UCRAINA. 24/08 FESTA INDIPENDENZA, MANIFESTAZIONE-CORTEO A ROMA

Sabato 24 agosto, ore 18, Piazza della Repubblica

Il 24 agosto si celebra l’Indipendenza dell’Ucraina, la principale festività nazionale ucraina proclamata dal Parlamento nel 1991 e confermata da un referendum popolare.

Quest’anno, nel 33° anniversario, la Festa dell’Indipendenza assume un significato ancora più importante: l’Ucraina sta riconquistando la propria indipendenza e la propria libertà sul campo di battaglia, difendendosi dell’aggressione russa, la più brutale in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Nel Giorno dell’Indipendenza la comunità ucraina di Roma organizza una manifestazione-corteo per onorare quel valore per il quale i migliori figli e figlie del Paese stanno sacrificando la propria vita.

Il corteo partirà alle ore 18.00 da Piazza della Repubblica, proseguirà per Via Cavour e si fermerà in via dei Fori Imperiali, di fronte al Colosseo illuminato dai colori della bandiera ucraina grazie alla collaborazione con l’amministrazione comunale di Roma.

“Per ogni ucraino, propio in quel giorno, è importante stare insieme, per manifestare il sostegno e la solidarietà alla nostra patria, che combatte e resiste per esistere, e per onorare tutti gli eroi caduti per la libertà in battaglia contro l’aggressore russo – Ha così dichiarato uno dei promotori dell’iniziativa Oles Horodetskyy, presidente dell’Associazione Cristiana degli Ucraini in Italia. –
In questo giorno vogliamo anche rinnovare il nostro appello a tutto il mondo democratico, Italia compresa, affinché continui a sostenere l’Ucraina militarmente, politicamente, economicamente, perché difendere oggi l’Ucraina significa difendere la libertà delle future generazioni dei Paesi democratici.”

La comunità ucraina invita tutti gli amici dell’Ucraina a prendere parte all’iniziativa per condividere le nostre speranze di pace e il ritiro dell’aggressore.

SLAVA UKRAINI. HEROYAM SLAVA
GLORIA ALL’UCRAINA. GLORIA AGLI EROI

Associazione Cristiana degli Ucraini in Italia
Esarcato Apostolico in Italia – Апостольський Eкзархат в Італії
Посольство України в Італії/ Ambasciata d’Ucraina in Italia
Посольство України при Святому Престолі

Il vizietto italiano di imboscarsi, la retorica pacifinta e il ricatto dei sondaggi: la tattica del passo di lato per sopravvivere (ilriformista.it)

di Sergio Talamo

Un protocollo consolidato

Fratelli d’Italia fa marcia indietro dopo due anni e mezzo di sostegno a Kiev, il Pd fa da sponda al “partito della pace”. Ci allontaniamo dai grandi paesi Ue e dagli Usa: non abbiamo alcuna strategia e rinunciamo a essere protagonisti

Fratelli d’Italial’Italia s’è data.

Tradotto in europeo: ha fatto perdere le sue tracce, è sparita e non si sa bene dove sia finita. Sbagliare le scelte non è il peggio che possa capitare. Si possono in più sbagliare i tempi, facendo dietrofront quando si tratta di tener duro per cogliere i frutti di ciò che abbiamo scelto in passato. Due anni e mezzo di solidarietà all’Ucraina, per poi fare marcia indietro quando, per la prima volta, nella sua disperata resistenza Kiev inizia a intravedere uno spiraglio.

Siamo così abituati alle furbate della serie “ragazzi, qui si mette male”, da non distinguere più se per caso invece proprio ora forse si può metter bene. E per seguire questa sbilenca traiettoria usiamo parole senza un reale senso logico. Diciamo che la mossa di Kiev “allontana la pace” (il ministro Crosetto), mentre, al di là dei proclami a fini interni, ora il Cremlino inizia a capire che andare avanti può costargli caro.

Diciamo “no ad armi italiane per attaccare la Russia” (il ministro Tajani), un minuto prima di dire che vogliamo la Russia al tavolo della pace e non della resa, che invece era l’unico concepito da Putin. Diciamo che “è inaccettabile invadere uno Stato” (vicecapogruppo al Senato FdI, Speranzon), riferendoci incredibilmente non alla Russia ma all’Ucraina, che alza la testa dopo 30 mesi di bombardamenti e massacri.

E per carità di patria, non parliamo dell’opposizione, dove il sempre agguerrito partito “della pace” (dei cimiteri) trova sempre più frequente sponda in Elly Schlein.

L’Italia chiusa in un cantuccio

D’altra parte, bisogna pur far digerire a Conte la relazione extraconiugale con Matteo Renzi… E si sa che i sondaggi sul sostegno italiano alla difesa dell’Ucraina sono piuttosto impietosi: per rispondere all’ormai celebre esortazione di Mario Draghi, con il caldo che fa, meglio tener accesi i condizionatori che spendere soldi per quelle terre slave e lontane.

Poi però c’è la politica. Dopo il voto contrario alla von der Leyen, non è solo il governo ma l’intera Italia politica a rinchiudersi in un cantuccio, distante dai grandi paesi europei e dagli Stati Uniti. Di fronte all’evidenza di un atto militare che non rappresenta un attacco ma una declinazione della difesa, che non rappresenta un atto di guerra ma un atto indispensabile per ridurne l’impatto distruttivo e accorciarne i tempi, uno dei paesi fondatori dell’Europa e della Nato si imbosca come un impiegato delle commedie all’italiana. Ma dev’essere chiaro che queste movenze da pacifinti non disegnano una strategia, piuttosto la negano.

L’Italia non è mai stata neutrale

La neutralità è una posizione nobile e a volte saggia, e ci sono paesi che su questa hanno costruito la loro prosperità. E non va certo trascurato il valore della prudenza e della politica delle “porte aperte”, specie per un paese di frontiera fra nord e sud e fra est e ovest.

Ma il guaio è che noi neutrali non lo siamo, non lo siamo mai stati. In nessun regime. Non lo eravamo nel 1914, “panciafichisti” e dilaniati fra interventisti e neutralisti mentre il governo trattava con entrambi i fronti della guerra. Non lo eravamo un quarto di secolo dopo, quando Mussolini – per decidere il da farsi – aspettava di conoscere il vincitore per poi compiere l’errore fatale.

Non lo siamo stati l’8 settembre né tantomeno dal 1945 ad oggi, nonostante le sbandate ogni volta che le varie polveriere globali si incendiavano: il canale di Suez, i missili a Cuba, le guerre in Medio Oriente, la dissoluzione della Jugoslavia, i rapporti con la Russia e la Cina.

Un passo di lato, la tattica per sopravvivere

Sempre un passo indietro, sempre un passo di lato. È una regola della vita, un complesso della nostra mente che si irradia nella politica, per definizione grave ma non seria (by Ennio Flaiano). Proviene forse da una storia millenaria di divisioni e dominazioni straniere, che ci ha inculcato la tattica come unica ancora di sopravvivenza.

E i sondaggi pesano, eccome. Ma c’è pure un italiano speciale, Alessandro Manzoni, che scriveva: “Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. Si riferiva ai milanesi che negavano l’esistenza della peste.

Ma può estendersi agli italiani che preferiscono negare l’esistenza delle dittature e delle loro guerre di annientamento.

In Albania c’è una trattoria dedicata a Giorgia Meloni, i suoi ritratti sono su tutte le pareti (fanpage.it)

di Luca Pons

La trattoria Meloni è un locale aperto pochi 
giorni fa in Albania, a Shengjin. 

Su tutte le pareti si trovano ritratti della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che appare anche sull’insegna all’esterno.

La trovata ha attirato molta attenzione sui social.

Ritratti pop con sfondi colorati, foto espressive che guardano dalle pareti i clienti che mangiano: la Trattoria Meloni può sembrare uno scherzo, ma è un vero esercizio commerciale, lanciato in Albania negli scorsi giorni. Il volto di Meloni appare non solo su tutte le pareti (anche più volte) con combinazioni diverse di colori sgargianti, ma anche sull’insegna all’esterno del locale, che ritrae la faccia sovrapposta digitalmente a un frutto rotondo.

Sui social hanno attirato l’attenzione di molti utenti le immagini del locale, rilanciate con canzoni italiane e con l’invito del titolare (in italiano) a visitare il posto. A lanciare il locale è stato l’imprenditore Luca Gjergj, già proprietario di un altro ristorante amico del primo ministro Edi Rama: “Per me è una donna straordinaria”, ha dichiarato. “Quando culinaria, arte, politica e gratitudine si uniscono producono cose belle”. Non si tratta solo di “un ristorante, ma anche la casa della gratitudine per aver consolidato l’amicizia italo-albanese”.

Di sicuro la trovata è servita a fare promozione pubblicitaria. Sui social media, come detto, il locale ha ricevuto moltissimi commenti e condivisioni. Secondo chi ci è stato, però, c’è una sezione della trattoria in cui il monopolio si ferma: nel corridoio che porta al bagno, infatti, ci sono immagini di altri leader politici, come Barack Obama.

La trattoria Meloni si trova a Shengjin, paese di circa 13mila abitanti, noto anche in italiano come San Giovanni Medua. Shengjin è anche una delle località in cui sarà costruito uno dei centri migranti che il governo italiano ha concordato con l’Albania. Qui, infatti, dovrebbero sbarcare le navi che trasportano le persone soccorse in mare, e dovrebbe avvenire la prima identificazione.

Il condizionale è d’obbligo perché, al momento, non è noto quando i centri diventeranno attivi. Inizialmente avrebbe dovuto essere entro fine maggio, poi la data è slittata a inizio agosto. Alla fine, dopo un intervento del ministro dell’Interno Piantedosi che si è limitato a dire che ci sono stati problemi con i lavori – anche legati al caldo -, non c’è ancora una data di partenza. Finora, dell’iniziativa si è parlato più per le strane istruzioni fornite alla polizia che lavorerà nell’altro centro, a Gjader, che per la sua utilità nella gestione dei flussi migratori.

Oramai, la maggior parte dell’estate è passata. Secondo i dati del ministero dell’Interno, finora in Italia sono arrivate attraversando il Mediterraneo circa 38mila persone: meno dei due anni passati, in linea con il dato del 2021.

Nel frattempo il progetto che – nelle intenzioni dichiarate da Meloni lo scorso novembre – avrebbe dovuto essere “un esempio e un modello da seguire” è rimasto fermo.

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Travaglio e Meloni, lo strano rapporto tra direttore e premier: “Tipa sveglia, lei e Conte unici premier senza poteri forti” (unita.it)

I nuovi amici

Giorgia Meloni? “Una tipa sveglia”, anche se “non condivido nulla o quasi della sua azione di governo”.

Parola di Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano che in una intervista al Corriere della Sera racconta i rapporti con la leader di Fratelli d’Italia e presidente del Consiglio.

Una relazione inaspettata: l’alfiere dell’antiberlusconismo, il direttore del “bollettino delle procure”, apprezza la prima premier di estrema destra nella storia del Belpaese?

Travaglio e gli apprezzamenti per Meloni “tipa sveglia”

Ammirazione, spiega Travaglio, che deriva da un motivo semplice: le modalità con cui Meloni è arrivata al potere, che ricalcano quelle del suo “protetto”, il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte. In questi anni sono stati gli unici due presidenti del Consiglio ad essere arrivati a Palazzo Chigi senza la cooptazione dei poteri forti.

Il leader del Movimento 5 Stelle è giunto lì per caso. Lei, Giorgia, è invece arrivata dalla periferia. La presidente del Consiglio è un underdog o un outsider anche se fa politica da trent’anni, perché proviene da una formazione che da sempre è stata tenuta a distanza dalle logiche di potere. Ecco perché mi meraviglia”, dice il giornalista e direttore del Fatto Quotidiano.

Travaglio non manca di criticarla, soprattutto per aver velocemente dimenticato le sue battaglie contro i “poteri forti” e “l’establishment”. “Mi meraviglia che non abbia dato seguito da presidente del Consiglio a questa sua caratteristica. Ha dovuto promettere fedeltà agli americani, all’Europa, a tutti quelli che ha dipinto come poteri forti, pensiamo ad esempio al rapporto super compiacente che ha avuto con il governo Draghi. Diciamola tutta, si è un po’ parata le spalle”, è l’analisi di Travaglio.

Che aggiunge un esempio delle presunte campagne contro la premier dell’”establishment”: “Non a caso appena ha votato contro la presidente della Commissione europea uscente sono subito piovute le critiche. E lo stesso è successo non appena il ministro della Difesa Guido Crosetto si è permesso di criticare l’Ucraina. Meloni è sempre sotto esame. Se asseconda l’establishment è salva, altrimenti le saranno ordite una serie di trappole”.

Meloni e Travaglio, uniti dal giustizialismo

Ma ad unire i due c’è sicuramente un tema: il giustizialismo, quella maledetta voglia di manette e carcere che accomuna il direttore del Fatto Quotidiano e la destra “law and order” che brama per la costruzione di nuove carceri come unica soluzione al sovraffollamento delle carceri e al dramma dei suicidi.

E infatti Travaglio sottolinea di non avere “una avversione irriducibile per tutti quelli che stanno nel centrodestra. Ho una avversione irriducibile per i delinquenti. Quando Meloni ha confermato il carcere duro nei confronti del superboss ho titolato: “Buona la prima”. Speravo di scrivere “Buona la seconda”, “Buona la terza” e invece non è stato così.

Giorgia Meloni è una persona perbene che sta facendo male. E mi faccia aggiungere una cosa: a mio avviso ha fatto una cavolata a paragonarsi a Silvio Berlusconi”, con riferimento al presunto “complotto” contro Arianna Meloni, sorella della premier che secondo ‘Il Giornale’ di Sallusti sarebbe addirittura sotto inchiesta per il suo ruolo nelle nomine nelle aziende pubbliche.

I rapporti tra Marco e Giorgia

Quanto al loro rapporto personale, Travaglio racconta al Corriere della Sera di aver conosciuta Meloni 15 anni fa, quando era ministro della Gioventù nel governo di Silvio Berlusconi. “Se non sbaglio ci siamo incrociati in treno, dopodiché ci saremo visti un paio di volte a pranzo per scambiare due chiacchiere, perché mi incuriosiva questa giovane esponente del governo.

E poi basta: ho solo avuto un rapporto da giornalista. Devo dire che mi è molto simpatica. Ha rotto con Berlusconi ai tempi del PdL, per fondare un suo partito, sganciandosi così dal governo Letta-Alfano. Si è sempre mossa nel segno della coerenza tenendosi a debita distanza dalle manovre di palazzo. Insomma le premesse c’erano tutte…”, spiega il giornalista.

Quanto all’ultimo incontro, Travaglio racconta che è stato recente, per invitarla alla festa del Fatto Quotidiano, anche se da parte sua non c’è stata ancora risposta.

Kamala vola sull’onda del pop (doppiozero.com)

di Daniela Gross

È l’estate della luna di miele. 

Sorretta dal sollievo che ha salutato l’uscita di scena di Biden, Kamala vola nei cuori e prende quota nei sondaggi.

La prima donna di colore candidata alla presidenza degli Stati Uniti. La vicepresidente impopolare che ha rianimato in extremis la speranza democratica. La nuova regina della pop culture. Raggiante, sicura, spiritosa. Piaccia o no, è una boccata d’ossigeno – così imprevedibile da mandare in confusione la campagna di Trump.

È successo così in fretta da far girare la testa. Un mese. Tanto è passato dall’addio di Biden e l’ingresso in scena di Harris. L’imprimatur del partito è arrivato a tempi record da una votazione virtuale e la Convention democratica che apre a Chicago il 19 agosto sarà un’incoronazione più che un confronto.

È il ritmo isterico dei social e la risposta non si è fatta attendere. Emoji, meme e Gif ispirati a Harris hanno inondato internet. Celebrities del calibro di Beyoncé, Meghan Thee Stallion e Ariana Grande hanno dichiarato il loro sostegno; Shepard Fairey, a cui si deve il celebre manifesto HOPE con Obama, le ha dedicato un ritratto azzurro-blu intitolato FORWARD, stilisti di grido hanno firmato felpe, borse, cappellini destinati a finanziare la campagna.

Shepard Fairey
(Shepard Fairey)

Il tocco decisivo si deve però alla cantante hyperpop inglese Charlie XCX. “Kamala IS brat” ha proclamato e la definizione ha fatto il giro del mondo. In inglese Brat, titolo del suo ultimo album, sono i bambini che fanno i capricci – marmocchi, mocciosi, fastidiosi.

Brat, ha spiegato l’artista, è “quella ragazza un po’ disordinata, che ama divertirsi e che a volte dice cose stupide. Una che si sente bene con se stessa ma può avere un crollo. Però passa facendo festa”. Come si applichi alla candidata presidente degli Stati Uniti, una signora di 59 anni con le perle e la messinpiega già procuratore generale della California, non è chiaro ma non c’entra.

Oggi la politica si fa e disfa così, come conferma un nuovo studio di Harvard. I giovani si fidano poco dei leader, delle istituzioni e dei media tradizionali. Le celebrities sono invece uno strumento prezioso di impegno e mobilitazione civica. Nel 2018 un semplice post di Taylor Swift ha prodotto in tre giorni 250 mila registrazioni al voto e un analogo post di Kylie Jenner ha mandato in tilt il sito a cui faceva riferimento (negli Stati Uniti per votare bisogna iscriversi all’apposito registro).

Quanto a Charlie XCX, il messaggio ha totalizzato 54 milioni e mezzo di visualizzazioni e milioni di rielaborazioni solo nei primi giorni. E mentre gli opinionisti disquisiscono sull’attitudine e l’estetica della Brat Summer, le donazioni piovono e l’entusiasmo cresce fra i più giovani che Biden si era perso per strada.

Su un terreno più concreto, il programma di Harris resta da scoprire anche se in vista della convention ogni giorno aggiunge un dettaglio. È entrata in gioco in finale di partita, evitando il tour de force delle primarie che nelle presidenziali 2020 l’avevano vista ritirarsi dopo pochi mesi ma più della politica adesso contano gli umori, il vibe, l’energia.

È la stagione dei sorrisi, dei colori e dello storytelling. Il momento magico in cui il mito nascente prende forma e si assesta nel racconto collettivo. L’ottimismo di Kamala contro gli umori neri di Trump. Il sogno dell’America e le sue possibilità contro le visioni apocalittiche. La voglia di futuro contro il ritorno al Medio Evo. Una donna per i diritti delle donne.

Per tornare con i piedi per terra basterà aspettare il primo dibattito fra Harris e Trump. Intanto, una fetta d’America ha voglia di sognare e i media tirano la volata a Harris in quella che Tony Fabrizio, responsabile dei sondaggi per Trump, ha definito la più grande campagna promozionale a costo zero mai vista. A conferma, Time ha dedicato a Harris la copertina, un altro ritratto lusinghiero, questa volta in bianco nero, con tanto di sostenitori che reggono cartelli con il suo nome.

All’interno, la giornalista Charlotte Alter paragona l’ultimo rally di Harris a Philadelphia a un concerto di Taylor Swift e Beyoncé: musica, applausi, braccialetti luminosi. Poi, l’interrogativo più urgente: ce la farà quest’ondata a tradursi in un’efficace campagna elettorale?

Copertina Time

Il vantaggio di Kamala è che non ha bisogno di presentazioni. Naviga la scena politica da trent’anni, è stata procuratore della California, senatrice degli Stati Uniti e infine vicepresidente. Se n’è già detto e scritto tutto e a raccontarsi è stata lei stessa nel memoir Le nostre verità (384 pp, trad. Giovanni Agnoloni) pubblicato in italiano da La nave di Teseo nel 2021.

Sono le pagine che consacrano la versione ripresa, parafrasata e trascritta all’infinito. L’infanzia sulla linea di confine fra Oakland e Berkeley, a mezz’ora da San Francisco; i genitori attivisti civili, l’amata madre Shyamala Gopalan, ricercatrice sul cancro immigrata dall’India e il padre Donald economista giamaicano. La comunità nera che fin dal suo arrivo accoglie Syhamala e diventa “il fondamento della sua nuova vita americana”. L’autobus che, in un esperimento nazionale di desegregazione, porta Kamala a scuola in un quartiere a maggioranza bianca.

E poi il lavoro come procuratore distrettuale e generale, l’elezione al Senato, il matrimonio con Doug Emhoff, il rapporto affettuoso con i figli di lui che, come ormai sa l’intero pianeta, la chiamano Momala (il perché l’ha spiegato all’attrice Drew Barrymore in una delle interviste più imbarazzanti nella storia dei media).

Le nostre verità

Uscito negli Stati Uniti nel 2019, in occasione della sua prima corsa alla presidenza, come molti libri che accompagnano una campagna elettorale è innanzi tutto uno strumento di marketing, il genere di lavoro dove nulla è lasciato al caso.

Il risultato è una narrazione che talvolta va in affanno: la storia personale vira sull’edificante, le enunciazioni politiche si sprecano e certe omissioni si notano – a partire dal nome di Obama che spicca per la sua assenza quando Harris descrive la sua frustrazione per le politiche sull’immigrazione nel 2014.

Eppure è un libro da leggere. Il ritratto di una donna forte, decisa, preparata. Soprattutto, è il racconto di una passione politica radicata negli ideali che hanno fatto grande l’America – libertà, eguaglianza, opportunità. Più che sulla sua love story con Doug Emhoff, vale dunque la pena soffermarsi sugli anni formativi dell’infanzia, sul rapporto con la comunità, sulla scelta di entrare in Procura.

L’ex procuratore generale della California descrive così la sua prima udienza: “Quando venne il mio turno, mi alzai dalla mia sedia al banco della pubblica accusa e mi feci avanti per raggiungere il podio, pronunciando le parole che ogni procuratore a questo punto recita: Kamala Harris, per il popolo”.

È la formula di prammatica che negli anni devastanti delle incarcerazioni di massa, dalla crisi economica e dell’epidemia di oppioidi proverà con tutte le sue forze a tradurre in pratica. “Sapevo di essere lì per le vittime: sia quelle dei crimini commessi, sia quelle di un sistema di giustizia criminale che non funzionava affatto. Per me, essere un procuratore progressista significa capire e intervenire su questa dicotomia”.

Parlare di ideali in questi anni di svilimento del discorso pubblico, sempre più rabbioso e partigiano, suona quasi fuori posto. E basta tornare alle dense pagine dell’autobiografia di Barack Obama, Una terra promessa (Garzanti, 2020, 816 pp.), per misurare quanta acqua è da allora passata sotto i ponti. Valori, idee, un progetto di futuro.

La tensione verso un’America più giusta e solidale. Era la promessa del primo presidente afroamericano della Storia e molti oggi considerano Kamala Harris la sua erede. Gli Obama hanno espresso il loro sostegno alla sua candidatura e il potenziale nesso storico è evidente. Ma Kamala Harris non è Obama come non è Hillary Clinton, l’altro termine di paragone scontato.

Come la Clinton, prova a dare l’ultima spallata alla barriera che separa le donne d’America da una piena eguaglianza. “Anche se questa volta non siamo riusciti a infrangere quel soffitto di cristallo così alto e resistente, grazie a voi, ora è pieno di circa 18 milioni di crepe,” aveva detto Hillary ai suoi sostenitori dopo la sconfitta alle primarie democratiche nel 2008. “La prossima volta il cammino sarà più facile”, aveva assicurato. Otto anni dopo, doveva diventare la prima donna a guidare il ticket presidenziale di un grande partito e la vincitrice del voto popolare.

La nomination di Harris sembra darle ragione: una donna candidata alla presidenza degli Stati Uniti non è più un tabù. La domanda non è però se l’America sia pronta a eleggere un presidente donna – ma se sia pronta a eleggere una donna nera e asiatica seppure affiancata da Tim Walz, un vicepresidente che più bianco non si può.

Trump l’ha già definita un candidato DEI (Diversity, Equity, Inclusion) ma forse il colore si rivelerà la carta vincente, suggerisce Tressie Mc Millan Cottom sul New York Times. “L’idea che le donne nere siano mascoline potrebbe contrastare l’aspettativa che le candidate femminili debbano essere gradevoli”.

E che un presidente così non si sia mai visto prima potrebbe essere un altro punto a favore. “Sotto molti punti di vista, – conclude – solo una donna di colore avrebbe potuto farlo. Poiché non l’abbiamo mai immaginata, può ridefinire come sarà il futuro del potere per tutti noi.”

Più che delle suggestioni della Storia, dicono però i sondaggi, gli elettori si preoccupano dei prezzi alle stelle, dei posti di lavoro e dell’immigrazione. La campagna di Harris maneggia dunque con cura i temi del genere e del colore, cavalca gli entusiasmi e schiva i giornalisti, interviste e conferenze stampa sarebbero previste solo a fine agosto – un aspetto che le ha già attirato gli strali dei repubblicani. La luna di miele è agli sgoccioli e va sfruttata fino all’ultima goccia.

Fra poco si capirà se la metamorfosi di Kamala regge l’urto della realtà. La vicepresidente famosa per le gaffe, le risate a sproposito e l’inconcludenza si è davvero trasformata nella candidata che oggi infiamma le folle? Il primo riferimento dopo la candidatura non sono state né Beyoncé né Taylor Swift ma Veep, la serie tv in cui Julia Louis-Dreyfus interpreta una vicepresidente incapace e ambiziosissima che naviga senza scrupoli i corridoi di Washington.

E allora, cos’è successo? È maturata, cambiata, cresciuta? O, come sostiene qualcuno, è tutta una macchinazione e dietro c’è la mano di Obama? Chi vivrà vedrà. Intanto, è la Summer Brat. È il momento di essere sexy, bere vodka e fregarsene di quello che pensano gli altri: domani è un altro giorno.

Propaganda russa che diffonde annunci falsi sulla ricerca di camion frigoriferi a Sumy a causa delle “elevate perdite” dell’Ucraina nella regione di Kursk (ukrinform.net)

di Andriy Olenin
I propagandisti promuovono le loro narrazioni 
attraverso la pseudo-pubblicità e il blogger 
anti-ucraino di Pryluky
Nel mezzo dell’operazione dell’Ucraina nella regione russa di Kursk, l’esercito del paese aggressore perde territorio, materiale e manodopera e il suo personale militare si arrende in massa.
La propaganda russa cerca di “nascondere” i fallimenti russi sul campo di battaglia.

Ukrinform ha recentemente pubblicato un fact check che smentisce l’ennesimo falso dei propagandisti russi riguardo alle “enormi perdite” dell’Ucraina nella regione di Kursk. Sembra che questo sia l’argomento principale della campagna di disinformazione della Russia riguardo all’offensiva ucraina nella regione di Kursk.

Il nostro team ha scoperto che i media russi, i canali Telegram favorevoli alla guerra e i bot su stanno pubblicando foto di annunci pubblicitari che sarebbero stati scattati vicino a un ospedale di Sumy. Il testo afferma che l’amministrazione dell’ospedale è alla ricerca di camion refrigerati, presumibilmente a causa di “elevate perdite” nelle forze armate ucraine.

Questo è un falso. Il numero di telefono di contatto indicato in questi annunci appartiene presumibilmente a un uomo di nome Dmytro. Tuttavia, utilizzando l’applicazione mobile Getcontact, abbiamo scoperto che questo è il numero di telefono di una ragazza di nome Daria.

Ha detto a un corrispondente di Ukrinform che non ha pubblicato tali annunci. La ragazza ha detto che vive a Kiev e non è mai stata a Sumy.

Inoltre, la foto del frigorifero, che i propagandisti russi hanno utilizzato per creare un falso annuncio, è stata pubblicata in precedenza sul sito web di un negozio online russo.

Un altro falso, che i canali Telegram russi hanno iniziato a diffondere, è stato prodotto in Ucraina. In un video su TikTok, un blogger soprannominato oleksandr_inform racconta in ucraino, seduto nella sua auto, che l’esercito ucraino avrebbe subito “pesanti perdite” nella regione di Kursk e che gli obitori nella regione di Sumy sembrano essere sovraffollati.

Questo è un falso. Questo blogger di TikTok vive a Pryluky, nella regione di Chernihiv, e registra regolarmente video falsi e manipolati sulla situazione economica, la mobilitazione e la guerra in Ucraina.

Nei suoi numerosi video, tra cui quello sulle “perdite nella regione di Kursk”, non fornisce alcuna prova, ma esprime semplicemente la sua opinione personale non supportata.

La propaganda russa in precedenza aveva diffuso un falso su un sacerdote della Chiesa ortodossa ucraina che pregava per il riposo di Trump.

Ukrinform ha riferito in precedenza che le forze armate ucraine avevano preso il controllo di oltre 1.000 chilometri quadrati di territorio e dozzine di insediamenti nella regione di Kursk.

Il comandante in capo delle forze armate ucraine Oleksandr Syrskyi ha affermato che le truppe ucraine sono avanzate da 1 a 3 chilometri in alcuni settori della regione di Kursk.

Fantasie siberiane. Quando Lilin si è inventato tutto (lastampa.it)

Scusi, da che parte si trova Fiume Basso?
La mitica roccaforte degli Urca siberiani descritta da Nicolai Lilin nel suo Educazione siberiana (Einaudi) come la terra dove ha imparato il codice d’onore criminale, crescendo tra coltelli, pistole, icone e tatuaggi?
Gli abitanti di Bendery scrollano le spalle, poi suggeriscono di allontanarsi dal centro per un paio di isolati, nel «settore privato», come nella provincia ex sovietica si chiamano i quartieri di casette quasi rurali a uno-due piani, con orto e giardino. Ma è il quartiere dei siberiani? Denis Poronok è perplesso: «Chi sono? Mai sentiti».
Questa è la Transnistria, che nell’immaginario del lettore italiano si colloca a metà tra Corleone e Macondo. Una scheggia dell’impero sovietico tra l’Ucraina e la Moldova, che vive dal 1990 in un limbo giuridico e politico: falce e martello nella bandiera, guarda a Mosca, ma formalmente resta parte della Moldova, anche se si comporta con indipendenza.
La Siberia è lontana migliaia di chilometri, ma è qui che è nato il fenomeno letterario della stagione: la storia dell’adolescenza di Nicolai e della sua «famiglia» siberiana che animava una resistenza al regime con le armi in mano. Una storia descritta nei particolari, nomi, luoghi, circostanze, usi e costumi.
Tra i russi che hanno avuto modo di leggerla, la mitologia siberiana ha suscitato irritazione e perplessità. «La nostra è una città multietnica, russi, ucraini, moldavi, la zarina Caterina aveva mandato coloni tedeschi ed era numerosa la comunità ebraica. Ma i siberiani non si sono mai visti», dice Denis, fotografo e cameramen della tv locale. Una perplessità normale per i russi, per i quali i siberiani non sono un’entità separata, ma al massimo quei 36 milioni che abitano i 13 milioni di chilometri quadrati (tre volte l’Unione Europea) dagli Urali al Pacifico, composti da galeotti e scienziati, cacciatori indigeni e ingegneri dei pozzi petroliferi.
Secondo Lilin, gli Urca sarebbero una minoranza etnica «discendente degli antichi Efei» che viveva di caccia e rapina e che dalla Siberia venne deportata in Transnistria negli anni Trenta, quando era parte della Romania (sarebbe stata annessa all’Urss nel 1940, nella spartizione dell’Europa tra Stalin e Hitler). Così i comunisti avrebbero popolato «l’impero romeno», come lo chiama lo scrittore, di criminali russi sconfiggendo le cosche locali. «Assurdo», ride Pavel Polian, storico russo che da 25 anni studia le deportazioni di comunismo e nazismo: «Si deportava in Siberia, ma non dalla Siberia, meno che mai in Moldova. E gli Efei non sono mai esistiti». Anche degli Urca i dizionari etnografici non portano traccia. In compenso, vengono citati già nel 1908 nel vocabolario del gergo criminale di Trakhtenberg: urka, o urkagan, criminali di professione, ladri, bari, rapinatori. Una parola antica, un esercito criminale che dalle pagine di Solzhenitsyn, Shalamov e Herling appare dotato di una ferocia disumana, usato nel Gulag contro i detenuti politici.
Oggi i loro eredi preferiscono chiamarsi «vory», ladri. La «famiglia» di Lilin potrebbe essere una scheggia di quel mondo? «Non ho mai sentito parlare di una mafia siberiana separata con quelle tradizioni», dice Federico Varese, professore di criminologia a Oxford e uno dei massimi esperti di mafia russa. E l’arte segreta dei tatuaggi? «Fa parte della subcultura dei “vory”, con particolare enfasi sulle madonne, negli Urali esistono cosche “blu”, dal colore dell’inchiostro sulla pelle», dice Mark Galeotti, professore alla New York University che studia la criminalità postsovietica. «Ma sono comuni a tutti i criminali russi».
Secondo Lilin l’esistenza stessa degli Urca era un segreto del regime: una comunità quasi estinta, che aveva lasciato un segno profondo, vincendo da sola la guerra del 1992, quando la Moldova in preda a bollenti spiriti postsovietici ha invaso la provincia separatista. In Educazione siberiana si narra del trionfo dei «siberiani», riusciti a far esplodere uno dei due cinema di Bendery pieno di militari. Marian Bozhesku, ricercatore ucraino autore di Transnistria 1989-1992, lo studio più esaustivo sul conflitto, dice di non averne mai sentito parlare. «Per noi il ricordo della guerra è ancora vivissimo, abbiamo combattuto disperatamente, dire che sono stati i criminali a vincerla è ridicolo», s’indigna Denis Poronok, che ha la stessa età di Lilin e contesta la «versione di Nicolai»: «Il cinema esploso è una fiaba, e nel ’92 a Bendery c’erano quattro sale, non due».
La Macondo dei siberiani moldavi si sgretola così, un mondo dove geografia e storia diventano fiction. Resta la storia di un ragazzo cresciuto in periferia tra gang e degrado. Una biografia nella quale molti russi si riconoscerebbero. Ma Bendery è una città piccola, 80 mila abitanti dove tutti si conoscono. Conoscono anche Nicolai (anche se all’epoca portava un altro cognome), si ricordano i suoi genitori e il nonno Boris, «grande persona, ha lavorato fino all’ultimo», dice un coetaneo dello scrittore. Si frequentavano quando erano ventenni, è stato anche a casa sua: «Non c’erano icone, nè armi, nessun oggetto “siberiano”. Lui era uno curioso, leggeva molto». Nulla di criminale? «Mai sentito che fosse stato in galera, anzi si diceva che a un certo punto si fosse arruolato nella polizia».
L’ha rivisto quando Nicolai è tornato a casa, l’anno scorso, accompagnato da un italiano che presentava come produttore tv: «Voleva girare un film sulla Transnistria, diceva che in Italia ne hanno l’idea sbagliata di un luogo orribile, voleva mostrare che siamo gente normale, certo non stiamo benissimo, ma nemmeno così male. Gli avevo presentato artisti, intellettuali, giornalisti». Tra i quali anche Denis: «Mi aveva invitato in Italia a fare una mostra fotografica. Ora che ci penso, se ci fossi andato mi avrebbe spacciato per un Urca siberiano, tanto non avrei capito nulla».