Affrontare la morte (novayagazeta.eu)

di Milana Ochirova

Chi era Pavel Kushnir, il pianista morto in 
sciopero della fame mentre protestava contro 
la guerra in Ucraina?
Affrontare la morte

(Pavel Kushnir. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK)

C’è un canale appena notato su YouTube che, fino a poco tempo fa, aveva solo cinque iscritti. Ora ne ha più di mille. Chiamato Foreign Agent Mulder, in riferimento al personaggio di David Duchovny in X-Files, il canale ha solo quattro video. Il più breve, intitolato Life, dura solo 51 secondi, e tutti i commenti sotto di esso riguardano la morte della persona che lo ha realizzato.

L’uomo nel video è vestito con una giacca nera che ricorda un’uniforme carceraria. Indossa un giubbotto da marinaio e un orpello drappeggiato sul petto. Un distintivo con la scritta FBI è attaccato al giubbotto, disegnato a mano con un pennarello blu.

“Non ci sarà mai vita sotto il fascismo”, dice. “Putin è un fascista e i popoli del nostro paese hanno rinunciato a milioni delle loro vite migliori per garantire che non ci fosse il fascismo. Non lo accetteremo. Non adoreremo questa bestia. Abbasso la guerra in Ucraina, abbasso il regime fascista di Putin, libertà per tutti i prigionieri politici, libertà per tutti i prigionieri, libertà per tutti”.

Pavel Kushnir – l’uomo nei video – sarebbe stato arrestato e accusato di “incitamento pubblico al terrorismo” a maggio, cinque mesi dopo aver caricato Life. C’è un filmato dell’arresto stesso, con grandi agenti delle forze dell’ordine mascherati che portano via un uomo magro con una camicia nera, fino alla sua morte.

I funerali di Pavel Kushnir a Birobidzhan. Foto: anonimo(I funerali di Pavel Kushnir a Birobidzhan. Foto: anonimo)

Andando incontro alla sua morte

La piccola città di Birobidzhan, con una popolazione di 68.000 abitanti, è il centro amministrativo della regione autonoma ebraica della Russia, un’area dell’Estremo Oriente del paese che è stata istituita per gli ebrei sovietici nel 1934, ma che ora è nota principalmente per la sua assenza di una comunità ebraica.

Si tratta di un luogo abbastanza cupo, pieno di identikit di condomini prefabbricati, che è stato catturato sapientemente dal fotografo norvegese Jonas Bendiksen in una serie di foto nel 1999. Da allora non è cambiato molto, dicono i locali.

Kushnir, che aveva 39 anni quando è morto, ha vissuto a Birobidzhan solo per un anno e mezzo, trasferendosi lì dalla sua città natale di Tambov, nella Russia centrale, su invito dell’orchestra filarmonica locale alla fine del 2022.

Diplomato al Conservatorio Čajkovskij di Mosca, entrare a far parte di un’orchestra filarmonica di una piccola città era un grosso problema a Birobidzhan, e quasi tutti i media statali locali hanno pubblicato articoli su di lui, descrivendolo come “intelligente e talentuoso”.

Kushnir indossa una semplice camicia nera in tutto il filmato, la stessa che avrebbe poi indossato nella sua bara, emaciato dopo lo sciopero della fame, con un livido sotto l’occhio e sangue sul labbro e tra i denti.

“Siamo una famiglia di musicisti. Suo padre, suo nonno, sua nonna e io eravamo tutti musicisti”, ha detto a Novaya Europe la madre di Kushnir, Irina Levina, 79 anni.

Aveva cercato di scoraggiare suo figlio dal trasferirsi a Birobidzhan, dicendo che aveva una premonizione che non riusciva a spiegare.

“Era solo una sensazione… L’ho letteralmente implorato. “Resta! Restare! Ti aiuterò, ti sosterrò finanziariamente, ma non andare!” Ma lui non volle ascoltare e andò incontro alla morte. Questo è tutto quello che posso dire”.

I funerali di Pavel Kushnir a Birobidzhan. Foto: anonimo(The funeral of Pavel Kushnir in Birobidzhan. Photo: anonymous)

Kushnir era davvero un musicista di grande talento. Poteva eseguire tutti i 24 preludi di Rachmaninoff in una sola seduta, o tutti i preludi e le fughe di Šostakovič in una sola serata, il che è molto difficile anche per un musicista esperto.

“È letteralmente come correre una maratona per un pianista”, spiega la musicologa Anna Vilenskaya. “Ma potrebbe farlo in una serata. Era importante per lui eseguirlo in un unico grande ciclo. Potrebbe dare un’idea del tipo di persona che era”, continua Vilenskaya. “Non voleva rompere il ciclo monumentale che Shostakovich aveva in mente. E forse non voleva nemmeno dividere la sua vita in sezioni. In qualche modo vedeva la sua vita in modo molto olistico. Non voleva tradire le sue opinioni”, aggiunge.

The funeral of Pavel Kushnir in Birobidzhan. Photo: anonymous(The funeral of Pavel Kushnir in Birobidzhan. Photo: anonymous)

No alla guerra

Kushnir era un pacifista incallito. Ha preso parte alle proteste contro la rielezione di Putin in piazza Bolotnaya a Mosca nel 2012 e si è opposto alla guerra in Ucraina sin dai tragici eventi nel Donbass nel 2014. Anche la sua famiglia conosceva le sue opinioni politiche, anche se non le condividevano, il che a volte portava ad aspri conflitti.

“Conoscevo le sue opinioni e litigavamo. Ma non aveva senso”, dice Levina. “Gli ho detto cento volte che era pericoloso credere a quello che credeva lui. Cento volte! E ho capito che aveva paura”, ricorda.

La guerra nel Donbass, iniziata nel 2014, ha giocato molto sulla mente di Kushnir. Ha anche scritto un libro sull’argomento, “Russian Mash-Up”. È stato pubblicato da ZaZa, una piccola casa editrice della città tedesca di Düsseldorf, che lo ha reso disponibile online in formato print-on-demand. Ma non c’era alcuna richiesta, almeno non fino alla morte del suo autore, cioè. Il libro è stato infine pubblicato in Germania all’inizio di agosto, con tutti i proventi delle vendite del libro destinati alla famiglia Kushnir.

“Quanto può durare la vita di Putin sulla terra e il suo governo illegittimo? Riuscirà a raggiungere una longevità simile a quella di Márquez di fronte a una tale fottuta brutalità?” Ha scritto Kushnir.

Ma non è per questo che lo hanno perseguitato. Lo hanno inseguito per quattro video su un canale YouTube con cinque iscritti.

Pavel Kushnir. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK(Pavel Kushnir. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK)

La verità è là fuori

“Non abituatevi al fascismo. Non abituatevi alla guerra. Anche se non c’è futuro, crediamo nel presente. Ma c’è un futuro. Putin morirà. Il regime fascista di Putin crollerà. Il mio amore vivrà. Continuiamo a combattere. Andiamo fino in fondo e rimaniamo fedeli al nostro passato”, ha detto Kushnir in un altro dei suoi video, Un messaggio agli antifascisti. Usava spesso la frase “La verità è là fuori”, lo slogan della sua serie TV preferita, X-Files.

Anche nella piccola città di Birobidzhan, dove, come dice la gente del posto, “tutti hanno paura e nessuno dice niente”, le forze di sicurezza avevano un sistema di quote e avevano bisogno di reprimere le persone di tanto in tanto. Forse non ci sono state proteste pubbliche in città, ma c’era un pianista con un canale YouTube.

Poche persone se ne sono accorte a Birobidzhan, per non parlare del resto della Russia, quando Kushnir è stato arrestato a maggio, accusato di aver pubblicamente incitato al terrorismo su Internet, un reato punibile con una pena fino a sette anni di carcere. Ha iniziato lo sciopero della fame il giorno in cui è stato arrestato.

Non era la prima volta che protestava in quel modo. Aveva già iniziato uno sciopero della fame contro la guerra in Ucraina nel 2022, quando era ancora un uomo libero. Quella volta, quasi nessuno lo sapeva. Kushnir ha menzionato la protesta in un’intervista che la sua amica e collega pianista Olga Shkrygunova ha pubblicato su Facebook nell’agosto 2022. Non ha detto quale giornalista o media lo avesse intervistato, ed è apparso solo sulla sua pagina Facebook. Pochissime persone hanno notato l’intervista e ha ottenuto solo 10 “mi piace”. Quella volta, Kushnir rifiutò cibo e acqua per 20 giorni.

“Non ho problemi ad affrontare la fame fisicamente. Ho scelto questa forma di protesta quando pensavo che la gente avesse iniziato ad abituarsi alla guerra, ad accettarla, per dare l’esempio, per attirare l’attenzione”, ha detto Kushnir nell’intervista.

La seconda volta ha fatto uno sciopero della fame di 100 giorni. Non mangiava, ma beveva liquidi. Ha lavorato in tutto e si è esibito in concerti. Kushnir ha anche prodotto volantini che dicevano “Putin è un fascista” e li ha distribuiti intorno a Birobidzhan.

Pavel Kushnir. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK(Pavel Kushnir. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK)

Kushnir ha inviato e-mail agli amici durante il secondo sciopero della fame nel 2023, dicendo loro che chiedeva “la dissoluzione del regime fascista, la fine della guerra in Ucraina e il rilascio di tutti i prigionieri politici”.

Kushnir ha detto che il massacro di Bucha all’inizio della guerra è stato un punto di svolta per lui. Quando gli è stato chiesto chi sapesse che era in sciopero della fame, Kushnir ha risposto solo i suoi amici più stretti. “Dimmi, dovremmo cambiare il tuo nome per motivi di sicurezza?” chiede l’intervistatore. “Non ce n’è bisogno. Qualunque cosa accada, succede, e che Dio ci aiuti”, ha risposto.

Kushnir ha trascorso i suoi ultimi giorni in un’unità medica della prigione. È morto il 27 luglio, sua madre è stata informata il giorno seguente, e Olga Romanova, che dirige l’organizzazione per i diritti dei prigionieri Russia Behind Bars, ha condiviso la notizia con il mondo il 2 agosto.

Filarmonica di Birobidzhan. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK(Filarmonica di Birobidzhan. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK)

Il servizio carcerario ha indicato “cardiomiopatia dilatativa e insufficienza cardiaca congestizia” come causa ufficiale della morte. Kushnir non aveva mai sofferto di problemi cardiaci. Le foto di Kushnir nella sua bara mostrano un livido sopra un occhio e sangue sulle labbra. Sua madre si è rifiutata di darle il permesso di effettuare un’autopsia indipendente, il che significa che la causa della morte di suo figlio non sarà mai conosciuta con certezza.

Addio

I funerali di Kushnir si sono svolti a Birobidzhan l’8 agosto. Né sua madre né suo fratello hanno partecipato alla cerimonia. C’erano 11 persone in totale: due giornalisti, due dipendenti della Filarmonica, due fan, un’amica, una poetessa, due attivisti e uno scolaro.

Un partecipante ha detto a Novaya Europe che anche alcuni di loro avevano paura di partecipare. Uno dei membri dello staff della Filarmonica è arrivato con grandi occhiali da sole e si è rifiutato di parlare con i giornalisti. I partecipanti erano inizialmente riluttanti a pronunciare parole di commiato. Un attivista della città di Khabarovsk, 200 chilometri a est di Birobidzhan, alla fine ha parlato e ha osservato che il volto di Pavel era stato “picchiato”, cosa a cui nessuno ha espresso obiezioni.

Pavel Kushnir. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK(Pavel Kushnir. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK)

“Potevamo vederlo tutti. Era stato picchiato. Aveva un livido sopra un occhio e tracce di sangue tra i denti, che potevamo vedere perché la sua bocca era leggermente aperta. Ho detto che questa era la morte di un martire e che dovevamo assicurarci che non accadesse mai più”, ha detto l’attivista a Novaya Europe. Non conosceva Kushnir, avendone sentito parlare per la prima volta dopo la sua morte, ma venne comunque a rendergli omaggio.

Il tempo passò e tutti rimasero in silenzio. Si avvicinava alle persone e chiedeva loro di “dire qualcosa”, perché sarebbe stato “incivile” se nessuno avesse detto nulla. Alla fine, l’attivista stesso si è alzato per parlare.

“La gente ha scoperto che persona meravigliosa fosse solo dopo la sua morte, il che è terribile, ovviamente. La gente di Birobidzhan lo conosceva per il suo carattere musicista e interessante che era. Oltre a ciò, nessun altro lo conosceva. Né a Khabarovsk, da dove vengo qui, né a Vladivostok, nemmeno nelle città più vicine, per non parlare della Russia nel suo complesso… Ma la sua morte è stata uno shock per tutte le persone perbene. Ora la gente lo conosce. Ma a quale prezzo?”, ha detto.

“Ho parlato con la persona nel negozio quando ho comprato dei fiori. Ho detto: ‘Un ragazzo del posto è stato torturato a morte’. Ma lui non lo sapeva. E le altre persone con cui ho parlato non lo sapevano o facevano finta di non sapere”, ha continuato l’attivista.

Il corpo di Kushnir è stato portato a Khabarovsk per essere cremato, poiché Birobidzhan non ha nemmeno un crematorio. Sua madre ha insistito che fosse cremato. L’urna è stata poi trasportata a Tambov per la sepoltura. Nessuno parla di Kushnir a Birobidzhan. In effetti, solo poche persone a livello locale sanno che visse e morì lì.

La Russia alza la voce, l’Italia obbedisce? Il caso dei giornalisti del TG1 ritirati dal fronte e le sue implicazioni (valigiablu.it)

di 

Due giornalisti italiani del Tg1, 

Stefania Battistini e Simone Traini, documentano al seguito delle truppe ucraine lo sconfinamento in Russia, nella regione di Kursk.

Il servizio è trasmesso mercoledì durante l’edizione delle 20. Venerdì l’ambasciatrice italiana a Mosca, Cecilia Picconi, è convocata per ricevere le proteste ufficiali del Cremlino. Sabato le autorità russe aprono un procedimento penale a carico di Battistini e Traini. L’accusa è di aver attraversato illegalmente il confine: rischiano fino a cinque anni di prigione. Lo stesso giorno, la Rai emette una nota in cui comunica la decisione di richiamare in Italia i due giornalisti.

Dalle agenzie apprendiamo che le parole sono dell’amministratore delegato Roberto Sergio, mentre sul sito Rai le tre righe campeggiano in nome dell’impersonalità:

L’Azienda, in linea con i protocolli di sicurezza, ha ritenuto, esclusivamente per garantire sicurezza e tutela personale, di far rientrare, temporaneamente in Italia, la giornalista Stefania Battistini e l’operatore Simone Traini. 

Arrivano intanto i primi attestati di solidarietà dalle associazioni che proteggono la libertà di stampa, nazionali e internazionali, ad esponenti di vari partiti. Arrivano anche le critiche dell’Usigrai alla decisione dell’azienda: “La scelta di far rientrare frettolosamente la troupe del Tg1 dopo il servizio sull’avanzata ucraina in territorio russo non è una buona notizia per il diritto dei cittadini ad essere informati”.

Fa in parte eccezione Dario Carotenuto capogruppo del Movimento 5 Stelle in Commissione di Vigilanza Rai, e quindi esponente dell’opposizione. Carotenuto, nel dirsi sollevato per il rientro dei due giornalisti in Italia, consegna alle agenzie queste parole sui due giornalisti:

Ci rammarichiamo però […] che non siano potuti restare nella regione russa di Kursk per indagare sull’uso di armi e mezzi italiani da parte delle truppe di Kiev. Inoltre, considerato il tenore del reportage mandato in onda dal Tg1 chiaramente favorevole all’operato delle forze ucraine, presenteremo in Vigilanza Rai un’interrogazione ai vertici dell’azienda per sapere se da parte dei militari di Kyiv vi siano state limitazioni al pieno esercizio della libertà di cronaca dei reporter italiani.

La principale preoccupazione di Carotenuto, e per estensione del suo partito, è di squalificare il lavoro dei due giornalisti gettandovi l’ombra del sospetto e della faziosità. Da notare che nei giorni scorsi Battistini ha anche riferito di aver ricevuto minacce di morte.

Intanto lunedì 19 agosto Mosca prende di mira un altro giornalista Rai, Ilario Piagnerelli. Niente procedimento a suo carico, ma una polemica a distanza lanciata da Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo.

Piagnerelli, durante un reportage, ha intervistato un combattente ucraino che indossava un simbolo nazista. La portavoce ha così accusato via Telegram la stampa italiana: “questi pseudo-reporter possono essere qualificati solo come traditori della professione che si sono abbassati a partecipare direttamente alla fabbricazione e diffusione della propaganda ucronazista”. Lo stesso giorno, Piagnerelli si è scusato su per l’intervista.

Le agenzie, invece, diffondono la voce grossa da parte di Fratelli d’Italia e del Partito Democratico su questo nuovo tentativo di ingerenza russa.

Una prima linea da tirare sulla vicenda riguarda la trasparenza dei processi decisionali. Non è chiaro perché i due giornalisti siano stati fatti rientrare, né chi abbia preso la decisione. Possiamo solo affidarci a una scarna nota di tre righe, o ai retroscena, quel genere giornalistico fatto di “voci”, “indiscrezioni”, condizionali, puntini da unire. Invece che valutare posizioni ufficiali, dobbiamo dedurre, ipotizzare, far congetture.

Secondo Repubblica c’è stata una mediazione dei servizi italiani per scongiurare ritorsioni russe, ad esempio verso la sede Rai a Mosca. Mentre la decisione di far rientrare i due giornalisti avrebbe visto il direttore del Tg1 Gianmarco Chiocci in contrasto con l’amministratore delegato Roberto Sergio e il direttore generale Giampaolo Rossi. Il quale, come ricordavamo alla vigilia della sua nomina, è uno che nel 2016 lodava i moniti di Putin “agli alchimisti della finanza globale e ai guerrafondai umanitari che alimentano le rivoluzioni colorate, le guerre civili e il terrorismo per generare il caos funzionale ai propri progetti egemonici”, mentre due anni dopo lo ritroviamo a concionare sulla rivoluzione ucraina come di una “una rivoluzione che i padroni del Nuovo Ordine Mondiale hanno costruito a tavolino e realizzata con puntuale spietatezza”.

Questa palude decisionale è quindi l’habitat naturale di una certa classe dirigente. Così Battistini e Traini, invece di sentire le spalle protette da un’azienda che li tutela di fronte a rischi concreti per la loro incolumità, si sono trovati a subire una decisione con molte opacità, venendo umiliati come professionisti.

Hanno fatto il loro lavoro, hanno corso dei rischi per garantire un servizio all’opinione pubblico, e come conseguenza sono stati richiamati a Roma. Da Mosca, almeno, le autorità ci hanno messo la faccia. E si sono paradossalmente mostrati più trasparenti nei loro obiettivi. È ovvio che il Cremlino non voglia telecamere e giornalisti con la schiena dritta nei suoi confini: l’offensiva nel Kursk rivela la debolezza di un invasore abituato a dire (e dirsi) che l’Ucraina nemmeno esiste come Stato e popolo.

Tralasciamo volentieri le polemiche pretestuose sul giornalismo “embedded” fatte sulla pelle altrui. La situazione è seria e le polemiche pretestuose servono a chi le fa. Battistini e Traini non sono gli unici giornalisti che hanno attraversato il confine al seguito delle truppe ucraine.

Oltre al Tg1, anche giornalisti della CNN e del New York Times hanno pubblicato reportage realizzati al seguito delle truppe ucraine in Russia. RT lunedì riportava sul sito in inglese che le autorità russe stanno indagando i due giornalisti del Washington Post che hanno “attraversato illegalmente il confine”. Ieri invece il ministero degli Esteri russo ha convocato una funzionaria dell’ambasciata americana a Mosca, in modo analogo a quanto avvenuto per l’ambasciatrice italiana.

Questo tipo di reazioni da parte di Mosca non sono quindi imprevisti che cadono dal cielo. La differenza è che il Cremlino sa bene di non poter mettere facilmente sotto pressione la stampa e il governo americano, così come sa che l’Italia è un paese forte coi deboli, debole dei forti.

screenshot dal sito in inglese di RT: "Moscow investigating illegal border breach by WaPo journalists"
(“Mosca sta indagando i giornalisti del Washington Post che hanno attraversato illegalmente il confine” via RT)

L’Italia è anche il paese convinto che l’Ucraina, nel migliore dei casi, vada aiutata, purché non si difenda troppo bene: è “l’equivoco tra difesa e offesa” di cui ha scritto di recente Ezio Mauro. Nel peggiore invece, abbiamo un evidente disprezzo anti-ucraino mascherato da linea editoriale o politica, a seconda del soggetto di turno.

Ecco perciò che i mugugni del governo italiano per l’avanzata ucraina in territorio russo suonano anche come un segno di debolezza rispetto al rischio di simili pressioni. 

Eppure le questioni sicurezza e autonomia della stampa andrebbero prese sul serio. Dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina è diventato via via sempre più pericoloso operare in territorio russo, e i rischi per l’incolumità dei giornalisti vanno ben al di là dei rischi associati alla copertura dei fronti di guerra.

Lo sanno prima di tutto i numerosi giornalisti russi che hanno dovuto lasciare il paese per sfuggire ad arresti e persecuzioni; o che sono stati condannati persino in contumacia, come nel caso di Masha Gessen. O che hanno subito probabili tentativi di avvelenamento.

Ma lo sanno anche i colleghi stranieri. La BBC, per esempio, aveva sospeso le attività nel marzo 2022 dopo l’approvazione da parte del Parlamento russo della legge che vietava di diffondere “false informazioni” sull’esercito. Il giornalista americano del Wall Street Journal Evan Gershkovich è stato incarcerato in Russia per 16 mesi.

Due suoi corrispondenti sono stati inseriti nella lista degli “agenti di influenza stranieri”, secondo una legge russa che limita fortemente l’operato di chi si ritrova questa etichetta addosso. Per quanto un personaggio come Nicolai Lilin – propagandista riciclatosi come perseguitato politico dopo aver fallito nel riciclarsi come candidato per la lista Pace Terra Dignità – sia soprattutto una persona in cerca di attenzione, i suoi riferimenti al polonio nel tè a proposito di Battistini e Traini evocano rischi reali.

Per quale motivo, dunque, i giornalisti della sede Rai di Mosca sarebbero al sicuro, e quali garanzie ci sono che possano svolgere il loro operato in piena autonomia e senza condizionamenti di alcun tipo da Mosca? La loro incolumità è stata oggetto di trattativa insiema a quella di Battistini e Traini? Perché la Rai sarebbe in grado di garantire una sicurezza che altri servizi pubblici e altre redazioni di gruppi editoriali occidentali non sono in grado di fare sul suolo russo?

Perché per Battistini e Traini ci sarebbero rischi di sicurezza, ma non per Piagnerelli? I due giornalisti sono stati inviati al seguito delle truppe ucraine senza mettere in conto possibili reazioni del Cremlino? Quali iniziative ha preso il governo italiano per respingere ingerenze russe nel caso specifico, a parte i canali “ufficiosi”? Per quale motivo, proprio nei giorni in cui si consumava la crisi tra Rai e Mosca, la principale preoccupazione di un governo per metà in vacanza in Puglia è stata di tuonare contro un presunto complotto della magistratura ai danni di Arianna Meloni?

Tante domande, molte ipotesi, praticamente zero risposte certe. Vicende del genere diventano così rivelatorie di come l’opinione pubblica non sia un destinatario effettivo delle comunicazioni istituzionali e dei processi decisionali; al massimo è un impiccio da mettere in conto. O cui chiedere ogni tanto il voto, ma più che altro come delega in bianco.

E il servizio pubblico non è nemmeno nel novero delle eccezioni che confermano la regola. È casomai lo stato dell’arte della regola, e non da oggi.

Bologna, Lepore “scheda” i parenti di esponenti di FdI: “Ascolterò quel cittadino nonostante i suoi legami…”

di Lucio Meo

Bologna 2021 - 26

Clamorosa gaffe, o forse clamorosa manifestazione di sincerità del sindaco di Bologna, Matteo Lepore, che nel corso di un intervento in consiglio comunale ha ammesso di conoscere perfino la parentela dei suoi avversari politici, quelli di FdI nel caso specifico, quasi come in una sorta di schedatura.

Intervenendo su una questione specifica, relativa a una rissa a Capo di Lucca, Lepore ha spiegato di aver ricevuto “molte segnalazioni da un parente di un rappresentante di Fratelli d’Italia, che prendo sul serio perché, nonostante questo, è un cittadino”. Prende sul serio, nonostante…

Una frase gravissima, così come gravissima appare la conoscenza delle parentele politiche dei suoi cittadini, collocati a destra e a sinistra, tra i nemici o gli amici politici, come se fosse il sindaco solo di chi lo ha votato…

Panetta: «Più Europa e più immigrati regolari per lo sviluppo» (avvenire.it)

di Angelo Picariello

Il governatore di Bankitalia torna sull'importanza 
del mercato unico per la crescita economica. 

Lavoro e squilibri demografici, la ricetta è gestire meglio la risorsa che sono i cittadini stranieri

L’Europa è una grande risorsa, senza il mercato unico il reddito pro capite del continente sarebbe un quinto più basso. Ma sullo sviluppo dell’Italia pesano ancora come un macigno gli oneri del debito pubblico. «L’Italia è l’unico Paese dell’area dell’euro in cui la spesa pubblica per interessi sul debito è pressoché equivalente a quella per l’istruzione».

La spinta “europeista” del governatore di Bankitalia Fabio Panetta arriva dal Meeting, all’incontro su “sostenibilità del debito e sviluppo e sviluppo economico”, introdotto dal presidente della fondazione Sussidiarietà Giorgio Vittadini.

«L’abolizione delle tariffe doganali interne ha favorito la specializzazione produttiva e la realizzazione di economie di scala, stimolando l’efficienza e la concorrenza e accrescendo l’occupazione e il benessere», rimarca Panetta. Nel tempo l’integrazione europea ha portato importanti benefici ai cittadini». Ma stando allo stretto ambito italiano per la crescita che resta l’«obiettivo fondamentale per l’Italia», occorre «affrontare con decisione i problemi strutturali irrisolti». e «il problema cruciale rimane la riduzione del debito pubblico in rapporto al prodotto».

Ora gran parte del futuro della nostra economia si gioca sul successo, o meno, nell’utilizzo fondi Pnrr. Ma la condizione irrinunciabile è l’aggressione del debito. Oltre che in relazione all’istruzione, «un debito elevato rende anche «più onerosi i finanziamenti alle imprese, frenandone la competitività e l’incentivo a investire» ed «espone l’economia italiana ai movimenti erratici dei mercati finanziari».

E il dato sui fondi che scarseggiano per l’istruzione comporta che «l’alto debito sta gravando sul futuro delle giovani generazioni, limitando le loro opportunità». Ma affrontare il nodo del debito richiede «politiche di bilancio orientate alla stabilità e al graduale conseguimento di avanzi primari adeguati», avverte Panetta. «Tuttavia, la riduzione del debito sarà ardua senza un’accelerazione dello sviluppo economico».

Ma c’è anche il tema immigrazione. Per ridurre gli squilibri demografici «una risposta razionale può essere l’introduzione di misure che favoriscano l’ingresso di lavoratori stranieri regolari». Su scala europea «le proiezioni demografiche indicano che nei prossimi decenni si ridurrà il numero di cittadini europei in età da lavoro e aumenterà il numero degli anziani» dice Panetta spiegando che «questa dinamica rischia di avere effetti negativi sulla tenuta dei sistemi pensionistici, sul sistema sanitario, sulla propensione a intraprendere e a innovare, sulla sostenibilità dei debiti pubblici.

Per contrastare questi effetti, è essenziale rafforzare il capitale umano e aumentare l’occupazione di giovani e donne, in particolare nei paesi – tra cui l’Italia – dove i divari di partecipazione al mercato del lavoro per genere ed età sono ancora troppo ampi».

Una nuova normativa sulla cittadinanza e sugli ingressi si rende quindi necessaria: «Misure che favoriscano un afflusso di lavoratori stranieri regolari – conclude il Governatore – costituiscono una risposta razionale sul piano economico, indipendentemente da valutazioni di altra natura. L’ingresso di immigrati regolari andrà gestito in maniera coordinata all’interno dell’Unione, bilanciando le esigenze produttive con gli equilibri sociali e rafforzando l’integrazione dei cittadini stranieri nel sistema di istruzione e nel mercato del lavoro».

Mpox e la disinformazione (butac.it)

di 

Vaiolo delle scimmie, monkeypox, mpox. 

Emergenze sanitarie, vaccini, stato di allarme… cerchiamo di fare chiarezza!

Sono tanti i media che stanno parlando di nuova emergenza sanitaria – o falsa emergenza sanitaria – legata al “vaiolo delle scimmie”Si va da articoli come questo de La Verità a testi firmati da Diego Fusaro come questo sul Giornale d’Italia, ma si passa anche per quotidiani nazionali a più larga diffusione: a informare male, tanto per cambiare, stanno contribuendo in tanti.

Partiamo dal nome: vaiolo delle scimmie, in inglese Monkeypox, che però è un termine improprio. Usarlo ancora nel 2024 è sbagliato e dimostra di non aver approfondito in alcun modo la materia. Che lo facciano testate di scarso valore è un conto, che succeda ai media di Stato è a nostro avviso grave:

RaiNews: Vaiolo delle scimmie, in Svezia primo caso della variante Clade 1 in Europa

Difatti, innanzitutto, anche se il virus è stato identificato per la prima volta in scimmie da laboratorio nel 1958, il nome “vaiolo delle scimmie” è ingannevole perché suggerisce erroneamente che le scimmie siano il principale serbatoio naturale del virus. In realtà, il virus è endemico in alcune regioni dell’Africa e si pensa che i roditori, come topi e scoiattoli, siano il serbatoio naturale più probabile, non le scimmie.

Ma il problema non è solo il ricondurlo erroneamente alle scimmie: anche l’uso del termine “vaiolo” può causare confusione con il vaiolo umano, una malattia completamente diversa e molto più grave che è stata eradicata.

Sebbene il virus appartenga alla stessa famiglia (Poxviridae) del virus del vaiolo, le due malattie hanno caratteristiche epidemiologiche e cliniche diverse. Per questi motivi, nel novembre 2022, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha raccomandato di usare il termine “Mpox” come nome preferito per la malattia precedentemente nota come “vaiolo delle scimmie”. Questa decisione è stata presa per ridurre lo stigma associato al nome e per riflettere meglio la comprensione scientifica della malattia.

Ad oggi uno dei pochi che vedo aver fatto chiarezza è il nostro buon amico dottor Andrea Casadio su Il Domani.

Scrive il dottor Casadio:

Ci dobbiamo preoccupare? Il vaiolo delle scimmie sarà la nuova pandemia globale? La risposta a entrambe le domande è no, non ci dobbiamo preoccupare, anche se questo nuovo virus è da tenere sotto controllo. Intanto, il 15 agosto è stato segnalato il primo caso di Mpox di clade I al di fuori dell’Africa: «Si tratta di una persona che si è infettata durante un soggiorno in una delle zone dell’Africa dove vi è un vasto focolaio della malattia», hanno dichiarato le autorità del paese.

«Il virus del vaiolo delle scimmie non è neanche lontanamente paragonabile al SARS-CoV-2, responsabile della pandemia di Covid-19», ha affermato Jay Hooper, virologo del Centro ricerche malattie infettive dell’esercito americano di Ford Derrick, nel Maryland. A differenza del SARS-CoV-2, che si diffonde attraverso le minuscole, invisibili goccioline emesse dai malati ma anche da portatori asintomatici, il virus del vaiolo delle scimmie si trasmette solo per contatto ravvicinato e diretto, cioè un essere umano per contagiarsi deve toccare le lesioni o i liquidi corporei di un infetto, e difficilmente le lesioni di un infetto da vaiolo delle scimmie passano inosservate.

Andrea Casadio però si è limitato a fare chiarezza su termini e preoccupazioni, noi crediamo invece che sia anche il caso di verificare alcune delle affermazioni riportate dai disinformatori seriali, disinformatori che cercano di fare leva, come sempre, sulle paure di chi li segue. Ad esempio Diego Fusaro racconta:

…l’emergenza permanente coincide con la nuova normalità, con il nuovo metodo di governo delle cose e delle persone proprio dell’ordine neoliberale. Lo stato d’emergenza permanente trapassa senza soluzione di continuità nello stato d’eccezione permanente: e la medicina diventa arte politica del controllo in chiave neoliberale, bio-politica, per riprendere il tema caro a Foucault, Toni Negri e Agamben.

Sostenere, sulla base delle avvertenze attuali dell’OMS su Mpox, che l’emergenza sanitaria sia diventata una “nuova normalità”, è un’opinione personale decisamente discutibile. La gestione delle emergenze sanitarie segue protocolli internazionali per proteggere la salute pubblica. L’emergenza sanitaria relativa al COVID-19 ha portato a misure straordinarie, ma sono state limitate nel tempo e basate su necessità improrogabili.

Insistere nel diffondere disinformazione, dando a intendere che vengano annunciate false emergenze allo scopo di controllare le popolazioni, andrebbe supportato da prove che non vengono mai portate dai disinformatori seriali, liberi di raccontare quel che vogliono anche grazie al fatto che in Paesi come il nostro difficilmente vengono puniti, come invece abbiamo visto succedere in US e UK ultimamente.

Nessuno nega che alcune misure (come i lockdown) abbiano avuto un impatto significativo sulle libertà individuali, ma non c’è evidenza alcuna che siano state utilizzate come parte di una strategia deliberata per instaurare uno stato di “emergenza permanente”, è un’interpretazione che non trova riscontro nei dati e nelle pratiche attuali.

Insistere nel portarla avanti come vediamo fare da tanti “influencer” populisti e sovranisti – e da alcune testate vicine all’attuale governo, che hanno contribuito al suo successo elettorale – è grave, specie visto che la comunità scientifica ha spiegato più volte che ci potranno essere nuove pandemie nel prossimo futuro.

Alessandro Rico (o chi per lui) su La Verità il 15 agosto 2024 titolava invece così:

Prima si fabbricano i sieri, poi l’emergenza

Con questo sottotitolo:

L’Oms dichiara lo stato di allerta globale per il vaiolo delle scimmie a causa dei focolai in Africa, concentrati al 96% in Congo, mentre nel mondo i casi sono circa 100.000. E l’Europa corre a fare incetta di vaccini da donare. Borrell: «Ne servono 10 milioni».

Dando a intendere qualcosa che non è, ovvero che le emergenze sanitarie vengano create o esagerate per giustificare la produzione e la distribuzione di vaccini. Ma siamo di fronte, ancora una volta, a una teoria del complotto che andrebbe dimostrata con prove, cosa che Rico e La Verità non fanno, pur portando avanti la tesi da anni.

Come avrete immaginato, infatti, non esiste alcuna prova che suggerisca che i vaccini vengano prodotti in anticipo rispetto alle emergenze con l’intento di creare una domanda artificiale. L’OMS e altre organizzazioni sanitarie agiscono in base ai dati epidemiologici disponibili e allo scopo di proteggere la salute pubblica. L’idea che l’Europa “corra a fare incetta di vaccini” non deve sorprendere, né far sospettare chissà quale malafede: si tratta di una risposta logica a un’emergenza sanitaria riconosciuta a livello internazionale. Le nazioni si preparano per contenere il virus e proteggere le popolazioni più a rischio, e la produzione e l’acquisto di vaccini fanno parte delle misure di preparazione per affrontare le minacce sanitarie fin da quando i vaccini esistono. Il focolaio di Mpox è stato particolarmente concentrato in alcuni Paesi africani come il Congo, non siamo qui a negarlo, ma si è diffuso anche in altri continenti, compresa l’Europa. La diffusione del virus e la risposta internazionale, inclusa la richiesta di vaccini, sono basate su dati epidemiologici concreti.

Per chi volesse approfondire la storia del Mpox suggeriamo quest’articolo su Science: Pulling back the curtain – the untold story of Mpox.

Mentre Mélenchon grida al colpo di Stato, Glucksmann punta a guidare la sinistra francese nel 2027 (linkiesta.it)

di

Il maratoneta

Il capo della France Insoumise persegue una politica sterile e provocatoria, pretendendo di imporre come premier Lucie Castets, ma non ha abbastanza seggi in Parlamento.

Mentre il leader di Place Publique lavora per riportare il Nuovo Fronte Popolare a una posizione più pragmatica e costruttiva

La sinistra francese è a pezzi, lacerata tra l’isteria gauchista e sterile di Jean Luc Mélenchon, che denuncia inesistenti colpi di Stato di Macron, e il riformismo socialdemocratico di Raphaël Glucksmann, che punta a costruire uno schieramento di sinistra affidabile per le presidenziali del 2027 nelle quali probabilmente sarà il candidato.

Glucksmann tenta di sottrarre la sinistra francese al dogmatismo gauchista che largamente la informa con parole nette: «È indispensabile rompere con l’estetica della radicalità che non è altro che settarismo». Questo, proprio nel momento in cui, proprio in omaggio a questo mito radicale, Jean Luc Mélenchon lancia una manovra suicida e provocatoria depositando in parlamento una mozione per la destituzione del presidente Emmanuel Macron per «violazione dei suoi doveri».

La tesi di Mélenchon è del tutto arbitraria perché sostiene che il Presidente è obbligato a dare l’incarico di formare il governo a Lucie Castets, una sconosciuta e scialba tecnocrate – finalmente indicata come candidata premier dalla gauche – perché la coalizione di sinistra è risultata prima nelle elezioni.

Ma Emmanuel Macron si guarda bene dal fare questa mossa avventurosa per una solidissima ragione costituzionale: il Nuovo Fronte Popolare è stato sì la coalizione più votata, ma ha ottenuto solo centottantadue seggi, dunque ben centosette meno della maggioranza di duecentottantanove.

Ora, in Francia, la Costituzione non prevede l’obbligo per i governi di ottenere il voto dì fiducia, quindi, in pura teoria, Castets potrebbe essere nominata premier, ma è certo che dopo una settimana il suo governo decadrebbe a causa di una mozione di censura massicciamente votata da tutti gli altri partiti.

Ma è esattamente questo, un disastro istituzionale che gli permette di fare la vittima «delle forze oscure della destra», lo scenario a cui lavora Mélenchon, le cui parlamentari partecipano a incontri di piena solidarietà con Hamas, del tutto incurante delle necessità di governabilità della Francia, e tutto teso a passare da propaganda a propaganda in un turbinio gauchista, condito da un verbalismo estremista esasperato.

Contro questa deriva settaria e giacobina si scaglia dunque Raphaël Glucksmann, il quale prende atto del fatto che in realtà Mélenchon è isolato a sinistra, perché né i socialisti né i verdi né i comunisti intendono sottoscrivere, e men che meno votare, la richiesta di destituzione di Emmanuel Macron. Nemmeno la sua candidata premier Castets la voterebbe.

Ma, soprattutto, Glucksmann guarda alle complicatissime trattative per la formazione del governo con un non casuale appello al ritorno alla sottile arte del compromesso: «A sinistra si è terrorizzati di fronte all’idea di essere considerati come impuri se si negoziano dei compromessi. Ma perché mai fare politica se ci si condanna all’impotenza e alle pose fini a sé stesse?».

Glucksmann coglie così nel segno, denunciando il principale problema della sinistra, e lo fa ben sapendo che, mentre Mélenchon sbraita e denuncia colpi di Stato inesistenti, Emmanuel Macron sta tessendo una sottilissima tela di compromessi in cui intende coinvolgere anche il partito socialista.

Il dato di fatto è drammaticamente semplice: il risultato elettorale di luglio in Francia non permette la formazione di nessun governo di coalizione omogenea che goda di una maggioranza parlamentare, anche risicata, né di destra né di sinistra. In questo senso, la decisione di Macron di sciogliere il parlamento e di indire elezioni anticipate ha portato a un risultato disastroso.

Peraltro, la Costituzione vieta di tornare al voto prima del giugno 2025. Quindi Macron, e l’ha detto chiaramente, lavora a formare un esecutivo di scopo, tra forze eterogenee, che potenzialmente possa essere votato da un ampio schieramento che va dai neogollisti, ai deputati di Macron e arriva ai socialisti, che si dia obiettivi minimi: una legge di Bilancio di tono minore e blandi provvedimenti contro il caro vita e a favore dell’occupazione.

Nulla più, se non la continuità del sostegno all’Ucraina, denominatore comune di questo largo spettro parlamentare. È quella che alcuni giornali chiamano “la strategia dell’omelette” che mira a coinvolgere tutti i partiti, tranne La France Insoumise a sinistra e il Rassemblement National a destra.

Una soluzione di estremo compromesso, al ribasso, per la quale non a caso Emmanuel Macron sta valutando addirittura, lo rivela Le Monde, di nominare un premier di lontana provenienza socialista, come Bernard Cazeneuve, che ruppe due anni fa col Ps in aperta polemica con l’alleanza nella Nupes con Jean Luc Mélenchon. È questa solo un’ipotesi sostenuta dall’ala sinistra dei collaboratori del Presidente. Altre, più centriste, hanno più forza.

Ma resta la sostanza che Glucksmann ha colto: Emmanuel Macron vuole coinvolgere il partito socialista, direttamente nel governo o di volta in volta, su singoli provvedimenti legislativi, in responsabilità di governo, quantomeno sino al giugno 2025. Il tutto, nella prospettiva non solo di elezioni anticipate l’anno prossimo, ma anche dello scontro con una Marine Le Pen forte come non mai alle presidenziali del 2027.

Appuntamento sul quale Glucksmann ha le idee chiare: «Sarà la socialdemocrazia, non i succedanei del macronismo o un avatar del populismo di sinistra che potrà affrontare il lepenismo». Di fatto una autocandidatura del leader di una sinistra che alle europee ha dimostrato di saper riconquistare consensi.

Si apre dunque in Francia per la sinistra riformista un percorso di compromessi alti e di possibili corresponsabilità di governo, una novità che i suoi leader devono saper valutare con saggezza, mentre i gauscisti alla Mélenchon gridano alla luna.