Bruno Martino ha cantato la malinconia di chi non riesce mai a sentirsi all’altezza dell’estate (rivistastudio.com)

di Arianna Giorgia Bonazzi

Estate

“Odio l’estate” non è il manifesto degli hater delle vacanze ma la canzone di chi non può fare a meno di sentirsi inadeguato a una stagione troppo bella, vitale e spensierata.

Parlare ancora di “Estate” di Bruno Martino (rititolata così dopo che Lelio Luttazzi la parodiò in tv con “Odio le statue”, ma meglio riconoscibile col suo primo titolo: “Odio l’estate”) potrebbe sembrare il solito strale antipatico del guastafeste che si oppone alla stagione più amata dalle masse.

Non è così semplice, per vari motivi. Il primo è che la tristezza estiva non è una posa dei bastiancontrari su X, ma un sentimento antichissimo che il poeta Alceo, vissuto a Lesbo nel VII secolo a.C., descriveva con queste parole: «Bagna i polmoni nel vino […] La stagione è opprimente, assetato è tutto […] È in fiore il cardo: ed ora le donne son più lascive, molli son gli uomini, giacché Sirio il capo e le ginocchia inaridisce».

Il fastidio per l’estate – per il cattivo accordo dei propri moti interiori con la luce e il calore opprimente – risale a molto prima che i motori dell’aria condizionata venissero a turbare le notti dei palazzi urbani e la brutta musica quelle degli alberghi a mare; a ben prima che il Summer blues – la variante estiva della depressione meteoropatica – venisse codificata con la stessa dignità degli istinti suicidi nei Paesi nordici d’inverno.

La seconda ragione per cui “Estate” non è una banale scelta da Sad girl è che Bruno Martino (e il paroliere Bruno Brighetti) non odiavano davvero l’estate; infatti, pur morendo di dolore e invocando la neve a coprire tutte le cose, il risultato era una specie di ode (ok, malinconica) alla stagione.

Prova ne sia che le versioni inglesi o brasiliane del brano – che negli anni è stato ripresissimo, fino a diventare un canone del jazz e della bossanova – hanno solo parole elogiative per questa stagione, come se al di là del testo originario, e perfino dell’arrangiamento, stessero a significare che, alla fin fine, questa è una canzone dell’estate, sull’estate, per l’estate.

Mi riferisco, per esempio, a un adattamento inglese del 1965, il quale, anziché lamentarsi di un amore trovato e perso d’estate, si augurava che l’avventura a questo giro si rivelasse solida: «This summer/ perhaps I’ll meet the one who’ll be my true love/ The one who won’t be just another new love/ Who’ll still be mine when leaves begin to fall…».

Lo stesso João Gilberto, artefice della fama mondiale del brano, aveva tolto subito la parola odio dal testo, pensando che la saudade insita nella musica fosse più che bastevole. L’odio poi, oggi, è cosa ben diversa: ha a che fare col livore, è espressione gratuita e violenta di dissenso da hater.

Invece Bruno Brighetti, che leggenda vuole avesse scritto il testo dopo una intossicazione da frutti di mare in un hotel di Napoli nel 1960, non era capace di vero odio. Al massimo del malumore diceva: odio l’estate perché è troppo bella. Voglio che passi solo perché io non sono felice. Perché tutti sono innamorati invece io ho mal di stomaco.

È questo il sentimento veramente condivisibile che abbiamo provato tutti – non il lamento sterile dei calorosi, dei nemici delle zanzare, dei detrattori del mare, dei workaholic: la sensazione esistenziale che il nostro cuore non stia al passo col fulgore dell’estate; che non si accordi ai colori sgargianti della frutta e dei vestiti; alla dolcezza delle carni all’ombra, ai profumi del pino e del limone. Che il nostro cuore, insomma, sia un posto troppo più freddo della spiaggia a quaranta gradi dove tutti si muovono con ostentata grazia e stolido buonumore.

Se è vero che “Estate” era in netta controtendenza rispetto alla canzone leggera di un’estate italiana del boom economico, è però successo a tutti, in ogni epoca storica, di sentirsi sfasati rispetto all’obbligo morale estivo dell’innamoramento e della spensieratezza.

Chi soffre lo sfasamento per l’estate non è un vero hater, sa che l’estate è calda come i baci (che ha perduto) che ha dato il suo profumo ad ogni fiore (facendoci morire di dolore) e il sole che ogni giorno ci donava adesso brucia solo con furore. La tristezza dell’estate, in definitiva, non è che il perenne desiderio di raggiungere i suoi standard.

Io, personalmente, soffro di un complesso da inadeguatezza all’estate dai tempi dei miei primi compleanni agostani, che spesso, per manie di grandezza congenite, si rivelavano delle puntate di giochi senza frontiere casalinghe che coinvolgevano tutta la cittadinanza minorenne.

Al momento di chiudere la porta alle spalle dell’ultimo invitato, crollavo in una crisi di nervi perché avevo atteso quel giorno sin dai primi bagliori di giugno, perché come un santo patrono portato in gloria avevo immaginato che sarei stata davvero felice, e perché quella felicità non l’avevo acchiappata nemmeno quando dalla torta era uscita una carrozza con i pony.

Tutto fuori da me appariva troppo più smagliante e sorridente del mio stato d’animo, di me, delle mie possibilità emotive, dei miei più ottimistici desideri di esser come tutti.

Che la si ami o no, arriva per ciascuno il momento in cui l’estate chiede troppo alla nostra vitalità in termini di entusiasmo; arriva, cioè, il momento in cui ci ciascuno in segreto si ripete piano: tornerà un altro inverno, e il cuore un po’ di pace troverà.

La Germania e la “pandemia dei non vaccinati” (butac.it)

di 

Ci è arrivata l’ennesima segnalazione di un articolo apparso sul blog di Nicola Porro, soggetto che tutt’ora ha un contratto televisivo come giornalista con Mediaset pur avendo dimostrato ampiamente, grazie al suo blog, di non avere alcun interesse per i fatti.

L’articolo che ci è stato segnalato è del 31 luglio 2024, è firmato da Claudio Romiti, e titola:

“Pandemia non vaccinati mai esistita”. La verità viene a galla in Germania

Il pezzo racconta, senza mai mettere in dubbio i fatti, quanto riportato da “Aya Velázquez” (ex prostituta e attivista per i diritti dei lavoratori del settore) pseudonimo, secondo Tages Spiegel, di Magdalena Janynota fin dal 2019 in Germania per le sue posizioni complottiste e per aver contribuito a diffondere svariate teorie del complotto.

Di cosa stiamo parlando? Del report diffuso – senza conferma sia reale – dalla stessa Velázquez, e che riporterebbe i documenti del Robert Koch Institute sulla pandemia. Scrive Romiti:

In estrema sintesi, è emerso ciò che si “sospetta” sia avvenuto anche in Italia, ossia che le autorità sanitarie abbiano nascosto alcuni elementi che avrebbero reso ingiustificabili le misure restrittive, aggravando il quadro pandemico in ossequio alle aspettative del potere politico. In questi verbali, oltre ad emergere un certo disaccordo all’interno del Robert Koch Institute, basato su studi che sembravano smentire clamorosamente alcune scelte, come l’uso massivo delle mascherine, ma che alla fine chi era a capo tagliava corto e imponeva la linea del governo. Ed è così in merito alla questione ancora tutta da decodificare dei vaccini sperimentali. Sebbene, infatti, molti scienziati del RKI avessero espresso fortissimi dubbi circa la decisione di immettere sul mercato tali vaccini, realizzati saltando tutte le precauzioni del passato, il capo dell’Istituto, Lothar Wieler, impose d’autorità la sua linea: “Le misure non debbono essere messe in discussione”.

In Germania testate serie come Zeit Online hanno scritto che, dai documenti verificati pubblicati in prima istanza dallo stesso Robert Koch Institute, non pare emergere nulla che faccia presupporre quanto sostenuto dai documenti riportati da Velázquez:

Una cosa è chiara dopo aver letto le pagine su cui ZEIT ONLINE ha lavorato finora: il contenuto non costituisce uno scandalo, soprattutto se lo si legge nel contesto dell’epoca. Il lavoro della squadra di crisi dell’RKI è meticolosamente registrato. Come vengono compilati quasi ogni giorno i numeri del coronavirus, studi e opinioni di esperti provenienti da tutto il mondo per ricavare raccomandazioni attuali e scientifiche che la politica può utilizzare come guida. L’immagine che emerge è quella di un’autorità che lotta per argomenti concreti in una vita quotidiana in cui nuovi fatti vengono aggiunti quasi ogni giorno.

Nello stesso articolo Zeit Online spiega appunto che:

…sono disponibili tutti i protocolli della task force, anche se non è del tutto certo che siano autentici. L’RKI fa sapere che non sono stati esaminati o verificati. Quello che il gruppo ha presentato martedì è stato passato a Aya Velázquez. Lei dice che proviene da qualcuno che ha lavorato all’RKI in passato, “un whistleblower”.

Secondo Zeit anche nei documenti nuovi pubblicati da Velázquez, gli “RKI leaks”, non ci sono informazioni sorprendenti, se non i tentativi da parte dei politici di influenzare il lavoro dell’Istituto, tentativi che però pare non siano andati a buon fine, secondo quanto notato da ZDF.

Perché queste cose sul blog di Porro non vengono riportate? Perché non viene spiegato che Aya Velázquez non è considerata soggetto affidabile, se non dai seguaci delle teorie del complotto? Perché non vengono riportate parole di giornalisti tedeschi che hanno analizzato i documenti a loro volta? Perché, come detto all’inizio, non c’è alcun interesse per raccontare fatti.

Sia chiaro, in tutto il mondo i politici hanno cercato per quanto possibile di influenzare le autorità sanitarie, in un verso o nell’altro, non dovremmo sconvolgerci a questa notizia, e non dovremmo ascoltare l’ennesima voce che sostiene che la gestione della pandemia non è stata fatta seguendo considerazioni razionali e scientifiche che nulla c’entrano con gli equilibri politici, l’abbiamo già visto sostenere e abbiamo potuto chiarire senza fatica i fatti.

Ma allora questa storia della “pandemia dei non vaccinati”? In realtà un giornalista serio avrebbe dovuto cercare e riportare le dichiarazioni dell’ex ministro federale della Salute tedesco, Jens Sphan, che ha spiegato, dopo la pubblicazione di questo report:

“Quello che intendevo con questa espressione (la pandemia dei non vaccinati ndmaicolengel) è che nelle unità di terapia intensiva all’epoca vedevamo principalmente persone senza vaccinazioni che avevano casi gravi ed estremamente gravi”, ha detto Spahn a ZDF. Quella era una situazione “che minacciava di sopraffare il sistema sanitario”.

La frase che secondo Velázquez, e di rimando Romiti, che sarebbe dimostrazione di qualcosa che non va sarebbe questa:

In den Medien wird von einer Pandemie der Ungeimpften gesprochen. Aus fachlicher Sicht nicht korrekt, Gesamtbevölkerung trägt bei. Soll das in Kommunikation aufgegriffen werden?

I media parlano di una pandemia tra i non vaccinati. Da un punto di vista tecnico questo non è corretto, l’intera popolazione contribuisce. È così che dovrebbe essere affrontato nella comunicazione?

La frase è presente nei documenti pubblicati da Velázquez, e sarebbe pronunciata da un rappresentante del dipartimento dell’RKI nel rapporto sui risultati del 5 novembre 2021.

Ma basta leggerla per capire che non è dimostrazione di nulla se non di un sensazionalismo pieno di imprecisioni da parte di media e politici, sensazionalismo che abbiamo denunciato all’epoca anche in Italia. Dare a intendere, prendendo in esame quella singola frase, che non vi fosse un aggravarsi superiore nei non vaccinati rispetto ai vaccinati è disinformare. Lo fa Velázquez, lo riprende Romiti.

Non crediamo sia necessario aggiungere altro, se non che non capiamo come questa gente abbia ancora così tanta credibilità in certi ambienti. Sono pochi quelli che osano attaccare Porro per quello che fa col suo blog, noi dal nostro piccolo non smetteremo mai di denunciarne sensazionalismi e imprecisioni.

Nicola Lilin, lo scrittore Dazieri: «Il mondo della cultura lo osannava: siamo in Italia, vince chi la spara più grossa» (open.online)

di Alba Romano

Il ricordo di Sandrone: mi aveva detto di essere 
amico di Licio Gelli

Minacce, insulti e avvertimenti. Nei giorni scorsi lo scrittore filo-russo Nicolai Verjbitkii, meglio noto come Nicolai Lilin, si è scagliato contro i giornalisti della Rai Stefania Battistini e Simone Traini. Accusati dal Cremlino di aver invaso il territorio russo durante l’avanzata delle truppe di Kiev a Kursk. L’autore proputiniano, candidato di Michele Santoro alle elezioni europee 2024, li ha definiti su YouTube «deficienti» e pure «propagandistici».

Per poi passare alle minacce: «Se un giorno qualcuno di questi aiutanti dei terroristi (…) si troverà con un po’ di polonio nel tè, purtroppo cari amici sappiate che vi siete scavati la fossa da soli». In questi anni, Lilin – scrittore moldavo naturalizzato italiano – ha alimentato le diverse, e tante, fake news che circolavano sull’invasione russa in Ucraina.

Le bufale su «Educazione siberiana»

Ma non solo. Sono in tanti a pensare che il suo romanzo di formazione (criminale) Educazione Siberiana (Einaudi 2009), ambientato in Transnistria, tradotto in diversi paesi e diventato persino un film grazie a Gabriele Salvatores, racconti una storia – quella dell’autore – priva di credibilità. Ma facciamo un passo indietro. Il romanzo racconta la vita di un ragazzo siberiano educato da un’intera comunità criminale a diventare un “criminale onesto”.

Lilin ha vissuto per molti anni a Tighina, municipalità della Moldavia, nella regione storica della Bessarabia, de facto parte della Repubblica di Transnistria. Racconta la sua infanzia, adolescenza e maturità nella presunta comunità criminale di origine siberiana (chiamati “Urka”) stanziata in Transnistria dopo la deportazione ad opera del regime di Stalin.

La comunità di cui fa parte è regolata da leggi interne non scritte ma rigidamente osservate, pena l’espulsione dalla comunità stessa. Tuttavia, proprio in occasione dell’uscita di Educazione siberiana è stata messa in dubbio la veridicità dello stesso Lilin (visto che l’autore ne ha sempre affermato la natura autobiografica) e delle storie narrate.

Le smentite

Nel 2009 la giornalista Anna Zafesova smentiva su La Stampa le invenzioni contenute nel libro. In particolare, è stata smentita l’esistenza stessa degli Urka e delle vicende che la riguardano. Come la deportazione di questa popolazione in Ucraina, dal momento che le deportazioni staliniane seguivano il flusso opposto, ossia le persone venivano trasferite forzatamente in Siberia e non dalla Siberia.

E anche all’estero qualcuno aveva cominciato a farsi delle domande, come ricorda il Fatto Quotidiano in un articolo del 2011: Michael Bobick, antropologo americano che in quel periodo stava compiendo ricerche sulla Transnistria, aveva pubblicato sul sito Transitions un articolo dove attaccava il romanzo.

«Gli urca non sono un’etnia ma una categoria criminale generica (…). E Bender, la città dove Lilin è nato nell’80 e ha ambientato il libro, è molto più tranquilla della capitale della Transnistria,

Tiraspol, contrariamente a quanto scritto», si legge. Ha inoltre suscitato parecchie perplessità l’arruolamento nell’esercito russo e la partecipazione alla guerra di Cecenia: Lilin è cittadino russo, ma è nato in Transnistria, in territorio moldavo, perciò è poco credibile un arruolamento forzato tra i russi.

Il racconto dello scrittore Danzieri

Ma, ora, l’autore moldavo è tornato alla ribalta dopo il duro attacco ai giornalisti della Rai. Di recente, inoltre, alcune testate hanno riportato che Lilin si sarebbe trasferito all’estero a seguito di presunti procedimenti penali a suo carico e perquisizioni in Italia sulla base di dichiarazioni fatte sul suo canale YouTube.

E sono tante le testimonianze, anche di autori italiani, che dubitano della sua credibilità. Come lo scrittore e sceneggiatore, Sandro Dazieri, detto Sandrone, che sui social scrive: «Nicolai Lilin è scappato dall’Italia perché, dice lui, accusato di essere una spia di Putin. Considerando le balle che ha raccontato da quando è arrivato in Italia, probabilmente non è vero niente, a parte la fuga. Se sei una spia, non ti ritirano il passaporto, ti portano via».

Dazieri racconta, inoltre, di aver conosciuto Lilin in occasione dell’uscita di Educazione Siberiana: «Mi raccontò di essere amico di Licio Gelli e di andare in giro armato perché aveva tanti nemici. Il libro era molto interessante, ma conteneva una serie di balle evidenti sia sulla storia della Russia, sia sulla sua vita. Metà della mia famiglia è russa e quindi ho fonti dirette, ma ero stupefatto che tutti gli credessero», scrive.

«Chi lo amava di più era la sinistra»

Lo scrittore punta, inoltre, il dito contro il mondo della cultura, che cominciò ad «acclamarlo come un eroe, un pensatore, un filosofo» nonostante le bufale. Come il pezzo scritto per l’Espresso, precisa Dazieri, dove l’autore moldavo spiegava di essere «un ex cecchino e di aver ricevuto offerte da gruppi mercenari di alto livello per andare a combattere da qualche parte. Era talmente una vaccata che mi aspettavo gli tirassero le uova».

All’epoca, per Dazieri, ex attivista ambientalista e per il diritto alla casa ed ex collaboratore del Manifesto, «era come vivere in un mondo parallelo dove, soprattutto, chi lo amava di più era la sinistra. Partecipava a dibattiti sulla democrazia, sulla guerra, sul mondo intero, faceva mostre di tatuaggi “siberiani” con le sponsorizzazioni istituzionali.

Ogni volta che parlavo di lui venivo accusato di spargere merda su “uno più famoso di te” oppure di essermi fatto abbindolare da amici e parenti russi, che evidentemente ce l’avevano con uno che diceva la verità sul regime putiniano».

I libri e la propaganda

E quando i libri di Lilin cominciarono a vendere meno e la sua faccia accostata alla propaganda putiniana, lo scrittore di Cremona sperava che «qualcuno che gli aveva dato lustro e visibilità avrebbe fatto autocritica. Invece no. Persone di sinistra che conoscevo molto bene decisero di candidarsi con lui perché “pacifista” e ancora una volta mi sembrò assurdo», scrive Dazieri, riferendosi, con ogni probabilità, alla scelta di Santoro di candidarlo nella sua lista alle elezioni europee del 2024.

«Ma come era possibile che si alleassero con uno che pubblicava fotomontaggi con il presidente ucraino che tirava cocaina – continua -, in cui scriveva che la moglie di Navalny si divertiva con gli amanti mentre lui moriva? Che insultava gli omosessuali nascosti nell’esercito ucraino? Non lo so, non riesco a capirlo nemmeno ora. Va bè, la storia non è finita – continua -, visto che sono di oggi le sue velate minacce al polonio per i giornalisti che parlano male dello Zar. Spero solo che, adesso che è latitante, non se ne faccia un martire del libero pensiero. E spero anche chi lo incensava adesso non lo insulti. Eh no, certe cose vanno fatte quando è difficile, non quando conviene. Ma siamo in Italia. Chi la spara più grossa vince sempre», conclude.

(ANSA/ALBERTO ESTEVEZ | Nicolai Lilin 2010)

Misoginia fascista / Chiara Valerio, l’intellettuale di riferimento del Pd e la sua neolingua incomprensibile (liberoquotidiano.it)

Colpa del capitalismo: Chiara Valerio non trova la stanza pronta in hotel e... delira

di Giovanni Sallusti

Apprendiamo che Chiara Valerio, scrittrice, curatrice editoriale e intellettuale di riferimento di Elly Schlein (o forse è lo schleinismo che è la variante politica del “valeriolismo” letterario), ha lavorato con Nanni Moretti.

L’occasione era il soggetto del dimenticabile Mia madre (2015), ma la mente ci è corsa al frammento obiettivamente indimenticabile di Palombella Rossa in cui il Nanni/Michele Apicella urla in faccia alla giornalista vacuamente radical: «Ma come parla?! Come parla?! Le parole sono importanti!». Ce lo siamo improvvisamente raffigurato, che sbotta con analoga perentorietà, di fronte all’intervista-fiume rilasciata dalla Valerio al Corriere della Sera. Il tema della conversazione noi sempliciotti non siamo riusciti a individuarlo, ma in fondo è irrilevante. Quel che conta, appunto, sono le parole, la lingua, o meglio la neo-lingua, di una delle principali animatrici dell’odierna fiera della vanità pseudoculturale.

E anche dialogando col Corrierone, Chiara non ha deluso i cultori del dadaismo verbale (noi sempliciotti la inquadriamo ancora come la “supercazzola” di tognazziana memoria). Si parte disquisendo di premi letterari (la nostra è stata finalista allo Strega col romanzo C’è chi dice e chi tace, due categorie rispetto a cui l’autrice sovente si colloca nel mezzo), ma lei chiarisce subito: «Non sono una che va spesso ai premi, perché è sfiancante. Da anni faccio la spola tra Roma e Venezia, se posso riposo». Sono i drammi del sottoproletariato urbano, così lontani dall’infanzia nella provincia laziale: «Più che librerie, intorno a me avevo le edicole, luogo magico perché accanto ai classici c’erano riviste come Skorpio, dove il soft porno si mescolava allo steampunk». Ma come parla?! Non sappiamo, in ogni caso non va molto meglio col pensiero: «Quindi io non credo agli steccati tra letteratura alta e bassa».

Ci mancherebbe, l’adolescenza di chi scrive è stata tutt’altro che snobistica verso i generi indicati dall’augusta scrittrice (specie il primo), eppure, forse, il marchese De Sade rimane mezzo gradino sopra. Si salta poi alla rievocazione dell’amicizia con Michela Murgia, la quale «ha rivelato un mondo quando ha detto che la vera famiglia è quella queer». Segue rilettura in tre righe dell’evoluzione storico-antropologica italiana. «Prima degli anni ‘60 e ‘70 le famiglie erano un insieme di madri, padri, zie acquisite, parenti che non lo erano per legami di sangue ma per cura e frequentazioni» (insomma, l’Italia del Dopoguerra come una Comune hippy). Dopodiché, e qui dai figli dei fiori saltiamo direttamente ai nipoti psichedelici, «è arrivata una forma di edilizia abitativa che ha deciso che la famiglia mononucleare doveva stare nei bilocali». Finalmente è chiaro: la famiglia eterosessuale, patriarcale e reazionaria è il risultato di un complotto dei costruttori edili. Ma è a ruota di una delle poche botte di lucidità («Non uso lo schwa»), che Valerio scalza definitivamente il Conte Mascetti/ Tognazzi nell’ars supercazzolara. La domanda è «un linguaggio che non ferisca nessuno è un’utopia?», la risposta di seguito. «Sì, lo spazio di fraintendimento è necessario, quello che non è fraintendibile non porta desiderio, quindi non porta scambio».

Fin qui, pare la sintesi di una serata etilica tra Michelangelo Antonioni e lo psicanalista sotto casa. Ma è sul prosieguo del ragionamento (chiediamo scusa a Socrate) che ci perdiamo definitivamente: «Se noi possiamo essere trascrivibili in maniera linguistica, vuol dire che la nostra identità è trasferibile in una macchina. Siamo la prima generazione con inclinazione passiva di fronte al linguaggio e alla verifica dei fenomeni». A prenderla in parola (impresa che richiederebbe la pazienza di Giobbe, o ancora meglio lo stordimento alcolico di Bukowski), sembriamo piuttosto la prima generazione con inclinazione incendiaria «di fronte al linguaggio».

Quanto alla «verifica dei fenomeni», rischiamo di arrivare in fondo alla lettura che dubitiamo della nostra esistenza di esseri senzienti, figuriamoci del mondo esterno. Per uscirne, ci aggrappiamo alla divagazione politica. Dice Chiara che le fiere letterarie «ormai hanno preso il posto delle grandi adunate politiche». Ok, ecco una tesi chiara, con la minuscola. Un po’ meno la spiegazione: «Berlusconi ha trasformato lo spettatore in elettore». Ecco perché «ci sembra spesso che i piani, quello politico e quello dello spettacolo, coincidano». Vorremmo obiettare che Kennedy vinse le elezioni contro Nixon per pura performance televisiva nel 1960, un po’ prima del berlusconismo. Ma, esausti, chiudiamo il Corriere e andiamo alla disperata ricerca di quei pornosoft abbandonati da qualche decennio in un cassetto, di gran lunga lo spunto migliore offertoci da Chiara.