Un matrimonio a Sarajevo, la festa dopo la distruzione e gli occhi chiusi sul passato (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

Si è sposata la figlia dell’autista storico dell’ambasciata italiana a Sarajevo, grande amico dei giornalisti italiani negli anni dell’assedio. Una lettera che ho ricevuto racconta la festa

Gigio è ora in pensione, dopo essere stato l’autista storico dell’ambasciata italiana a Sarajevo e il grande amico dei giornalisti italiani negli anni dell’assedioLui e Amela hanno tre figlie, e la prima si è appena sposata. Ho ricevuto questa lettera sulla festa da un amico, già rappresentante di un paese europeo nella capitale bosniaca, mi sembra che possa riguardare anche voi.

“Per me e mia moglie partecipare al matrimonio è stata un’esperienza molto coinvolgente, come sempre accade a Sarajevo. La naturalezza di Gigio, l’eleganza di Amela, l’affaccendarsi delle sorelle con gli ospiti, la felicità spontanea di Berina e dello sposo, la musica nel giardino e i balli sempre più animati, tutto è stato stupendamente diretto, vissuto con piena sincerità. Al tavolo parenti e amici stretti che non si conoscevano necessariamente e che incontrandosi non hanno potuto fare a meno di raccontarsi della guerra e delle sue assurdità, dai pacchi spediti da Vienna che sparivano all’arrivo, ai sacchetti di farina che non riuscivano nemmeno a passare da un quartiere all’altro, perché qualcuno li sequestrava come ‘materiale strategico’. ‘Komu rat, komu brat’, oggi guerra domani fratello – più o meno – ha sentenziato un cugino di Gigio, con la smorfia tipica bosniaco-erzegovese che liquida tutto in un triste ‘che ci vuoi fare?’. 

Eppure proprio questo ha fatto risaltare la vittoria della vita. Uno non poteva fare a meno di osservare questa gioia sincera e pensare quanta fatica è costata; quanto dolore, rischio e sacrificio sono stati necessari per approdare a questo risultato senza trasformarsi in mostri, senza rinunciare all’umanità.

Uno si accorge che tutta la scena poteva ripetersi nello stesso identico momento con le stesse persone, gli stessi sorrisi, le stesse celebrazioni in questi stessi giorni, senza il calice amaro di anni di guerra e di sofferenze. Se la guerra si fosse evitata probabilmente non sarebbe cambiato niente, si sarebbe arrivati lì.

Invece il fatto di arrivarci nonostante tutto, con ragazze velate e ragazze non velate che danzano libere e felici e l’amica del cuore di Berina che è serba e ortodossa, venuta apposta da Belgrado dopo gli anni insieme in Italia, ecco tutta questa è una cosa che fa commuovere e interrogare sulle strade della vita e sul coraggio che serve per viverla. Gigio e la moglie, Berina e le sorelle ne sono consapevoli.

Tutti quanti hanno fatto lo sforzo di restare umani, di non cedere negli anni della guerra e del dopoguerra. Se ne sorprende quasi pure Gigio: malgrado tutto, ‘non siamo diventati nazionalisti!’. E sempre Gigio, con saggia testardaggine, considera come anche Berina abbia scelto una strada sempre più rara: dopo la laurea in Medicina a Bologna, guadagnata a costo di sacrifici enormi, non è emigrata ma si è guadagnata l’assunzione in una Asl locale.

Anche questa è una scelta ‘contra tutto’, come dice Gigio con orgoglio cosciente. Insomma, uno si trova a ricevere una lezione di vita da un autista che ne ha viste di tutti i colori e che ora dimostra con naturalezza il senso dell’onore di essere umani, di restare fedeli alla vita.

Poi uno che vede questo non può non chiedersi che succederà a Gaza tra trent’anni, se ci sarà un matrimonio celebrato senza odiare, con amici ebrei, atei e musulmani, quale prezzo sarà richiesto a migliaia, milioni di persone per provare a restare umani nonostante tutto.

Uno si chiede che cosa abbiamo capito, se abbiamo capito, della distruzione di coscienza che è avvenuta in Europa con gli anni Novanta, se qualcuno ha imparato o no che il vento del nazionalismo è sempre progettato a tavolino, che non se lo inventa da sola la ‘società’.

E’ vero che la storia si ripete, ma non c’è nulla di peggio di chi non vuole guardare ai precedenti. Intanto nasce una vita nuova e lì, a Sarajevo, c’è qualcuno che nonostante tutto ‘è rimasto umano’”.

(Ansa)

Soldati giocattolo: i diciottenni russi che si arruolano nell’esercito e sono mandati a morire in Ucraina (valigiablu.it)

Negli ultimi due anni e mezzo, sia a scuola che attraverso i media i bambini russi  sono stati costantemente esposti a narrazioni propagandistiche sull’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte del Cremlino.

Ora, una generazione plasmata dalla guerra sta terminando gli studi e si sta dirigendo direttamente al fronte.

Molti giovani, a soli 18 anni, firmano contratti con l’esercito e sono inviati in battaglia dopo appena due settimane di addestramento. Solo negli ultimi due mesi, almeno 13 di questi giovani soldati sono morti in combattimento, molti alla loro prima missione. Per scoprire cosa spinge questi giovani ad arruolarsi, il sito indipendente Holod ha parlato con le famiglie di alcuni dei soldati più giovani che hanno perso la vita nella guerra in Russia. Il sito Meduza ha curato una versione tradotta in inglese dell’originale.

Georgy Nadeyin, di Perm, aveva solo otto anni nel 2014, quando il suo patrigno andò a combattere in Donbas con il gruppo Wagner. Dopo aver prestato servizio in Ucraina, il patrigno è stato inviato in Siria e poi in Africa.

Il giorno del sedicesimo compleanno di Georgy, la Russia ha lanciato l’invasione su larga scala dell’Ucraina e, ancora una volta, il suo patrigno è partito per la guerra. Dopo la morte di Yevgeny Prigozhin e lo scioglimento del Gruppo Wagner, il patrigno si è unito al battaglione ceceno Achmat.

Georgy ha compiuto 18 anni nel febbraio 2024. Meno di un mese dopo, ha chiamato sua madre per dirle che ha firmato un contratto militare. “‘Tutti i ragazzi ci vanno’, mi ha detto. ‘Che c’è, sono l’unico a non essere tagliato per questo? Crescerò, diventerò saggio, diventerò un uomo’”, ricorda la madre Anastasia.

Come cadetto del campus di Perm dell’Università Statale del Volga per il Trasporto Acquatico, Georgy ottiene un rinvio dal servizio militare obbligatorio. Secondo la madre, Georgy poteva contare sul sostegno economico della famiglia e non aveva quindi bisogno di soldi.

“Aveva vestiti, un buon telefono, tutto”, dice la donna. La decisione di firmare il contratto è stata uno shock per lei. Non sa cosa lo abbia influenzato, ma incolpa l’amico Kostya, che ha firmato con lui. “Ha incoraggiato Georgy”, dice Anastasia. “Si sono sfidati a vicenda e sono partiti”.

Il 12 giugno 2024, durante l’ennesimo assalto russo nei pressi di Avdiivka, Georgy è mandato in missione per la prima volta. Quattro giorni dopo, il 16 giugno, viene ucciso. Il suo corpo non è ancora stato restituito alla madre. Lei spera ancora che sia vivo.

Le orme dei padri

I media di Stato russi spesso ritraggono la morte di soldati ucraini diciottenni come una conseguenza del fatto che essi sono “caduti in preda alla propaganda ultranazionalista” e si sono diretti al fronte “senza aver prestato alcun servizio militare”. Nel frattempo, le autorità russe mandano in guerra i propri soldati appena maggiorenni.

Nella primavera del 2023, mentre la guerra entrava nel suo secondo anno, Vladimir Putin ha dato il via libera all’invio di russi al fronte direttamente dopo la scuola superiore. In precedenza, solo chi aveva completato almeno tre mesi di servizio militare obbligatorio o aveva ricevuto una formazione professionale o un’istruzione superiore poteva firmare un contratto con l’esercito.

Tuttavia, nell’aprile del 2023, la Duma di Stato ha approvato in sordina degli emendamenti che eliminano queste restrizioni, consentendo la firma di contratti senza servizio obbligatorio o istruzione superiore. Alla fine di giugno 2024, secondo BBC News Russia, almeno 40 russi nati nel 2005 o 2006 erano morti nella guerra in Ucraina.

Negli ultimi mesi, le perdite tra i giovani soldati a contratto sono aumentate. Secondo i calcoli di Holod, almeno 13 russi di 18 anni sono morti tra il 15 giugno e il 15 agosto 2024. Quando è iniziata l’invasione su larga scala, questi giovani avevano appena 15 o 16 anni. Ora alcuni di loro, come Georgy, stanno seguendo le orme dei loro padri. I media russi usano spesso le storie di adolescenti che hanno seguito i loro familiari al fronte come un modo per promuovere il servizio a contratto.

Ma Anastasia non crede che suo figlio sia andato in guerra grazie all’esempio del patrigno. “Al contrario, il patrigno ha cercato di proteggerlo”, spiega. “Anche se Georgy gli avesse detto che voleva andare, gli avrebbe trovato un posto più sicuro per farlo stare nelle retrovie; ha un sacco di amici che possono aiutarlo. Perché un comandante dovrebbe ordinare a un diciottenne di andare come soldato d’assalto? A 18 anni puoi stare nelle retrovie!”.

“Mentre voi ve ne state seduti qui”

Anna Shkoda, quarantenne di Novosibirsk, stava aspettando che suo figlio Alexey fosse rilasciato dal carcere. Da minorenne era entrato nel carcere minorile, e nell’aprile 2024, sei mesi dopo aver compiuto diciotto anni, è stato trasferito in un carcere per adulti nella regione di Novosibirsk.

A quel punto, ad Alexey rimanevano solo otto mesi da scontare. Ma invece di scontare la sentenza, ha deciso di firmare un contratto con il ministero della Difesa e di andare in guerra. “Non so perché, e non lo saprò mai”, dice Anna. “Ho chiesto a mio figlio e mi ha detto: è una mia decisione, mamma, cerca di capire””.

Il 6 maggio 2024 Alexey è stato trasferito dalla prigione e solo 20 giorni dopo è partito per la sua prima missione di combattimento. Secondo la madre, l’intero addestramento è durato solo due settimane. Il 15 giugno, durante la sua seconda missione, Alexey è stato ucciso. Mancavano quattro mesi al suo diciannovesimo compleanno.

Alexey non è l’unico ex detenuto minorenne che è andato in guerra subito dopo aver raggiunto la maggiore età. Almeno un altro è morto a quell’età: si tratta di Alexander Kovin, della città di Osinniki, nella regione di Kemerovo. Due madri di altri detenuti hanno confermato che era stato in un centro di detenzione minorile.

È stato sepolto il 1° agosto 2024. Come Alexey, Alexander aveva 18 anni e otto mesi. È andato in guerra nella primavera del 2024, poco dopo essere stato trasferito in un carcere per adulti.

Secondo la madre di un adolescente detenuto, i reclutatori del ministero della Difesa non visitano i centri di detenzione minorile dove sono rinchiusi i minori. Anche Olga Romanova, responsabile dell’organizzazione per i diritti dei detenuti Rus Sidyashchaya (“Russia Dietro le Sbarre”), conferma di non aver sentito parlare di questi reclutamenti.

Ai minori detenuti viene detto durante le lezioni scolastiche e all’appello: “Guardate quei soldati che combattono per la loro patria, mentre voi ve ne state seduti qui”” racconta la madre di uno di loro. “E quando si trasferiscono in una prigione per adulti, inizia la vera follia”. Suo figlio, che ha ancora qualche anno di pena, ha intenzione di andare in guerra non appena compirà 18 anni – nonostante il fatto che un suo amico sia già morto in Ucraina.

“Sono un uomo”

A 18 anni Dmitry Sergeyev decide di sposare la sua fidanzata del liceo. Ma per mettere su famiglia ha bisogno di soldi. Dmitry è cresciuto a Cheremshanka, un villaggio della regione di Tyumen con meno di 500 abitanti. È stato cresciuto dalla nonna, recentemente scomparsa.

Dmitry prende il diploma in agraria, ma non avendo esperienza non riesce a trovare lavoro. Un parente lo sistema nella sua azienda, ma la paga non è sufficiente. “Era stanco di vivere in casa d’altri, soprattutto perché voleva sposarsi”, racconta un familiare.

“Ma dove avrebbe dovuto trovare i soldi?”. Dmitry decide perciò di andare in guerra. “Pensava di tornare dopo sei mesi e di sposarsi”, racconta il famliare. Nel gennaio 2024 Dmitry è stato ucciso.

Anche Yaroslav Lipavsky di Tyumen voleva sfuggire alla povertà. È morto un mese dopo il suo diciottesimo compleanno. Sperava di guadagnare abbastanza soldi per mantenere la sua ragazza incinta e aiutare la madre a pagare i debiti, riporta Agenstvo. Poco dopo la morte di Yaroslav, la sua fidanzata Yekaterina ha dato alla luce la loro figlia, Violetta.

Dmitry Mezentsev (nome cambiato) ha assistito alla morte di Georgy Nadeyin durante un’aggressione. Erano a soli 3 metri di distanza l’uno dall’altro, nascosti dietro gli alberi. “Ogni sorta di roba ha iniziato a volare verso di noi, e poi l’artiglieria ha aperto il fuoco”, ricorda Dmitry.

“Una granata ha colpito direttamente Georgy. Volevo prestargli il primo soccorso, continuavo a chiamare ‘Georgy, Georgy’, ma era già troppo tardi. Poi hanno iniziato a puntare su di me, così sono dovuto indietreggiare”. Dmitry è ora in ospedale. “Mi mancava un pezzo di carne dalla coscia e dal braccio”, racconta. “Mi hanno ricucito”.

Lui e Georgy avevano la stessa età; anche Dmitry ha firmato un contratto subito dopo aver compiuto 18 anni. Dice di conoscere molti giovani di 18 e 19 anni che sono andati in guerra negli ultimi mesi, tra cui cinque suoi amici. Ha deciso di andare in guerra perché “le cose non funzionavano nella vita civile”. Prima di firmare un contratto con l’esercito, ha finito la prima superiore e ha lavorato in un minimarket. (Non gli piaceva il lavoro, prendeva troppi reclami).

Dmitry dice che suo padre combatte in Ucraina da quasi tre anni; si è arruolato proprio all’inizio dell’invasione su larga scala. Quando gli viene chiesto se le azioni del padre abbiano influenzato la sua decisione, risponde: “Credo che si possa dire di sì”.

Secondo Dmitry, suo padre si è arrabbiato una volta scoperto l’intenzione del figlio di seguirne le orme. “Mi ha detto ‘dove pensi di andare, stupido ragazzo?’”. racconta Dmitry. Anche sua madre ha cercato di dissuaderlo. “E allora? Sono un uomo. Devo prendere le mie decisioni, non ascoltare qualcun altro”, dice Dmitry.

Quando gli viene chiesto se gli dispiace per sua madre, che ha visto il marito e ora il figlio partire per la guerra, risponde: “Sì, mi dispiace. Ma ha ancora le mie sorelle. Cosa dovrei fare?”.

Articolo originale pubblicato sul sito indipendente russo Meduza (via Holod) con licenza CC BY 4.0 e tradotto dal russo all’inglese da Eilish Hart. Per sostenere Meduza si può donare tramite questa pagina.

Immagine in anteprima: frame video BBC via YouTube

La grande disinformazione italiana che fa il gioco di Putin (linkiesta.it)

di

Ubriachi di propaganda

Federica Onori, deputata di Azione uscita dal M5s, denuncia la debolezza del nostro sistema politico informativo di fronte alle fake news diffuse dal Cremlino.

«Il prezzo più caro lo pagano il Paese e l’opinione pubblica», dice a Linkiesta

Federica Onori, deputata di Azione, lei è uscita dal Movimento 5 Stelle (M5s) per il posizionamento sulla politica estera. Ci può raccontare chi decide la linea del Movimento su questi argomenti? Solo tattica e posizionamento per prendere fette di elettorato?

Sono stata nel gruppo dei Cinquestelle alla Camera per poco più di un anno e per buona parte del tempo con il ruolo di capogruppo in Commissione Esteri. Ma dopo un anno e tre mesi di legislatura ho capito che non era più possibile per me rimanere nel gruppo.

La distanza su diversi temi della politica estera e comunitaria dalla guerra russa in Ucraina, al Mes, alla difesa del Paese, era diventata incolmabile. Evidentemente c’è chi ha potuto conoscere la realtà del Movimento meglio di me, ma per quello che ho potuto vedere mi è sembrato che lo staff della comunicazione avesse una grandissima importanza. A volte, almeno per quanto concerne la politica estera, sembrava che i ruoli tra chi siede in Parlamento e chi lavora nella comunicazione fossero proprio invertiti.

Ad esempio, quando intervenni in aula alla Camera sugli eventi del 7 ottobre, dovetti presentare in anticipo il mio intervento scritto alla comunicazione e ottenere il loro nullaosta. Se non lo avessi fatto non avrei potuto prendere la parola. Il video del mio intervento, che è stato poi messo sui social del M5s, fu comunque tagliato nella parte in cui dicevo “Il No ad Hamas deve essere senza se e senza ma”. Forse alla comunicazione quella frase non era piaciuta.

Durante il governo gialloverde, i Cinquestelle spinsero il nostro Paese nelle braccia della Russia e della Cina. Cosa è successo poi?

Conte era sembrato essere la persona giusta per traghettare il M5s, dopo un’intensa esperienza di governo, in una fase di maturità. Una fase in cui si potesse conciliare l’antico e nobile intento di riavvicinare le persone alla politica con la necessità di recidere i legami con galassie estremiste o stravaganti, come era stato fatto con quella dei Novax durante la pandemia. Molti ci sono cascati, ed io sono stata tra questi. Anche se il mio caso può forse fare poco testo, non avendo io una lunga esperienza politica alle spalle.

Penso però alle parole di Nicola Zingaretti, ex segretario del partito democratico ed ex governatore del Lazio che si era spinto a definirlo “punto di riferimento fortissimo dei progressisti”, dovendosi poi rimangiare quelle parole mille volte. È come quando si guarda un acquario vuoto ma molto molto sporco. Serve solo il tempo necessario a che si depositi sul fondale il materiale sospeso per accorgersi che dentro, in realtà, non c’è nulla. Che era solo acqua sporca. Quando tutto è chiaro, però, si deve anche avere il coraggio di unire i punti. E non sono pochi, questioni rimaste in gran parte irrisolte come la missione “Dalla Russia con amore”.

Per chi non lo ricordasse, anche se è tutto sulla stampa, durante la pandemia Conte aveva preso accordi al telefono direttamente con Putin, stranamente senza passare per il Consiglio dei Ministri, per far arrivare in Italia un contingente russo comprendente medici ma soprattutto militari. Dico soprattutto perché si seppe solo dopo che i medici erano solamente circa il trenta percento e che il restante del contingente fosse invece costituito di militari. Conte ha dichiarato che serviva per aiutare l’Italia nel momento più difficile della pandemia.

Ma non è ancora chiaro perché allora i russi insistevano cosi tanto per andare, ad esempio, in Puglia dove il virus praticamente non c’era, ma in compenso c’è ad Amendola, in provincia di Foggia, il più grande aeroporto militare d’Italia, dov’è di stanza il 32.mo stormo con le macchine tecnologicamente più avanzate, ovvero gli F-35. Sulla Cina invece, il discorso mi pare molto chiaro. Prendiamo la Via della seta (Bri) ad esempio. A seguito dell’accordo, l’export italiano in Cina è cresciuto in minima parte mentre quello cinese in Italia è esploso, tanto da portare il deficit dell’Italia verso la Cina a toccare il suo record. Addirittura, in questi anni, ci sono stati maggiori investimenti cinesi in Paesi europei (come Regno Unito, Germania e Francia) che non avevano firmato l’accordo.

Se all’inizio, forse, ancora si poteva discutere dell’opportunità o meno di questa mossa, credo che a fronte dei dati nessuno possa dire che la Bri sia stata conveniente per l’Italia. Tra l’altro, anche questo dobbiamo dirlo, Conte firmò questo accordo, che pure aveva valenze geopolitiche e di posizionamento internazionale importanti, senza passare per il parlamento, senza che ci fosse dibattito parlamentare. Proprio come ha fatto Meloni quando, nel dicembre, 2023 l’ha reciso.

Qualche giorno fa, Maria Zakharova prima e Nicolai Lilin poi, hanno attaccato i giornalisti Rai che hanno attraversato il confine ucraino e hanno seguito le truppe di Kyjiv a Kursk. In particolare lo scrittore moldavo ha dichiarato «vi siete scavati la fossa da soli». Non ha notato uno strano silenzio da parte del mondo della cultura e dell’informazione intorno queste parole? L’Ucraina è sconveniente sia dentro che fuori il palazzo?

Le parole di Nicolai Lilin in cui nella pratica si trova a minacciare di nostri i nostri giornalisti, tra l’altro con modi e toni mafiosi, sono a dir poco vergognose. Presenteremo interrogazioni parlamentari su questa vicenda e non lasceremo che passi inosservata. Ma vergognoso è anche il fatto che questo personaggio sia stato invitato per anni in importanti salotti televisivi a parlare della guerra russa in Ucraina, e che abbia avuto così tanto spazio per inquinare il dibattito pubblico nel nostro Paese.

E per rispondere alla sua domanda, sì sembra che in certi ambienti, politici, ma anche e soprattutto culturali, sia sconveniente criticare troppo la Russia. Non dobbiamo dimenticare che la Russia, anche se, non soprattutto, quella di Putin, ha goduto da sempre di ottime relazioni in Italia, a sinistra come a destra. Abbiamo avuto il più grande partito comunista in Europa, e questo ha lasciato segni evidenti anche nel mondo intellettuale.

D’altra parte, Berlusconi aveva un rapporto intimo con Putin, e la Lega di Salvini aveva siglato perfino un accordo di cooperazione con il partito di Putin. Importanti esponenti del M5s, inoltre, partecipavano ai congresso di Russia Unita, il partito di Putin. Per quanto riguarda Conte, all’inizio aveva fatto sperare in una discontinuità in questo senso.

Penso al fatto che, subito dopo l’aggressione russa su vasta scala dell’Ucraina, il M5s aveva votato a favore del primo pacchetto di sostegno militare, e che il senatore Vito Petrocelli, Presidente della Commissione Affari Esteri del Senato, che poi esplicitò le sue posizioni filorusse, venne espulso per aver scritto un post con la “Z”, simbolo dell’invasione della Russia in Ucraina.

Col tempo si è fatta poi strada una posizione “pacifista”, dapprima ponendo maggiore accento sullo sforzo diplomatico e un maggior coinvolgimento del parlamento italiano, ma che poi prese sempre più le forme di una giustificazione delle azioni di Putin e di un’adesione totale ad una narrazione totalmente antioccidentale. Fino a dover prendere tristemente atto del fatto che Andrea Lucidi, definito da molte testate come tra i più prolifici diffusori della propaganda pro Cremlino in lingua italiana arrivi a rallegrarsi sui suoi canali social delle posizioni di Conte e del Movimento.

L’Italia è vittima di un mulinello di disinformazione molto forte e le soluzioni non sembrano esser molte. Che idea si è fatta?

Forse ci sono banalmente troppe persone che guadagnano da una continua disinformazione. E il prezzo più caro lo pagano proprio il Paese e l’opinione pubblica. Mi spiego meglio: invitare in tv un personaggio come Nicolai Lilin o il professor Alessandro Orsini o presunti filosofi che parlano di “turbocapitalismo” procura solitamente dibattiti molto accesi che spesso sconfinano in veri e propri scontri tv che portano ascolti.

Dall’altra parte ci sono poi certi partiti “pacifisti”, che scelgono scientemente di rompere il fronte europeo di supporto all’Ucraina – e creare una crepa in cui Putin potrà facilmente insinuarsi – perché questo può portare loro dei voti.

O almeno questo è quello che dice loro la comunicazione. E in mezzo a questo rimpallo di cattivo, pessimo giornalismo e politica che cerca il facile consenso ci sono le persone. Quelle che ancora vorrebbero provare ad informarsi, che però vengono prese in giro da chi tutto ha a cuore tranne che fare in modo dignitoso il proprio lavoro e il bene del Paese.

Come si può arginare questa continua opera di mistificazione?

Bisogna certamente agire su più piani. Iniziando banalmente col parlare con costanza del tema, come fanno già alcune testate come la vostra. Proprio per questo ad esempio, il mese scorso ho promosso alla Camera, insieme con la Federazione Italiana dei Diritti Umani (Fidu), un evento sulla alfabetizzazione digitale, ovvero quell’insieme di competenze che servirebbero ai cittadini per orientarsi nell’infosfera che li circonda, distinguendo agevolmente tra un fatto e un’opinione o tra una fonte autorevole e una che non lo è.

L’evento è stato molto apprezzato e contiamo di continuare a lavorare in questa direzione, con tutte quelle realtà che si occupano di diritto ad una corretta informazione. In Commissione Esteri avevo poi proposto, ormai diversi mesi fa, un approfondimento con un ciclo di audizioni sulle ingerenze straniere e la disinformazione.

Spero nella collaborazione di tutti i colleghi perché si possa partire al più presto almeno con questa fase di acquisizione di informazioni sull’argomento. Nonostante poi oggi ci si informi molto anche su internet, un ruolo importantissimo continua ad averlo la tv. Diversi analisti o giornalisti molto preparati hanno deciso di non accettare più inviti in tv per non dover partecipare a quel “combattimento tra polli” che sono ormai diventate molte trasmissioni.

Ecco, questa è una grande perdita, perché abbiamo invece un gran bisogno di voci autorevoli che possano contrastare le fake news e la disinformazione. In questo senso, sarebbe forse utile la presenza di fact-checker in studio per verificare in diretta almeno una parte delle cose che vengono dette. E prevedere anche spazi per eventuali correzioni o rettifiche di inesattezze dette nella puntata precedente, che non si sia riusciti a verificare al momento.

Non voglio sostituirmi agli autori televisivi, sia chiaro! Ma non possiamo permetterci di continuare a prendere questo argomento sotto gamba. C’è una cosa poi sulla quale tutti possiamo fare molto: non guardare quelle trasmissioni tv dove vengono continuamente invitati personaggi che fanno chiaramente propaganda per le dittature. La reputazione è un bene non solo etico, ma anche economico. Meno persone guarderanno queste trasmissioni, meno sponsor saranno disposti a pagare la loro pubblicità in quegli spazi televisivi.

Il grimaldello politico per giustificare posizioni di allineamento a Putin è il pacifismo o presunto tale. È innegabile che c’è bisogno di pace e di una pace giusta, ma secondo lei la politica italiana è consapevole della partita in gioco?

Credo ci sia chi ignora molto della politica estera, e chi sceglie deliberatamente di non approfondire per facilitarsi la vita. C’è anche chi pensa che le posizioni di politica estera siano tutto sommato meno rilevanti di altre (la giustizia sociale, la sostenibilità ambientale, etc..) Ma non è affatto così.

Lei è eletta tra le fila degli italiani all’estero. La nostra debolezza nei confronti della propaganda russa come viene vissuta dai nostri connazionali?

Essere in costante contatto con chi vive all’estero aiuta a farsi un’idea di come stiano le cose in Italia, sia dal punto di vista politico che dell’informazione. L’opinione pubblica italiana è tra le più ricettive e penetrabili alla propaganda russa.

Siamo ad esempio tra i più inclini a giustificare le violazioni del diritto internazionale di Putin, a vedere il sostegno militare a Kyjiv come un modo per prolungare la guerra (proprio come dice Putin) piuttosto che come un giusto sostegno ad un Paese invaso militarmente oltre che ad un messaggio di deterrenza, nel caso non remoto che Putin pensasse di poter fare la stessa cosa in Georgia o in Moldova, con grande detrimento della stabilità della regione europea e del suo sviluppo economico e sociale.

È come se ci fosse una forma di isolamento dagli altri grandi Paesi europei, che è innanzitutto culturale. E un Paese fondatore dell’Unione europea davvero non potrebbe permetterselo. A questo scopo credo davvero sarebbe utile incoraggiare canali tv europei che si possano vedere in chiaro. Così come promuovere una più ampia partecipazione dell’Italia a progetti come quello di Arte.Tv, una rete televisiva franco-tedesca a vocazione europea di servizio pubblico. Un canale che tratta estesamente anche temi di politica internazionale dal punto di vista delle società. Sono convinta ci farebbe molto bene.

La lista di proscrizione antisionista del Nuovo Partito Comunista (linkiesta.it)

di

Falce e Hamas

Un delirante comunicato politico che espone al pubblico di pazzi esaltati aziende e personalità varie, tra cui anche giornalisti e amici di questo giornale.

La procura e l’Antiterrorismo indagano

I tempi non hanno sempre la stessa luce e i giorni che viviamo spesso sono flebilmente illuminati dal coraggio di pochi, e resi terribili dalla viltà di molti. C’è stato un tempo fatto di liste di proscrizione, di antisemitismo, di messa al bando di intere schiere di esseri umani trasformati in bestie e carne da macello.

Quel tempo in cui gli ebrei erano il problema sembra ritornato questa volta senza vergogne. Non tanto per l’ennesima folle lista di proscrizione, questa volta a opera del Nuovo Partito Comunista che verga un delirante comunicato simile a quello che le Brigate Rosse lasciavano nelle cabine telefoniche, ma per l’ignavia che ormai colpisce come un’erbaccia nel tessuto del nostro dibattito pubblico.

Nel documento si legge che, «l’entità sionista è parte integrante del sistema di potere della Repubblica Pontificia (…). Essa opera nel nostro paese sia attraverso proprie aziende inserite nel tessuto finanziario e commerciale italiano, sia attraverso uomini di fiducia (ebrei e non ebrei) con ruoli apicali nell’ambito mass-mediatico, nel campo dell’istruzione, della medicina, della ricerca scientifica, della politica e delle istituzioni». E poi compila un «elenco di alcune di tali aziende e agenti».

In questa lista di odio antisemita ci sono anche giornalisti, collaboratori e amici di questo giornale, oltre a tanti altri con cui condividiamo battaglie e ideali.

Quella lista è anche il ritratto dell’impunità e dell’indifferenza, questi nuovi finto rivoluzionari che scrivono da Rue Lenin a Saint Denis in Francia facendoci capire che sono figli di tradizioni di clandestinità, espongono al pubblico di pazzi esaltati padri e madri di famiglia definiti «sionisti» e quindi meritevoli di chissà quale trattamento.

Tutto o parte del tutto nasce da Gabriele Rubini aka Chef Rubio, che in una lugubre festa dei Carc, come un predicatore d’odio ha lanciato una fatwa contro altri colleghi giornalisti dichiarando: «Loro devono avere paura ad andare al lavoro ogni giorno, loro devono temere per l’incolumità dei loro figli e delle loro figlie».

Profeti di sventura, eroi da tastiera che fanno dell’odio il loro lavoro grazie a reti mantenute con i soldi che Hamas raccoglie anche nel nostro Paese (come abbiamo raccontato anche da queste pagine), eroi che accusano di essere malmenati per la loro lotta contro il sionismo ma sono pronti a istigare omicidi, eroi che combattono una guerra dai loro cellulari e si mascherano da guerriglieri ogni sabato pomeriggio.

La Palestina, Gaza e quant’altro sembra essere solo il pretesto per un odio antico, per un regolamento di conti, che ora col favore delle tenebre e di un’opinione pubblica in cui uccidere un ebreo non è più reato.

Su questo ennesimo episodio indaga la Procura della Repubblica di Roma e l’Antiterrorismo, le prefetture hanno già disposto dispositivi di protezione personale per i citati in quella lista. Lo Stato c’è e sicuramente ci sarà anche domani, resta da capire se continuerà ad esserci un opinione pubblica che si alzerà in piedi.

(Shutterstock)

La vera storia della parata nazista in Estonia (open.online)

di David Puente

FACT-CHECKING

Ancora una volta, un video viene completamente decontestualizzato per la propaganda russa contro i Paesi non allineati al Cremlino

Il video di una parata in Estonia è stato diffuso per sostenere che il Paese baltico sia dichiaratamente nazista.

Questo genere di falsa narrazione è in linea con la propaganda russa, che dipinge i Paesi confinanti o nemici come abitati e governati da estremisti di destra, una totale falsità utilizzata anche per giustificare l’invasione dell’Ucraina. Ci troviamo di fronte all’ennesimo caso di video decontestualizzato.

Analisi

Il video viene condiviso via Threads con la seguente narrazione:

A Tallin in Estonia si organizzano le parate in onore della 20. Waffen-Grenadier-Division, la divisone estone delle SS che combattè “contro il bolscevismo”

Giurarono fedeltà a Hitler e al suo piano di sterminio degli slavi e degli ebrei.

L’Estonia della liberalissima ex premier Kallas, oggi Alto funzionario della diplomazia UE, li considera per legge eroi della libertà e diversi monumenti in tutto il paese li commemorano ed esaltano.

Che tempi d’oro questi per essere un nazista in occidente.

Viene condiviso anche via Facebook, come in questo caso:

Che in Europa sia estremamente diffuso il sentimento nazista ce lo confermano i fatti in svolgendo in Estonia dove le autorità del Paese hanno organizzato una parata che glorifica il nazismo hitleriano.

“I nuovi valori europei”

Il video è stato diffuso in Italia il 20 agosto 2024 dal canale Telegram del filorusso Nicolai Lilin:

Intanto in Estonia le autorità del Paese hanno organizzato una parata che glorifica il nazismo hitleriano.

“Valori europei” in tutta la loro bellezza…

Il contenuto del post di Nicolai Lilin risulta ripreso condiviso su Facebook:

Il festival estone

Il video risulta pubblicato il 17 agosto 2024 dal canale Youtube “Misterrr77” con il seguente titolo: «Wehrmacht is back – already in Latvia/Estonia MilFest Valga 2024».

Il titolo indica un festival, il “MilFest Valga” (o “International Valga Military History Festival”) che si tiene annualmente in Estonia. Dalle locandine dell’edizione 2024 si possono notare due persone vestite da militari, uno nazista e uno sovietico.

La presenza dei soldati sovietici

Oltre alla locandina, la presenza dei soldati sovietici viene ulteriormente confermata da alcune foto pubblicate il 21 agosto 2024 dalla pagina Facebook “Florida Military vehicle Heritage Group”. Nel post leggiamo:

The event included an antiques fair, a parade of troops and military vehicles along the main street of Valga, and a large-scale reenactment dedicated to the battles of Emajõgi in 1944 involving German and Soviet Troops.

Ecco le foto che mostrano la presenza di entrambe le armate durante la parata:

Conclusioni

Il video della parata nazista in Estonia risulta parziale e non dimostra un sostegno del popolo estone verso le ideologie naziste. La scena riprende un festival che si tiene ogni anno nel Paese Baltico, dove sono presenti diverse forze armate storiche e in particolare, per il 2024, quella nazista e quella sovietica.

Come condannare il terrorismo senza parlare di scontro di civiltà (internazionale.it)

di France InterFrancia

(Candele per le vittime dell’attentato davanti alla basilica di Notre-Dame a Nizza, Francia, 29 ottobre 2020. Valéry Hache, Afp)