivoco”

Sulle armi all’Ucraina le polemiche sono disarmanti. E guarda combinazione, lo strepitio delle proteste si alza di più adesso che l’Ucraina sta avanzando sul territorio russo. Quel contropiede, quella riscossa degli aggrediti sugli aggressori che dovrebbe essere riconosciuta con soddisfazione unanime dal mondo libero, diventa oggetto di doglianze (e di più: di irritazione) nel centrodestra e nel centrosinistra. Per quest’ultimo la prova della politica estera trasforma sin da subito il campo largo in un campo minato.

Il campo minato e il Pd con un piede in due scarpe

I centristi di Azione e Italia Viva sono atlantisti duri e puri. Grillini e sinistra parlano da panciafichisti, da irenisti con le mani alzate. E se il Pd prova a tenere il piede in due scarpe – quasi una specialità olimpica, da quelle parti – ecco, appunto, Alleanza Verdi-Sinistra di Fratoianni e Bonelli rincorrere i Cinque Stelle nella solita gara al bacio della pantofola di Putin. «Siamo uno dei pochi paesi tra quelli che inviano fiumi di armi all’Ucraina da ormai due anni e mezzo che tiene segreto questo elenco e io trovo questa scelta incredibile ed inaccettabile», alza i toni Fratoianni. Naturalmente è una polemica ferragostana, e lui lo sa bene.

La boutade di Fratoianni

Tutta la materia del segreto di Stato, che qui incrocia il segreto militare, è disciplinata da una normativa che richiederebbe anni per essere smontata. Ma non importa, la boutade serve a se stessa. E così, tanto per far parlare sotto agli ombrelloni, Fratoianni fa finta di non sapere.

«Si tolga il segreto, si dia trasparenza alle scelte, ci si assuma la responsabilità di ciò che si fa. Se l’unica strada che viene percorsa è l’invio delle armi, questa non può che produrre un’ulteriore escalation militare. Quello che è scomparso dai radar è la diplomazia e la prospettiva della costruzione di un’ipotesi di pace», conclude.

Deve essere scomparso quando Putin ha dichiarato di non essere interessato a nessuna trattativa, ma a Fratoianni non è arrivata la notizia.

Italia fanalino di coda

Per documentarsi al riparo da gaffes potrebbero, Avs, M5S e pacifinti tutti andare sul sito del Kiel Institute, un istituto di ricerca indipendente basato in Germania. Dai dati inconfutabili – e trasparenti – pubblicati dall’istituto risulta che l’Italia, per quantità e qualità del contributo militare in sistemi d’arma consegnati all’Ucraina, non figura neanche tra i primi dieci paesi europei.

Quasi un’onta, per chi come l’Italia produce ed esporta eccellenza tecnologica per la Difesa, ambito nel quale è saldamente tra i primissimi posti al mondo. E non andiamo meglio nei confronti degli impegni internazionali con la Nato. Se la spesa media dei paesi europei associati alla Nato ha finalmente toccato il 2% nel 2023, tra gli ultimi e i più recalcitranti ad adeguarsi c’è proprio il governo italiano.

Trump, nei suoi discorsi, sta martellando sul punto: gli Usa versano per la Nato più di quanto fanno certi paesi europei. Parla segnatamente dell’Italia, ma i nostri fanno finta di non aver capito bene la traduzione e applaudono, FdI e Lega per primi, mentre fanno tappo per tenere il budget per la Difesa sotto al livello richiesto dagli alleati. Di contraddizioni sono piene le cronache, a ben guardare.

La lezione finlandese 

Dal Pd si levano due voci fieramente atlantiste, quelle di Filippo Sensi e Lia Quartapelle, che rischiano di finire nell’angolo, dietro alla lavagna, schiacciate da una maggioranza interna che ha voluto il pacifista Marco Tarquinio a Bruxelles. Se la prendono con Crosetto (ma a volte si parla a suocera perché nuora intenda).

«Non è la prima volta – dice Quartapelle – che il ministro della Difesa si trova a dover correggere alcune dichiarazioni sull’Ucraina. Evidentemente le sue parole sono equivoche e non lo specchio di una posizione ‘affidabile, seria e salda’ sulla questione». Non è solo una impressione di osservatori italiani.

Ieri uno dei più stretti collaboratori di Zelensky, Mikhail Podolyak, chiedeva se il governo di Roma riconosce o no all’Ucraina il diritto di difendersi secondo le regole del diritto internazionale: «Quando un paese invade un vicino, trasforma i propri confini in una zona di guerra».

Al governo Meloni sembra rivolgersi anche il presidente finlandese, Alexander Stubb, leader popolare del centrodestra del suo paese: «L’Ucraina ha il diritto di difendersi e può utilizzare le armi fornite dalla Finlandia sul territorio della la Federazione russa. Non vediamo alcun motivo per limitare le attività degli ucraini. Non abbiamo alcuna restrizione su quali armi l’Ucraina può utilizzare e in che modo».

Le lezioni per la destra italiana arrivano ormai dal cuore del Ppe.

L’autonomia differenziata è una presa in giro (italiaoggi.it)

di Giovanni Cominelli

Nessuno dei contendenti dice la verità. 

Non la dice il Governo e non la dice l’opposizione, ma l’assetto istituzionale dello Stato va riformato

È inutile prendere sul serio il dibattito in corso sull’autonomia differenziata. Ciò, perché nessuno dei contendenti dice la verità. Non la dice il Governo, diviso radicalmente al suo interno: FdI e FI semplicemente non vogliono l’autonomia differenziata.

Non la dice Roberto Calderoli: se l’autonomia è legata alla definizione dei LEP, di cui si discute fin dal 1992, campa cavallo. Non la dicono le forze dell’opposizione. Eppure anche i sassi sanno che l’autonomia differenziata è conseguenza del Titolo V del 2001, che la sinistra ha voluto ardentemente, così come un corollario discende dal teorema. L’appello referendario alla salvezza dell’Italia risulta patetico e in malafede.

È più seria la domanda: l’attuale assetto istituzionale dello Stato favorisce lo sviluppo della Nazione? La risposta è no. Pertanto, progettarne uno nuovo è il compito essenziale di una politica, degna del proprio nome.

Saltiamo qui a piè pari la lunga storia del regionalismo e partiamo dal Titolo V della Costituzione del 1948.

Le regioni nascono nel 1948 dal compromesso di due opposti progetti politici

L’istituto-Regione nasce al punto di compromesso di due opposti progetti politici, piegati ciascuno dalla guerra fredda.

Prima del ’48 i democristiano-sturziani vogliono le Regioni, le sinistre no. Se si deve conquistare il potere e lo Stato, meglio trovarlo tutto concentrato in un solo punto, non disperso in tante Regioni.

Ma nel ’48 i fini si invertono: la DC vittoriosa diventa centralista per evitare la costituzione di Repubbliche rosse nel Centro-Nord, il PCI diventa regionalista per la ragione opposta. Donde il ritardo ventennale dell’attuazione del Titolo V.

Quando le Regioni si installarono nel giugno del 1970, le formule del centrismo e del centro-sinistra si erano già consumate, mentre il Pci stava diventando un convitato di pietra sempre più ingombrante. Come ricorda un antico liberale P. Muccio de Quattro, citando Francesco Cossiga, le Regioni, «furono dunque varate per motivi eminentemente di equilibrio politico, non perché le si ritenesse necessarie per una migliore organizzazione dello Stato. Insomma, bisognava dare un po’ di potere ai comunisti lì ove erano più forti: in Toscana, in Emilia Romagna, in Umbria».

Così le Regioni sono diventate luoghi di riproduzione di un nuovo strato del ceto politico-partitico e, en passant, di un nuovo cespite di finanziamento indiretto dei partiti.

L’istituzione delle Regioni ha contribuito a sanare le fratture storiche del Paese? Non pare.

Dal regionalismo ordinario al regionalismo differenziato

Nel corso degli anni ’90, con la crisi del sistema politico, si tentò di ripensarle. Accadde nella Bicamerale istituita con Legge costituzionale 1/1997 del 24 gennaio, con il compito di elaborare progetti «in materia di forma di Stato, forma di governo e bicameralismo, sistema delle garanzie».

Ma già nella seduta dell’11 dicembre 1997 l’assessore agli Affari istituzionali dell’Emilia-Romagna Luigi Mariucci denunciava la contraddizione tra un messaggio di federalismo virtuale e un messaggio autonomistico estremo: «Ne è derivato un disegno che per molti aspetti assomiglia più che altro ad un quadro di Arcimboldo», nel quale si mescolano patate e melanzane.

Fallita ufficialmente la Bicamerale nel Giugno del 1998, non cessava però la pressione devoluzionista, ai limiti del secessionismo, della Lega Nord. E così nel 2001 il centro-sinistra si approvò addosso il nuovo Titolo V, con l’idea di agganciare al proprio carro la Lega di Bossi e vincere le elezioni del 2001.

Nacque così il «regionalismo differenziato», che nei suoi primi tentativi di esercizio delle competenze condivise con lo Stato scatenò più di mille cause di fronte alla Corte costituzionale e intensificò le pulsioni politico-referendarie verso ulteriori autonomie regionali.

Da ultimo, 23 gennaio scorso 2024 il Senato ha approvato il disegno di legge n. 615, presentato dal ministro Roberto Calderoli e intitolato «Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione». All’analisi del ddl, www.santalessandro.org ha dedicato un articolo il 30 gennaio del 2024: «Alla fine della favola, in assenza di criteri oggettivi per la contrattazione tra Stato e Regioni, ciò che resta decisivo è la contrattazione tutta politica, basata su criteri di consenso elettorale e su mutevoli rapporti di forza».

Il federalismo necessario della sussidiarietà

Se usciamo dal retrobottega della politica per aprire gli occhi sul Paese reale, il Paese è questo: il Nord è diventato parte integrante di un’area produttiva che si estende ai due lati delle Alpi; la fascia adriatica, il Sud e le Isole dispongono di potenzialità di autosviluppo agro-industriale e di connessioni commerciali con le sponde opposte del Mediterraneo, dai Balcani all’Africa.

Questo assetto condiziona le dinamiche industriali, i trasporti, l’urbanistica, le migrazioni in entrata e in uscita, le demografia, la posa delle Reti. Il «glocalismo dello sviluppo» è diventato la cifra di molte aree «interne» del Paese: abitare in una Valle bergamasca o nel Salento e lavorare per Pasadena o per Francoforte.

Esistono «naturali» differenze socio-economiche e culturali tra Nord-Sud, città-campagna, pianure e aree interne montane. Dalla storia del Paese arrivano fratture antropologiche più lunghe e più profonde, che le classi dirigenti non sono state capaci di sanare e che, forse, non sono sanabili, se non nella lunga durata, che, va detto, è già durata piuttosto a lungo.

Rispetto a questo Paese reale, toccherebbe alle classi dirigenti, innanzitutto politiche, disegnare la trama istituzionale e amministrativa che ne favorisca lo sviluppo e la civilizzazione. Ma la filosofia centralista che muove il ceto politico nazionale è un ostacolo ad un progetto istituzionale di sviluppo.

Così il centralismo statalistico al Nord agisce da frenoal Sud copre assistenzialmente la pigrizia del sottosviluppo. Si tratta di un centralismo tutto partitico-politico, la cui realizzazione effettuale, a geometria variabile, è decisa dalla contrattazione politica, sia interna alla maggioranza di governo sia tra maggioranza e opposizione. A norma dello stesso ddl Calderoli, i finanziamenti delle autonomie sono stabiliti «di anno in anno», a contratto. Si tratta di un centralismo arbitrario e sbrindellato.

L’attuale assetto istituzionale costituisce un blocco dello sviluppo del Paese e perciò è causa del suo declino

Se ne deve concludere che l’attuale assetto istituzionale – governo debole, bicameralismo perfetto, regionalismo ordinario e rafforzato, magistratura esondante – costituisce un blocco dello sviluppo del Paese e perciò è causa del suo declino. Le Istituzioni congiurano contro il futuro del Paese.

Serve un assetto federale, fondato sulla sussidiarietà verticale e orizzontale. Il federalismo ha due caratteristiche essenziali, una istituzionale e una etica. Quella istituzionale: l’autonomia di ogni singolo livello – comunale, provinciale, regionale, nazionale – è fondata sulla responsabilità politica di prelievo fiscale e di spesa. La sussidiarietà verticale è il quadro migliore per lo sviluppo della sussidiarietà orizzontale, nella quale la società civile può fiorire.

La base etica del federalismo è il principio di responsabilità, del merito, delle opere. E le diseguaglianze che naturalmente lo sviluppo sottoproduce? Nessuno deve essere lasciato indietro, a condizione che cammini con le sue gambe. Nessun altro può camminare al tuo posto. Questa è l’etica della responsabilità.

Il terrapiattismo dei Cinque stelle (ilfoglio.it)

Il Superbonus fa aumentare il debito? 

“È un falso mito”, dice l’ex presidente dell’Inps Pasquale Tridico

Qualche anno fa gli economisti Pierre Cahuc e André Zylberberg pubblicarono un libro dal titolo Le Négationnisme économique (“Contro il negazionismo”, Bocconi Editore), che passava in rassegna tutte le pessime e infondate credenze economiche che inquinavano il dibattito in Francia (e che hanno caratterizzato anche le ultime elezioni legislative).

Non c’è dubbio che, se mai dei colleghi italiani di Cahuc e Zylberberg volessero scrivere una versione tricolore sul “negazionismo economico”, un posto d’onore spetterebbe a Pasquale Tridico.

L’ex presidente dell’Inps, all’epoca indicato dal M5s di cui ora è europarlamentare, intervistato dalla Stampa dice che, secondo lui, la tesi per cui il debito pubblico aumenta a causa del Superbonus è “un falso mito”.

Proprio così. “Non vedo un legame tra la crescita del debito di oggi e il Superbonus”, dice Tridico. Non si sa se sorprende di più la mancanza di buon senso o il fatto che a parlare sia un professore  di Economia. Perché sostenere che il Superbonus, che con i suoi 160 miliardi di costo è la peggiore misura di finanza pubblica della storia italiana, non ha alcun legame con l’aumento del debito è come affermare che la Terra è piatta.

In questi anni, e per i prossimi, l’Italia spenderà decine di miliardi all’anno per pagare il Superbonus e questa è la principale ragione per cui il rapporto debito/pil crescerà anziché diminuire.

È scritto, a chiare lettere, nel Def del governo, ma anche nei rapporti e nelle analisi della Commissione europea, dell’Fmi, della Banca d’Italia, dell’Upb e di chiunque sulla faccia rotonda della Terra sappia fare di conto. Il fatto che per difendere la scellerata misura del governo Conte un economista, per quanto militante, debba ricorrere al terrapiattismo economico dà la misura di quanto irragionevole sia stato il Superbonus.

Da un lato è un sollievo che Tridico non sia più presidente dell’Inps, ma dall’altro preoccupa che sia ora presidente della sottocommissione per le questioni fiscali del Parlamento europeo. Un piccolo passo in avanti per l’Italia, un grande salto indietro per l’Europa.