Nora Krug: reportage dall’Ucraina (doppiozero.com)

di Silvia Guzzetta

Cos’è la prima cosa che fai quando capisci che 
il tuo paese è in guerra?

K. fa un bagno in vasca. Prima che l’acqua venga staccata, alle porte di un bagno di sangue in un inverno senza riscaldamento. Qual è il prezzo delle cose “scontate”?

«l’impatto che ha il clima sugli esseri umani», oltre che sulla natura sempre più inquinata dagli invisibili metalli pesanti, idrocarburi, tonnellate di CO2, sollevati dalle guerre.

Non è meteoropatia. L’umorismo nero dei soldati sulla neve bianca, dei “civili” barricati in casa – per quanto si possano opporre alla categoria umana dei soldati – manda a risparmio emotivo, come si dice in gergo psicoanalitico, le persone che stemperano gli umori nei climi più rigidi.

K., protagonista intervistata in Diari di guerra di Nora Krug (Einaudi, 2024), è una giornalista che fa reportage su ciò che accade in Ucraina, durante la guerra, ed è certa di questo: «Ho un debole per l’umorismo nero. Perché sono giornalista, credo, come quasi tutti i miei amici. Il cinismo ci ha aiutato ad affrontare le cose tremende che vediamo, sentiamo e leggiamo. Ci protegge dai danni cerebrali emotivi. L’umorismo è un’ottima cura».

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K. ha imparato che «la guerra non è la cosa peggiore che possa capitare. La cosa peggiore è sentirsi morti dentro». Una constatazione forte, detta da lei che la vive. Quando fuori la terra è bruciata e i corpi sono spenti, pallidi, K. ha deciso di uscire vestita colorata, nonostante l’aspetto peccaminoso, simbolico, di quei pastelli messi in un funerale a cielo aperto.

L’inverno è la prima stagione dei Diari di guerra di Krug, che, come una serie tv, divide in stagioni, le fasi di una storia vera disegnata, a colori. I fumetti bruciano gli occhi del fumo di un coprifuoco finito male, perché un cittadino che tornava a casa lo ha sforato di 10 minuti ed è stato ucciso da un cecchino.

Il coprifuoco del Covid fa da sfondo a un fuoco più vivo, di una malattia umana: la violenza. Dall’origine dell’usanza medioevale che di sera obbligava a spegnere il fuoco con la cenere per non far disperdere il fumo e, quindi, evitare incendi, in campo di guerra, ha un’altra accezione, si corre per coprirsi dal fuoco che sfugge di mano a orari o mire. Si diventa cenere.

La salvezza non è regolamentata da raggi e dai perimetri di distanza tra gli isolati, senza sole, sotto i bunker di una metropolitana.

I missili intenzionali cadono imprevedibilmente su uno zoo o vicino a un supermercato, (e non risparmiano neanche ospedali pediatrici).

Scatta l’allarme, il suono delle Sirene, mortifero, non lascia nulla di incantevole alla vecchia fantasia di un mito, sulle insenature portuali, quando i confini del mondo non erano ben definiti in modo così terrificante.

Una parola che viene dal latino terrere, ovvero spaventare, ma non ha a che fare con la terra; l’etimologia falsa amica di una terra che deve essere segnata con i confini contesi quando sono poco definiti; pezzi di terra che si tirano da una parte e dall’altra, con il filo-russo dei separatisti del Donbas, che rivendicano di sentirsi più russi che ucraini, poco prima di sentirsi più morti che vivi.

Persino il cielo si può spaccare in due, nel sogno apocalittico di D. dove la Riga di un confine rimane solo nel nome della capitale della Lettonia dove D. cerca fortuna su un vettore disorientato e insonne.

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È scoppiato uno “stato cuscinetto”, l’Ucraina livida di pugni e occhiaie, non dorme da anni, ormai, in posizione scomoda su un “cuscinetto” che ha disperso quasi tutte le sue piume.

Gli uccellini scappati e storditi con gli stormi di rifugiati emigrano dall’ultrasuono delle sirene di Kyiv, per annidarsi nei ghetti di altri paesi. Anche K. è un piccione viaggiatore. La investe la nostalgia di non vederli più fuori dalla sua finestra. La guerra allontana dalle finestre. Suo marito dorme in bagno perché lì, non essendoci, non si sentono quelle maledette.

Della tentazione rimane solo la corrente mossa dal nostos, il viaggio del ritorno dell’eroe a casa, che sale, al buio, al ventesimo piano senza ascensore durante i blackout di 12 ore al giorno. D., invece, per fare un salto, solo di qualche giorno, a festeggiare il Natale o il compleanno del figlio nella sua città, rischia l’arruolamento nell’esercito.

I cadaveri freddi sono stipati nei furgoni frigo, come carne fresca appena macellata, corpi che i soldati russi non riporteranno in patria per degnarli di una sepoltura, osserva K.

In questa guerra si percepisce un’altra “sensibilità”, un’aria diversa, rispetto al Donbas del 2014, quando ancora si seppellivano i soldati. Cosa è cambiato? Non solo i metalli pesanti.

Le voci di K. e D. si alternano nel fronte-retro delle pagine di un diario intimo nel retro-fronte di una guerra non combattuta con l’elmetto o sui carri armati. Sono i “civili” contrari al regime di Putin, alla trappola propagandistica che si giustifica con la “denazificazione” dell’Ucraina.

K. è una giornalista di origini russe, trasferita in Ucraina da piccola, lavorava per un giornale contrario a Putin, che, infatti, poi è stato chiuso. Qual è il suo paese? Ora si sposta con informazioni “radioattive” sperando che i suoi messaggi non vengano tracciati e acchiappati nella rete della tortura, della galera o della morte.

D. è un artista russo che scappa dalla coscrizione, l’arruolamento obbligatorio nell’esercito che lo spinge a scappare tra Finlandia, Lettonia e Francia alla ricerca di un permesso di soggiorno per lavorare, mentre sogna il suo con gli stessi mobili dell’Ikea con cui aveva arredato la sua casa a San Pietroburgo. Anche Ikea ha chiuso in Russia. Una volta arrivato a Istanbul, infatti, è il primo posto dove va per ritrovare la sua casa, il senso nelle cose che ricordano la famiglia lontana, temporaneamente e concettualmente trasferita in quei mobili Ikea.

Entrambi hanno lasciato le loro famiglie e i loro figli piccoli.

I figli di K. sono a Copenaghen a cercare il significato di quello che succede in una nuova lingua, il danese, l’unico modo per fare amicizia con altri bambini, mentre quelli di D. rimasti a San Pietroburgo, senza più la Nintendo, non possono spiegarsi come un videogioco possa essere così minaccioso; l’inno dell’Urss viene cantato nelle scuole, in una versione ritoccata da Putin, sulla cartina dell’impero ricalcato a matita sulla finestra in controluce, con vista colonna sonora di spari.

È dura scegliere dove vivere, per il bene del paese, per il bene della famiglia, per il bene dei figli salvaguardati dagli atroci contenuti sensibili delle foto di guerra nei social, ma forse non basta a sopportare l’assenza di un genitore su Zoom, assenza che agli occhi di un figlio è sempre ingiustificata, anche per motivi di forza maggiore.

E il proprio bene? Non è chiaro come si rigeneri. K. racconta che la sofferenza delle persone a cui vuoi bene è sempre più insostenibile della tua. Te la porti sul groppone delle generazioni date alla luce esplosiva.

Gli ucraini torturati intervistati da K., mentre parlano della loro esperienza, così lucidamente freddi, distanti, quasi apatici, diventano dei rubinetti che perdono, al solo nome dei familiari, alla rivelazione della bolletta di un idraulico che ti ha ingannato.

Diari di guerra di Krug sono il tentativo di scoprire le colpe collettive e le colpe personali nelle scelte quotidiane.

Due lettere anonime che nascondono i testimoni di una identità che si interroga su quale sia la loro, personale, culturale, così contaminata, anonima, ridotta all’osso delle stanghette di K. e D., per salvaguardarsi. Capita di essere dalle parti opposte del fronte e pensarla allo stesso modo.

La guerra fa da sfondo alla perversione che abbiamo per il futuro che crea uno strano attaccamento al presente, “alla giornata”. Eppure si combatte sempre per il futuro, per lasciare ai posteri un mondo migliore fatto di postumi. È quello che fanno i reportage di guerra attraverso i diari personali: spalancano le finestre di casa mostrando gli angoli sporchi delle ante, che nessuno pulisce perché tanto non si vedono. D. spera che «l’esercito russo perda la guerra ma non voglio che i soldati semplici muoiano». Come risolvere il dilemma?

E ancora, qual è il prezzo del pregiudizio? cosa pensano le persone quando scoprono che sei russo? Quando hai difficoltà a integrarti nell’Unione Europea che nega il visto ai russi e ti vedono, senza documenti, come un colpevole per osmosi con il tuo presidente criminale che vorresti vedere morto? Ti devi sentire responsabile di quello che avviene nel tuo paese? Devi arruolarti o scappare altrove, e ovviamente integrarti, non si sa bene come, se dipenda più da te o dagli altri. Ma se due teppisti parigini ti menano e decidi di urlare in russo, perché forse così li spaventi di più, evidentemente fai paura, ma ti conviene.

Ecco la scissione anche con se stessi, a volte subdola a volte lampante, che prende le misure di un apartheid in un albergo in Turchia dove russi e ucraini vengono fatti sedere in parti diverse del ristorante, per paura che si possano scontrare perché i loro paesi sono nemici, ma confinano con un tavolo, troppo vicino, possono orecchiare quello che dicono e sentire la tensione. Quasi quasi si chiude lo stomaco davanti a quel ben di Allah.

In tempi di guerra non si perdono gli amici solo nella morte; si perdono in vita, si perde la loro fiducia, i valori condivisi con una persona a cui hai sempre voluto bene e ora sembra così distante, scompare dalla tua vita, portata via dalla paranoia che possa essere una spia.

Ingoiare il rospo, ascoltare i grilli parlanti di coscienze sporche, sentire un magone strozzato. I vuoti di memoria non sono che una bolla, una cella di isolamento.

Il suocero di K. sente un missile, ma non ricorda che c’è una guerra. Meglio così. Guarda le foto dei nipoti, si riempie gli occhi delle sue creature per salvare il suo presente, mentre altri “giorni della memoria” spuntano nei prossimi calendari.

La demenza senile, invece, è molto saggia.

Kamala Harris e la rivoluzione per riprendersi l’American Dream: non basta lo slogan “forward”, serve una direzione (ilriformista.it)

di Paolo Guzzanti

Una promessa come tante?

Il volto della candidata dem, sorridente ed energico, surclassa quello anziano e corrucciato di Donald. L’America è sull’orlo del baratro, è lei la prescelta in grado di riportarla agli antichi splendori? Ne ha voglia, questo è certo.

“C’è un settantottenne milionario che non ha mai cessato di lamentarsi dei suoi personali problemi, usa espressioni infantili come la ‘teoria della cospirazione’ e ha una maniacale ossessione per le folle sui due lati della strada. E seguita, seguita a piangere e lamentarsi e che starà sempre peggio perché – assicura Obama – la Harris lo sconfiggerà”.

In questo modo retorico l’ex presidente Obama indica il male americano: la grande divisione che minaccia l’esistenza stessa della Nazione. Ed ecco lei, Kamala, in completo beige e camicia bianca, che per prima cosa risponde allo slogan di Trump che la accusa di arretramento, scandendo il senso della sua sfida: “Non stiamo andando indietro: stiamo appena arrivando”.

Due le correnti di opinione: quella secondo cui Kamala cambierà davvero la politica democratica e quella gattopardesca secondo cui lascerà che il vecchio apparato resti così com’è. La grande questione americana è: riforme che cambino il modo di governare o accettare che la guerra civile avanzi? Non si tratta di dividersi fra democratici e repubblicani, ricchi e poveri, bianchi e neri, ma di decidere se questa America debba cambiare solo passo, o cambiare tutto.

Tutto che? Anche Trump grida di voler cambiare tutto, ma Kamala si è presentata a Chicago con un’idea riformista forte, tale da poter riassorbire i conati rivoluzionari, presentandosi lei stessa come rivoluzione. Non è una novità, perché Obama entrò alla Casa Bianca promettendo un cambiamento di cui si è visto poco e nulla; prima di lui Bill Clinton parlò di una nazione che sta cambiando tanto da non essere più sé stessa.

Trump ha promesso di rendere finalmente l’America di nuovo grande, ma non si sa bene come. Quindi il discorso di Kamala rientra nella tradizione di promettere novità grandiose prima di poter riempire le parole con i contenuti. I giornali intervistano tutti gli assistenti, consiglieri, testimoni ed ex collaboratori nei due campi presidenziali per azzardare pronostici in cui prevale il fattore “prima donna alla Casa Bianca”, così carica di energie tenute sotto naftalina: ne ha la voglia e porterà sorprese.

La parola chiave del suo discorso è “forward”, avanti, che deriva dal tedesco “Forward”, che fu il nome della testata dei socialisti tedeschi copiata dagli italiani con il giornale “Avanti!”. Una parola, ma anche una bandiera progressista. Ma “forward” verso cosa e con quali spese e piani politici?

Il fattore rappresentato dall’incombere di Trump è sufficiente per mettere alle corde i discorsi generalisti. Kamala deve dire qualcosa di molto impegnativo, o perderà la partita con il miliardario che si lamenta sempre. Trump sta perdendo punti a favore della Harris, il che può essere occasionale o irrilevante, o anche vero e irreversibile.

Trump risponde a colpi di retorica: “Non terrorizzatevi nel pensare ciò che Kamala Harris potrebbe essere in futuro, perché l’incubo già terrorizza le vostre notti.” Il più sottile dei consiglieri di Trump ha un cognome italiano, Chris LaCivita: crede che Kamala non riesca a parlare al cuore dell’America pronta alla rivoluzione perché non ha forza delle idee, né il tempo sedurre gli americani che non sono repubblicani, democratici e neanche indipendenti.

Ma che vogliono una rivoluzione. L’America è in preda a una crisi, ma ciò che realmente ci si chiede a Chicago è se la sola politica politicante possa convincerli ad aspettare un attimo.

Cedric Richmond, un tecnico sostenitore di Kamala giura che sia proprio lei “the one”, la messia femmina, leader capace di salvare capra e cavoli, istituzioni che scricchiolano fin dalla Corte Suprema, e poi la società variamente civile che dà segni di sfaldamento lasciando presentire una nuova “American civil war”. Perché la guerra civile ce l’hanno nel sangue, gli americani, e con tutte quelle armi e quegli odi frontali, sui due marciapiedi della stessa strada, basta un’estate calda a scatenare l’inferno.

Probabilmente in Italia non abbiamo una vera idea della lava e delle vendette incrociate che attraversano la società americana. Salvo – ma solo in parte – che nelle grandi metropoli. Ma il resto? Le orde barbariche bianche, povere e senza scuole? Trump e Vance si fanno forti della rivolta degli ignoranti bianchi, surclassati dalle smaglianti lotte civili grazie alle quali ogni bambina o bambino, appena uscito dalle elementari, cerca la sua nicchia di perseguitato che pretende riparazione per conto dei suoi avi, e vaffanculo a Cristoforo Colombo e a tutti gli europei imperialisti, ladri di terra e di lingue.

Siamo appena usciti da una stagione di abbattimenti delle statue di diversi passati: la Guerra Civile, l’integrazione, giù dal piedistallo anche grandi leader neri come Malcolm X. La rivoluzione americana, come quella francese, divora tutti e tutto. E teme con angoscia il suo 18 Brumaio, il giorno del colpo di Stato napoleonico.

Kamala è stata procuratrice distrettuale a San Francisco, ha fama di dura, manettara ed è stata molto odiata proprio da tutto il mondo brownish, marronastro e non bianco: per trasformarsi in Wonder Woman “to make the world a better place”, fare del mondo un luogo migliore – che poi era anche lo slogan di Cesare Ottaviano Augusto.

A occhio e croce, sono pochi in Italia e in Europa coloro che hanno una pallida idea della realtà americana e delle sue viscere profonde. A partire dal mondo dei veterani mutilati di tutte le guerre, fino agli immigrati che non sanno una parola d’inglese, accampati nei parchi di New York e sui marciapiedi.

Nella partita che si sta giocando a Chicago, al di là dei ben confezionati discorsi e la geniale regia, è arrivata col primo discorso di Kamala Harris la sensazione per tutti che la candidata, fra mille sorrisi, sappia benissimo che la società è sul bordo del baratro – condizione da cui attinge consenso il suo nemico Trump.

Senza aver avuto ancora la spavalderia di sporgersi per illuminare il demonio e pronunciare le formule reali per ricacciarlo e tentare, almeno tentare, di far ritornare alla luce il paradiso perduto dell’American Dream.

La fake news russa della BlackRock che vieta la sepoltura dei soldati ucraini (open.online)

di Fabio Verrecchia

FACT-CHECKING

La bufala avrebbe origine da un canale Telegram “satirico” russo

Sta circolando su Facebook una notizia, già diffusa in passato, riguardante la multinazionale americana BlackRock. Secondo quanto riportato in alcuni post, i rappresentanti della società, durante una recente visita a Kiev, avrebbero chiesto alle autorità di smettere di seppellire i soldati delle forze armate ucraine nei territori che BlackRock avrebbe acquistato, sostenendo che i cimiteri occuperebbero troppo spazio. Questa notizia, tuttavia, è priva di qualsiasi fondamento ed è già stata smentita in passato.

ANALISI

La narrazione viene diffusa tramite il social Threads il 7 agosto 2024:

Blackrock ha chiesto che i soldati ucraini non vengano seppelliti nei terreni da loro acquistati

Secondo l’esperto politico Plamen Paskov (Bulgaria), i rappresentanti della società transnazionale americana BlackRock, durante la loro recente visita a Kiev, hanno chiesto di non seppellire più i soldati ucraini nei terreni. Per gli americani, i cimiteri occupano troppo spazio. Hanno già acquistato il 47% del terreno e non vogliono cederlo ai cimiteri. Secondo il Ministero della Difesa russo, le Forze Armate ucraine hanno perso più di 60.000 uomini nel mese di luglio. Gli americani hanno chiesto in anticipo di non sprecare terra per loro e di bruciare o smaltire in altro modo i corpi dei soldati ucraini.

Un post pubblicato precedentemente su Facebook il 3 agosto 2024 riporta la seguente notizia:

La BlackRock Corporation chiede che i soldati delle forze armate ucraine non vengano sepolti nella terra ucraina acquistata

Secondo l’agenzia ANNA News, i rappresentanti della multinazionale americana BlackRock, durante una recente visita a Kiev, hanno chiesto di smettere di seppellire sotto terra i soldati delle forze armate ucraine.

Secondo gli americani i cimiteri occupano troppo spazio. Hanno già acquistato il 47% del terreno e non vogliono cederlo ai cimiteri.

Contenuti simili erano già stati pubblicati su Facebook il 23 24 giugno da alcuni account in lingua russa (che diffondono regolarmente disinformazione anti-occidentale e contro l’ucraina), i quali sostenevano che 17 milioni di ettari di terreni agricoli ucraini fossero stati trasferiti a società internazionali tramite il “Fondo per lo sviluppo dell’Ucraina”, creato nel 2023. Larry Fink, CEO di BlackRock e ideatore del fondo, avrebbe vietato la sepoltura dei soldati ucraini su questi terreni, definendolo uno “spreco insostenibile di preziosa terra arabile”.

La diffusione della narrazione

L’11 maggio, un altro post in lingua russa aveva diffuso la stessa notizia, citando come fonte il regista e propagandista russo Nikita Mikhalkov. L’11 maggio, un altro post in lingua russa ha diffuso la stessa notizia, citando come fonte il regista e propagandista russo Nikita Mikhalkov. Uno di questi post includeva anche un estratto video di un programma dello stesso Mikhalkov, in cui afferma che Larry Fink, co-fondatore e CEO della società americana BlackRock, avrebbe proibito la sepoltura dei soldati ucraini caduti nella guerra russo-ucraina sul suolo ucraino.

Mikhalkov basa queste dichiarazioni su una pubblicazione del governo bielorusso. In un articolo del 5 ottobre 2023 di Minskaya Pravda, un’agenzia di stampa statale bielorussa, si riporta ampiamente un presunto discorso di Larry Fink, in cui egli avrebbe espresso preoccupazione per “l’uso irrazionale del terreno arabile ucraino per i cimiteri”, ricordando agli ucraini che “la terra non appartiene solo a loro”. Tuttavia, l’articolo non specifica la fonte di queste informazioni.

Infine, la notizia è stata ripresa anche dall’agenzia di stampa ANNA News, come riportato nel post Facebook oggetto di questa analisi. ANNA News è un sito di propaganda russa noto per la diffusione di notizie false riguardanti eventi in Ucraina e in Siria, che ha spesso presentato i separatisti filorussi come “liberatori” che lottano per la propria indipendenza, ignorando il fatto che tali gruppi sono stati armati e finanziati dalla Russia.

La notizia riportata dal governo bielorusso è inventata

L’articolo pubblicato dal giornale di stato bielorusso Minskaya Pravda e ripreso anche da Anna News riporta in realtà una notizia inventata, originariamente diffusa su un canale satirico in lingua russa, “Империя очень зла” (L’impero è molto malvagio), il 20 settembre 2023. Il box informativo del canale Telegram avverte esplicitamente che le informazioni pubblicate potrebbero essere false e di natura satirica.

La realtà dei fatti

Nel gennaio 2023, durante il World Economic Forum, Larry Fink, co-fondatore e CEO di BlackRock, ha annunciato la creazione del “Fondo per la Ricostruzione dell’Ucraina” che ha l’obiettivo di attrarre investitori per finanziare lo sviluppo di vari settori in Ucraina, inclusi infrastrutture, produzione ed energia.

L’affermazione secondo cui l’Ucraina sarebbe stata venduta a BlackRock è una narrazione di propaganda russa, sostenuta anche da alti funzionari russi. Inoltre, è falso affermare che le multinazionali abbiano acquistato il 47% del territorio ucraino come riportato nei post presenti su Facebook. La legislazione ucraina proibisce infatti a stranieri, apolidi e persone giuridiche di acquistare terreni agricoli o partecipazioni nel capitale delle società proprietarie di tali terreni.

Conclusioni

La notizia secondo cui BlackRock avrebbe vietato la sepoltura dei soldati ucraini sul suolo ucraino è falsa e proviene da un canale satirico su Telegram. Inoltre, è errato affermare che la multinazionale americana abbia acquistato terreni in Ucraina, poiché la legislazione ucraina vieta esplicitamente alle società straniere di acquistarli.

Queste informazioni sono quindi completamente inventate e diffuse dalla propaganda russa e bielorussa.

Sparò all’uomo che abusava di lei: le danno 11 anni (ildubbio.news)

di Francesca Spasiano

Dopo una battaglia legale di sei anni, 
Chrystul Kizer decide di patteggiare per 
evitare l’ergastolo “certo”

Qual è il confine tra legittima difesa e giustizia privata? E come si giudica un crimine, quando alla sbarra ci finisce una ragazzina nera, vittima di abusi, che ha smesso di credere nella legge?

Lunedì scorso negli Stati Uniti una giovane afroamericana di Milwaukee, Chrystul Kizer, è stata condannata a 11 anni di carcere per aver ucciso Randall Volar, il 34enne bianco che l’ha adescata e sfruttata sessualmente quando aveva 16 anni. Nel 2018 gli ha sparato due colpi in testa, e poi ha dato fuoco all’abitazione in cui si trovava il corpo scappando a bordo dell’auto del suo aguzzino.

Dopo l’arresto ha confessato l’omicidio. Gli investigatori hanno trovato i filmati degli abusi, registrati dall’uomo. Insieme a una foto di Chrystul, custodita in casa con quelle di molte altre presunte vittime, giovani nere, alcune delle quali identificate come minorenni.

Per la procura non c’è dubbio: gli abusi sono comprovati, ma Chrystul non ha agito per difendersi. Al contrario, per l’accusa, avrebbe premeditato l’omicidio per rubare l’auto della sua vittima. La difesa ha sempre sostenuto che la giovane non potesse essere ritenuta penalmente responsabile dei crimini a lei imputati in quanto vittima di tratta.

Ma a chiudere il caso è il verdetto del tribunale di Kenosha, nel Wisconsin, giunta dopo sei anni di battaglia legale: lo scorso maggio Chrystul ha deciso di patteggiare dichiarandosi colpevole di omicidio colposo di secondo grado, pur di evitare il processo e una pena quasi certa all’ergastolo.

Ormai 24enne, è pronta a lasciarsi tutto alle spalle. «Posso provare ad andare avanti», aveva detto quest’anno al Washington Post parlando dal carcere. Dove ha già scontato un anno e mezzo della sua pena. Che in totale arriva a 16 anni: 11 in prigione, più cinque in regime di libertà vigilata. Giustizia è fatta, si interroga ancora una volta l’America? Fin dall’inizio la vicenda aveva sollevato grande clamore mediatico e attirato l’attenzione del movimento Metoo, che insieme alle associazioni antiviolenza si sono schierate al fianco di Chrystul “scortandola” dentro e fuori le aule di giustizia.

Una petizione online ha raggiunto oltre un milione di firme. E le attiviste hanno contribuito direttamente alla difesa spiegando perché le vittime di traffico sessuale possono sentirsi intrappolate fino a convincersi di dover agire per riprendere il controllo sul proprio destino.

Come è successo a Cyntoia Brown, giovane ergastolana scarcerata dopo 15 anni in cella grazie a una grande pressione mediatica sul caso. E come forse è successo a Chrystul, che all’epoca dei fatti aveva 17 anni.

Un anno prima aveva pubblicato un annuncio sul sito backpage. com per aiutare la famiglia: cercava di guadagnare qualche soldo per il cibo e il materiale scolastico. La piattaforma in seguito è stata identificata come “luogo” di adescamento nel mercato della prostituzione e chiusa per traffico di essere umani. Mentre Chrystul non aveva idea di cosa l’aspettasse. Randall Volar aveva subito risposto all’annuncio.

L’aveva ricoperta di regali, sorprese e denaro. Solo in seguito, aveva chiesto il “conto”: per sé e per altri, spedendola nei Motel per prostituirsi e rendergli subito il ricavato. Un giorno dietro l’altro, per un anno intero, finché Chrystul ha detto basta: voleva cambiare vita.

Così il 4 giugno 2018 si è recata a casa dell’uomo con una pistola nella borsa, che a suo dire le aveva regalato il fidanzato per difendersi. Volar le ha dato della droga e si sono messi a guardare un film. Poi la lite sarebbe sfociata in una colluttazione, quando l’uomo ha cominciato a toccarla e lei si è rifiutata di avere un rapporto. Due colpi, esplosi per liberarsi dalla morsa, poi la fuga.

Come la ragazza ha raccontato per la prima volta in un’intervista del 2019 al Washington Post, che ha condotto una lunga inchiesta sul caso. Fino a scoprire qualcosa di sconvolgente: qualche mese prima dell’omicidio, la polizia aveva aperto un fascicolo sull’uomo, indagato per reati sessuali in seguito a una segnalazione.

Siamo a febbraio 2018. Una ragazza di 15 anni chiama il 911: si trova a casa di Volar, e racconta ai centralinisti che un uomo le ha dato della droga e minaccia di ucciderla. Poi attacca. Gli agenti la trovano mentre vaga in strada, con indosso solo un reggiseno sotto una giacca aperta, con le pupille dilatate dalle sostanze.

La ragazza racconta la stessa dinamica: aveva incontrato Volar un anno prima, quando lui aveva risposto al suo annuncio sul sito. La polizia perquisisce l’appartamento di Volar, gli confisca pc, hard disk e memory card, insieme ad alcuni pigiami e biancheria da donna. Scatta l’arresto con l’accusa di adescamento di minori, favoreggiamento e violenza sessuale di secondo grado su un minore.

Ma poi accade qualcosa: l’uomo viene rilasciato senza cauzione. Gli viene detto che sarebbe stato convocato in tribunale. Ma la citazione in giudizio non è mai arrivata. E non vi è traccia di accuse a suo carico. Resta solo il contenuto di quel fascicolo, che il Washington Post ha potuto visionare, al cui interno ci sono “centinaia” di video di pornografia minorile rivenuti in casa di Volar e più di 20 “filmati casalinghi” che lo ritraggono insieme a ragazze nere minorenni.

Bambine, adolescenti tra i 12 e i 14 anni, secondo gli stessi investigatori. Che lasciano cadere nel vuoto il caso fino al giorno della tragedia. Quando l’omicidio riporta a galla tutto l’orrore.

Chrystul viene accusata inizialmente di incendio doloso e omicidio volontario di primo grado, un reato che prevede l’ergastolo “obbligatorio”, nel Wisconsin. Uno spiraglio si apre nel 2022, quando la Corte Suprema dello Stato si pronuncia a suo favore.

La questione su cui i giudici sono chiamati ad esprimersi riguarda una legge statale, adottata in Wisconsin nel 2008, che offre una “difesa affermativa” alle vittime di traffico sessuale, se queste riescono a dimostrare durante il processo che il crimine da loro commesso è diretta conseguenza della condizione di abusi in cui versano. Una sorta di scudo penale, utilizzato normalmente per scagionare le vittime di tratta dall’accusa di prostituzione, furto o droga, ma che non è mai stato impiegato in caso di omicidio.

Di qui la pronuncia della Corte Suprema, che aveva aperto la strada all’applicazione della stessa legge per il procedimento nei confronti di Chrystul. Che alla fine, però, ha deciso di non correre il rischio di una condanna all’ergastolo.

«Considerate ciò che il mondo le aveva insegnato fino ad allora – scrive Rachel Louise Snyder sul New York Times: una ragazza nera e povera, da sempre sotto il controllo degli uomini, che ha subito violenza, in un sistema giudiziario che ha concesso la libertà al suo aggressore al prezzo del suo trauma… Per sei anni il suo caso è stato dentro e fuori dal tribunale, e cosa le ha portato? Un gioco impossibile. Quali erano le probabilità che avrebbe vinto, in questo mondo che abbiamo costruito per lei?».

Non smettiamo di parlare di Ksenia, imprigionata in Russia per una donazione (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

Dodici anni di carcere per aver versato 51,80 dollari a un’associazione di assistenza all’Ucraina. Una settimana dopo la sentenza, non se ne parla più.

Di Ksenia come di altri travolti da avvenimenti tragici, ma non abbastanza da smettere di essere grotteschi

Èpassata una settimana da quando una giovane donna, Ksenia Karelina, è stata condannata a 12 (dodici) anni di galera da un tribunale russo, per tradimento. Ksenia, 32 anni, “ballerina dilettante”, dicono bizzarramente alcune cronache, “di professione ballerina”, altre, ha sposato un cittadino americano e ha la doppia cittadinanza statunitense e russa. Residente a Los Angeles, era venuta a far visita ai famigliari a Ekaterinenburg quando, lo scorso febbraio, era stata arrestata.

L’imputazione: aver sottoscritto, negli Stati Uniti, una pubblica donazione di 51,80 dollari a un’associazione di assistenza all’Ucraina, “Razom”, il giorno dopo l’invasione russa, il 25 febbraio 2022. Dopo mesi di detenzione, è stata processata “a porte chiuse”. Il pubblico accusatore ha chiesto la condanna a 15 anni. La corte, in un accesso di indulgenza, gliene ha inflitti 12.

L’FSB, la sigla erede del KGB, ha certificato che il denaro versato da Karelina sarebbe stato impiegato “per acquistare forniture mediche tattiche, armi e munizioni per le forze armate di Kiev”. L’organizzazione “Razom” ha negato di aver mai partecipato all’acquisto di armi e munizioni.

In tribunale, Karelina ha “confessato” il versamento dei 51,80 dollari, e ha detto di essersi proposta di aiutare le vittime del conflitto di ciascuna parte. Il suo difensore ha annunciato ricorso. Ne scrivo oggi perché, com’era ovvio, una settimana dopo, non se ne parla più. Di Ksenia come di tante altre persone travolte da avvenimenti tragici, ma non abbastanza da smettere di essere grotteschi.

In genere tra i galeotti e le galeotte c’è qualche curiosità di sapere perché il proprio prossimo ci è finito. Le prossime di Ksenia conoscono la cifra della sua donazione: chissà se pensano che sia una vittima della ottusa spietatezza del regime, o una cretina.

Come quando si legge sulle civette dei quotidiani: “Spaccano un bancomat per soli 37 euro”, come a dire che siamo al di sotto del minimo ragionevole. Ksenia ha incassato un anno di galera dura per ogni 4 dollari virgola elargiti. Lei forse si dice che ha fatto uno sbaglio, non doveva lasciarsi commuovere da quel banchetto stradale. Forse si dice che doveva dare di più.

Forse niente di tutto questo, sta lì, in cella, in uniforme, obbediente, chiedendosi quando il dispotismo orientale che l’ha presa in ostaggio avrà interesse a un nuovo scambio di prigionieri: una ballerina da 51,80 dollari per un sicario di pregio o una spia di rango. In tribunale, dietro il vetro della gabbia degli imputati, il bel viso di Karelina sorrideva. Per l’occidente collettivo, sarà comunque un affare.

(Ansa)

La sparizione mediatica di Meloni è la perfetta metafora del suo governo (linkiesta.it)

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Fiamma spenta

Nonostante i due anni a Palazzo Chigi, la presidente del Consiglio non ha inciso nella vita politica: non ha migliorato la nostra fragile economia, ha isolato il nostro paese in Europa e non ha cambiato in meglio la vita degli italiani.

Ha solo spostato qualche poltrona in Rai

La scomparsa dalla circolazione di Giorgia Meloni che ieri ha fatto lavorare diversi cronisti è una metafora della realtà italiana. Giorgia disparue ha fatto venire in mente, a occhi chiusi, una domanda: senza Meloni, cosa cambierebbe? Gli ospedali funzionerebbero peggio? I treni arriverebbero più in ritardo di quanto non sia oggi? I diritti civili verrebbero lesionati? Crollerebbe l’occupazione?

Rovesciando la questione la domanda vera diventa un’altra: con Meloni al potere è cambiato qualcosa?

A due anni ormai dalla presa di palazzo Chigi, dunque quasi a metà della legislatura nera, la risposta, certo inevitabilmente generica ma sufficientemente argomentabile, è questa: con la destra al governo concretamente non è cambiato nulla.

Lasciamo stare la Rai che è sempre più un suk arabo, e lasciamo perdere anche le algide tabelline dell’Istat che certificano gli zero virgola: in Italia, onestamente, non stiamo messi meglio di due anni fa. Prima di questo governo, almeno c’era Mario Draghi e la sua forza intellettuale e la sapienza tecnica che si facevano sentire anche all’estero. Il “Draghi” di oggi è Raffaele Fitto, e ho detto tutto, avrebbe commentato Peppino De Filippo.

Non è nemmeno un problema di personale politico, anche se solo un pazzo o un tifoso sfegatato poteva pensare che il salto da Colle Oppio al G7 potesse essere facile come per Paola Egonu sparare una bordata nei tre metri. Questi non sanno niente, e in più il vero dramma sono le idee: non ne ha, non ne hanno.

E quando ne hanno, le annacquano nel veleno dell’arroganza e dell’autoreferenzialità (sul premierato se chiedessero una mano a gente che ne mastica forse lo porterebbero a casa. Così, no). E quando un alleato ha un progetto poco poco civile, come Forza Italia sullo ius scholae, gli tagliano le mani: non se ne farà niente, cadrebbe il governo, e Antonio Tajani non è certo Pietro Nenni pronto a rompere con la Democrazia cristiana.

In due anni la destra meloniana non ha preso nessuno, anzi, ha mandato Matteo Renzi dall’altra parte (e lei se l’è legata al dito), ha scommesso su Marine Le Pen e Donald Trump: battuta la prima, in crisi il secondo.

Non capendo  né i processi reali né che la politica è far accadere le cose con un certo ordine, Giorgia Meloni innervosisce il dibattito pubblico e al massimo eccita la curva Nord, ma il Paese ne può giusto chiacchierare al bar o sproloquiare su X dell’amico Elon Musk, dopodiché gli italiani hanno altro da fare, curarsi senza andare in bolletta, dare un’educazione a una generazione disillusa già a quindici anni, far quadrare i bilanci dell’azienda o del negozietto, pagare mutui e affitti fuori dal mondo.

Dov’è Meloni nella materialità di vite difficili, dov’è questa giovane premier che non sa di economia e snobba la grande cultura in nome di una critica astratta e astrusa all’egemonia della sinistra, buttando così nell’acqua sporca Jean-Paul Sartre e Andrej Zdanov? Dunque, che incredibile metafora, la sparizione di Giorgia, che se c’è o non c’è è la stessa cosa.

Ed esserci o non esserci, come i peggiori governanti della Prima Repubblica, non è per nulla edificante, per una come lei.

Il Metodo Di Bella e le fallacie argomentative di Radio Radio (butac.it)

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Ci avete segnalato l’ennesima difesa a spada tratta al Metodo Di Bella su Radio Radio, difesa portata avanti stavolta dal direttore della stessa, Ilario Di Giovambattista.

Vi riportiamo il testo con cui viene condiviso il suo intervento su YouTube:

Se un utente neutrale cerca “metodo #DiBella” su Google, spuntano una serie di articoli denigratori e avversi. Alcuni ufficiali, altri meno: a loro dire, il discorso sul metodo Di Bella si è chiuso alla fine degli anni ’90; qualcuno insinua che chi vi torna sopra sia animato da interessi personali. Il primo argomento è facilmente smentibile, il secondo è classificabile tra le più becere teorie del complotto. Il metodo Di Bella non si è mai fermato. In molti si affidano ancora a Giuseppe Di Bella, prima e dopo la diagnosi che attesta la presenza di un tumore. Questo perché il dott. Di Bella ha portato avanti gli studi del padre Luigi, avvalendosi di pubblicazioni disponibili su PubMed, archivio scientifico sottoposto regolarmente a peer review. E negli anni dei risultati ci sono stati. Tanto che davanti all’evidenza, alcuni giudici hanno imposto alle Asl di pagare la cura Di Bella a pazienti visibilmente migliorati, ma la riabilitazione totale del metodo non è mai avvenuta. Questo perché i detrattori si rifanno alla sperimentazione che fu effettuata nel 1998 per ordine del Ministero della Salute: in seguito al fallimento di quella sperimentazione che affossò Di Bella tanti dubbi su ciò che accadde davvero vennero a galla. Come le carte dei NAS che certificarono che erano stati utilizzati farmaci scaduti (ma i pazienti migliorarono lo stesso); eppure una nuova sperimentazione trasparente per certificare la verità non arrivò mai. L’allora Ministro della Salute era Rosy #Bindi, che di recente è anche tornata sull’argomento su carta stampata. Parla di fake news e interessi personali, ma lei stessa ebbe un atteggiamento di immediata avversità quando 100mila persone arrivarono a Palazzo Chigi: “Mi disse che avrebbe scoperto chi c’era dietro di me. Ministro, lo hai più scoperto? Neanche io so chi ci fosse dietro di lei, ma non so chi si vergognerebbe di più facendo questa scoperta”. A parlare è il direttore Ilario #DiGiovambattista, il cui dubbio è sempre il medesimo: “Ho intervistato persone sopravvissute con tumori cerebrali. Ma allora perché devono imporre una cura? E perché senza neppure confrontarsi con Di Bella? Quello che mi piacerebbe, quando faremo un webinar a settembre, è che medici scettici si presentassero con gli studi scientifici e ne chiedessero conto al dottor Di Bella. Mi piacerebbe molto, ma questo non avviene mai”.

Il testo è un sunto di quanto poi viene detto nel video. Perché abbiamo scelto ancora una volta di parlarne? Perché è evidente che se loro continuano a farlo significa che ci sono soggetti, malati di tumore, che ci credono e si fidano, soggetti che avrebbero bisogno di chiarezza invece che di questa confusione mediatica. Ne parliamo anche perché riteniamo interessante mostrare le varie fallacie a cui ricorrono per portare avanti le proprie tesi e dare intendere al proprio pubblico di essere dalla parte dei giusti.

Per comodità vi riportiamo una alla volta le affermazioni a nostro avviso discutibili, e a seguire la nostra risposta.

  • Il discorso sul metodo Di Bella si è chiuso alla fine degli anni ’90; qualcuno insinua che chi vi torna sopra sia animato da interessi personali. Il primo argomento è facilmente smentibile, il secondo è classificabile tra le più becere teorie del complotto.

Questo tipo di affermazione è un esempio di “ipse dixit”, ossia un’affermazione non supportata da prove. Dichiarare che qualcosa è “facilmente smentibile” senza fornire evidenze specifiche non è un metodo corretto per costruire un’argomentazione scientifica o logica.

  • Il metodo Di Bella non si è mai fermato. In molti si affidano ancora a Giuseppe Di Bella, prima e dopo la diagnosi che attesta la presenza di un tumore.

Il fatto che ci siano alcuni soggetti che lo seguono non implica che sia scientificamente valido, ma solo che quei pazienti si fidano, che ci credono. La scienza si basa su studi clinici controllati e ripetibili, non su aneddoti o su quanti pazienti scelgono un trattamento rispetto a un altro.

  • Il dott. Di Bella ha portato avanti gli studi del padre Luigi, avvalendosi di pubblicazioni disponibili su PubMed, archivio scientifico sottoposto regolarmente a peer review.

PubMed, come ripetuto più volte sulle nostre pagine, è un archivio di letteratura scientifica, non una testata a sé stante, e di per sé non può essere “sottoposto regolarmente a peer review”. Il fatto che un testo sia presente su PubMed non garantisce la qualità o la validità delle pubblicazioni elencate.

Esistono testate riprese da PubMed classificabili come predatory publishing, altre che pur di pubblicare non fanno una peer review rigorosa.

Pertanto non tutti gli articoli pubblicati su PubMed sono ugualmente affidabili.

Citare la presenza di studi su PubMed senza discutere la loro qualità o il consenso scientifico che hanno ricevuto non dimostra l’efficacia di un trattamento.

  • Tanto che davanti all’evidenza, alcuni giudici hanno imposto alle Asl di pagare la cura Di Bella a pazienti visibilmente migliorati…

Quante volte abbiamo ripetuto che le sentenze giudiziarie non sono prove scientifiche? Le sentenze non si basano sul parere della comunità scientifica ma del giudice che le emette, e degli eventuali periti di cui si è avvalso. Un giudice può prendere decisioni basate su criteri legali, ma ciò non significa che la cura sia scientificamente valida. La giustizia e la scienza operano su principi diversi.

  •  I detrattori si rifanno alla sperimentazione che fu effettuata nel 1998 per ordine del Ministero della Salute: in seguito al fallimento di quella sperimentazione… carte dei NAS che certificarono che erano stati utilizzati farmaci scaduti…

La sperimentazione del 1998 fu condotta con rigore scientifico, il suo fallimento è stato ben documentato e non è dipeso dall’uso dei farmaci scaduti. La menzione dell’uso di farmaci scaduti è arrivata dopo che la sperimentazione non aveva portato prove di efficacia. In ogni caso non si trattò di un uso sconsiderato da parte di chi effettuava la sperimentazione, infatti come riportato in un’interrogazione parlamentare del 20 novembre 2000: 

il professor Di Bella aveva fornito le piu` ampie assicurazioni in merito al fatto che, se custodito in ben precise condizioni, al riparo dalla luce e dal calore, lo sciroppo ai retinoidi era del tutto stabile. In effetti, laddove il professor Di Bella avesse ritenuto non piu` utilizzabili i preparati da lui suggeriti dopo un determinato arco temporale, lo avrebbe indicato nel protocollo firmato, cosa che invece non ha fatto…

In ogni caso, se la sperimentazione non viene effettuata in un contesto controllato, il fatto che alcuni pazienti siano migliorati non può essere attribuito con sufficiente certezza alla terapia.

  • Quello che mi piacerebbe, quando faremo un webinar a settembre, è che medici scettici si presentassero con gli studi scientifici e ne chiedessero conto al dottor Di Bella.

E questa è la dimostrazione ultima del non aver compreso nulla di come funziona la scienza. Sta a chi sostiene la validità del metodo a doverla provare, non a chi ritiene che il metodo non funzioni a doverlo dimostrare. La scienza, tutta, funziona così da sempre, ma al direttore di Radio Radio evidentemente non importa.

Concludendo

Radio Radio fa leva su un approccio di tipo emotivo e non scientifico alla questione, utilizzando aneddoti e teorie del complotto oltre agli attacchi personali rivolti all’ex Ministro Rosy Bindi. La sperimentazione del metodo Di Bella è stata condotta in modo rigoroso, e i risultati non hanno dimostrato la sua efficacia come trattamento per il cancro.

La comunità scientifica si basa su prove replicabili e verificabili, e non su convinzioni personali o sentenze legali. Nel video viene mostrata la pubblicità del libro del figlio del professor Di Bella (di cui abbiamo parlato pochi giorni fa) tre volte in dieci minuti, libro che come riporta la pubblicità è acquistabile proprio sullo shop di Radio Radio.

Non crediamo di dover aggiungere altro.