Vita e morte di Cesare Pavese nel crocevia di quattro destini che finiscono nell’ombra (ildubbio.news)

di Stefano Bigolaro

Cultura

È una storia che sembra voler insegnare qualcosa di importante sul ruolo del caso e della nostra fragilità. O forse solo sulla suggestione delle coincidenze…

Mi intriga da anni e mi piacerebbe scriverne. Ma non serve: dato che è una storia vera, è stata già scritta dalla realtà. Basta mettere in fila gli elementi. È una storia che sembra voler insegnare qualcosa di importante – ma non facile da capire sul ruolo del caso, sulle zone d’ombra del potere, sulla fragilità della vita umana. O forse solo sulla suggestione delle coincidenze.

Cesare Pavese

Nell’agosto del 1950 ha quarantadue anni. Finito l’amore con l’attrice americana Constance Dowling (che ispira le poesie di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”), passa alcuni giorni di vacanza a Bocca di Magra. Si vede con una ragazza di diciotto anni. Le scrive lettere di toccante intensità, chiamandola “Pierina”. Dichiara di volerle “un falò di bene”. Tornato a Torino, il 18 agosto annota: “Non parole. Un gesto. Non scriverò più”.

Si suicida il 27 agosto nella stanza n. 43 dell’hotel Roma ingerendo una quantità letale di sonnifero. Sul comodino, il biglietto d’addio: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.

Romilda Bollati di Saint Pierre

Nata a Parma, torinese d’adozione, di famiglia nobile, sposa l’industriale Attilio Turati (scomparso nel 1980). Presenza importantissima nel mondo dell’editoria. Collabora fin da giovane con la casa editrice Einaudi. Insieme al fratello Giulio acquista nel 1987 la casa editrice Bollati Boringhieri e ne è presidente fino al 2009. Nel 1983 sposa Antonio Bisaglia, rimane vedova l’anno successivo.

Muore nel 2014, a 82 anni. Poco prima della morte, viene confermato che è lei la “Pierina” delle ultime lettere di Cesare Pavese.

Antonio Bisaglia

Antonio Bisaglia – per gli amici Toni – nasce a Rovigo nel 1929, il 31 marzo. Si avvicina alla politica in un momento storico e in una regione in cui tutto si incentra sulla Democrazia Cristiana. È la “balena bianca”, un partito largamente maggioritario, radicato sul territorio e basato su un fitto sistema di rapporti personali in una società ancora contadina, il cui riferimento più importante sono le parrocchie.

In quel mondo Antonio Bisaglia è il più bravo di tutti: ne conosce e ne sa far funzionare ogni meccanismo, tra sacrestie e preferenze, correnti e aspettative delle collettività, promesse e risultati concreti. Arriva in Parlamento giovanissimo, entra in rapporto con i leader nazionali dell’epoca, amplia la sua visione politica ma senza perdere il contatto con la sua base territoriale.

Acquisisce rilievo fondamentale per un altro veneto, Mariano Rumor, Presidente del Consiglio tra fine anni ‘ 60 e primi anni ’ 70 ( in quei governi Antonio Bisaglia assume le funzioni di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e di Ministro all’agricoltura).

Nei successivi governi Antonio Bisaglia diviene Ministro delle partecipazioni statali e dell’industria, mentre sul piano politico teorizza la riorganizzazione federale della Democrazia Cristiana, a cominciare dal livello veneto. Soprattutto, pare essere progressivamente attratto dagli ambienti dell’impresa di Stato. Gli amici veneti sembrano perdere contatto con lui, e rimangono sorpresi nell’apprendere del matrimonio, nel 1983, con Romilda Bollati di Saint Pierre, appartenente a un mondo sociale e culturale molto diverso.

Muore cadendo in mare dal panfilo della moglie, Rosalù, il 24 giugno del 1984, in prossimità di Santa Margherita Ligure. Della caduta nessuno al momento si avvede. Le circostanze non vengono chiarite e l’autopsia non viene eseguita. Molti di quelli che lo hanno conosciuto e frequentato non hanno mai creduto che si sia trattato di un’onda anomala.

Don Mario Bisaglia

È il fratello di Antonio. Non crede alla ricostruzione ufficiale, ed è tormentato dalla ricerca di una diversa spiegazione. Nell’agosto del 1992 parte da Rovigo, dove vive, dicendo di avere un appuntamento con qualcuno in merito alla morte del fratello. Non si sa con chi. Compra un biglietto ferroviario e va in treno fino a Calalzo, in Cadore. Nel lago di Calalzo viene ritrovato il 17 agosto del 1992.

Il caso viene chiuso come suicidio per annegamento, ma l’inchiesta è riaperta nel 2003. Riesumata la salma, gli esiti sono sorprendenti: Don Mario era già morto quando è finito nel lago (altrimenti nel suo corpo vi sarebbe stata traccia delle alghe tipiche di quel lago, invece assenti). Restano sconosciuti i responsabili.

Luigi Vannucchi 

Come un epilogo. La vita e la morte di Cesare Pavese sono raccontate in un libro di Davide Lajolo, Il vizio assurdo. Ne è tratto uno sceneggiato televisivo nel 1977 e un’opera teatrale, portata in tournée dal 1973 al 1977. A interpretare Cesare Pavese è Luigi Vannucchi. A ogni rappresentazione, lo stesso finale. L’immedesimazione varca il confine del reale: Luigi Vannucchi, dopo aver scritto due lettere, si suicida ingerendo un tubetto di pasticche di sonnifero il 29 agosto del 1978.

Vicende diverse, che ci lasciano in sospeso e non ci consentono di andare oltre…

(Copyright: Fototeca Gilardi – Italy)

Le tredici chiavi della Casa Bianca (doppiozero.com)

di Alessandro Carrera

USA 2024: verso le elezioni

Conclusa la consacrazione di Kamala Harris alla Convention democratica di Chicago (trascurabili disordini per le strade il primo giorno, nessun conflitto alla luce del sole; il Partito Democratico ha imparato dagli errori del 2016 ed è una macchina disciplinata), è il caso di rallentare la corsa, mettere da parte la cronaca spicciola e considerare quali sono le leggi, se ci sono, che presiedono al “teatro del mondo” delle elezioni presidenziali americane.

Nel 1981, lo storico americano Allan Lichtman e il geofisico russo Vladimir Keilis-Borok, che si erano incontrati in California, si divertirono a modificare un programma – inizialmente creato allo scopo di predire l’arrivo di terremoti – per fargli prevedere il risultato delle elezioni presidenziali americane.

La trovata fu del russo, che in patria non la poteva utilizzare visto che l’Unione Sovietica era governata da un solo partito. Lichtman dal canto suo era interessato ad applicare la matematica allo studio della storia. Assieme, decisero di aprire un nuovo campo di studi che potremmo definire geofisica politica.

Il modello da loro elaborato, poi continuato ad opera del solo Lichtman, consiste di tredici keys, “chiavi” che individuano il momento politico del paese preso in esame e determinano i suoi possibili sviluppi. Ogni chiave descrive una situazione della quale si deve decidere se è vera (se si sta verificando nella realtà) o se è falsa (se non si sta verificando).

Se otto chiavi su tredici si stanno verificando (se la risposta è sì), il candidato del partito attualmente al potere ha buone probabilità di vincere le elezioni. Se le condizioni che si stanno verificando sono sette o meno di sette, la previsione è favorevole al candidato del partito sfidante. È un modello teoretico, non basato su dati statistici. Dipende da risposte in parte qualitative, dal grado di conoscenze e dalle capacità analitico-sintetiche di chi lo utilizza.

Lichtman è riuscito a prevedere il risultato delle elezioni dal 1984 al 2012. Nel 2016 ha dato la vittoria del voto popolare a Hillary Clinton e la somma dei voti elettorali a Donald Trump (che si è congratulato con lui, benché Lichtman sia un democratico e nel 2006 si sia candidato – senza successo – come senatore del Maryland). Nel 2020, studiando i mutamenti demografici degli stati in bilico tra democratici e repubblicani, ha previsto la vittoria di Biden.

Come funziona? Si tratta di giudicare vere o false le seguenti tredici proposizioni, che qui riassumo per brevità:

1. Dopo le elezioni di medio termine il partito di maggioranza ha guadagnato rappresentanti alla Camera dei deputati.

2. Il candidato nominato dal partito ottiene la nomina senza particolari contestazioni.

3. Il candidato del partito di maggioranza è il presidente in carica.

4. Un eventuale terzo partito o i candidati indipendenti non hanno un grande peso elettorale.

5. L’economia non è in recessione durante la campagna elettorale.

6. Nei due anni dalle ultime elezioni di medio termine c’è stato un aumento del reddito pro capite.

7. L’amministrazione in carica ha implementato cambiamenti significativi nella politica nazionale.

8. Negli ultimi due anni non ci sono stati disordini o proteste significative.

9. L’amministrazione in carica non è stata coinvolta in scandali gravi.

10. Non ci sono state serie sconfitte militari o seri errori di politica estera.

11. Ci sono stati significativi successi militari o di politica estera.

12. Il candidato del partito in carica è particolarmente carismatico o è un eroe nazionale.

13. Lo sfidante manca di carisma e non è un eroe nazionale.

Nella situazione del 2024, se almeno otto di queste chiavi sono fattualmente vere, Kamala Harris ha una buona possibilità di vincere. Se le chiavi positive scendono a sette o meno di sette, è Donald Trump ad avere più possibilità.

Intervistato da “Times Radio” nel febbraio del 2024, cinque mesi prima che Biden abbandonasse la campagna elettorale, Lichtman precisò che il suo modello è pensato rispertto al presidente in carica. Lo sfidante dev’essere una figura di carisma eccezionale per poterlo scalzare. È successo con F.D. Roosevelt e con Reagan, ma non potrebbe accadere con Trump, che è carismatico, ma la sua base è meno ampia di quella di Reagan.

Poi, certo, la storia ha i suoi trucchi. Lichtman aveva predetto la vittoria di Al Gore nel 2000, che invece andò a George W. Bush. Ma in quel caso, data l’apparente impossibilità di stabilire chi aveva vinto in Florida (il cui esito determinava l’intera elezione), fu la decisione della Corte Suprema ad assegnare la vittoria a Bush.

Tornando sull’argomento dopo la disastrosa performance di Biden nel primo dibattito televisivo con Trump, Lichtman ricordò che Reagan, grazie al suo carisma, nel 1984 vinse quarantanove stati su cinquanta nonostante la sua età avanzata e i deludenti risultati televisivi.

Quando si cominciò a parlare di Kamala Harris come sostituta di Joe Biden, Lichtman postò un video su YouTube in cui confermò che la chiave n. 3, quella del presidente in carica, si sarebbe certamente trasferita alla vicepresidente, ma in una successiva intervista con il “Wall Street Journal” precisò che Biden era sempre la scelta più sicura per i democratici, esprimendo seri dubbi sulle possibilità di vittoria di Kamala Harris.

L’aveva affermato, però, prima che Kamala Harris, aiutata dal suo vice Tim Walz, riconquistasse quel carisma che non aveva mai avuto (che è la vera “chiave” del successo in politica; devi far credere che quello che sei ora lo eri anche prima). Le cose si sono poi mosse molto in fretta, e Lichtman ha dovuto correggere le sue posizioni.

L’ha fatto alla fine di luglio con un’intervista al “New York Post”, sostenendo che il Partito Democratico possedeva sei chiavi per la presidenza, corrispondenti ai numeri 2, 5, 6, 7, 9 e 13. I repubblicani ne avevano tre, corrispondenti a 1, 3 e 12 (quest’ultimo in senso negativo, cioè basato sul carisma di Harris come inferiore rispetto a Trump, ma anche questa chiave sembra poi aver girato in senso opposto).

Le quattro chiavi rimanenti (4, 8, 10, 11) alla fine di luglio erano ancora aperte. La candidatura di Robert F. Kennedy jr (meglio noto come Antivax Kennedy) poteva ancora creare dei problemi ai democratici (chiave n. 4), ma non appena Harris e Walz sono usciti alla ribalta Kennedy jr è scomparso dalle news e infine si è ritirato.

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Quanto alle chiavi che riguardano successi e sconfitte militari e di politica estera (10 e 11), la loro importanza è sempre stata relativa. Ucraina, Gaza e Israele hanno il loro peso, sì, ma per la maggioranza degli americani sono cause boutique. Possono scaldare alcuni animi, ma non ci sono vite di soldati americani in gioco.

È più importante che Kamala Harris si tenga stretta l’ambitissima chiave n. 12 (carisma individuale) che sembra aver acciuffato un momento prima che fosse troppo tardi. In conclusione, Lichtman ha affermato che “molte cose dovrebbero andare veramente male” perché Kamala Harris perda.

Il modello Lichtman ha ricevuto critiche in particolare da Nate Silver, il più celebre sondaggista americano. A parere di Silver, Lichtman non ha veramente trovato le tredici chiavi. Come un fabbro ostinato, ha continuato a forgiare chiavi finché non è riuscito ad aprire le porte che voleva aprire.

Il suo modello non tiene abbastanza conto dello stato dell’economia, che invece è la principale preoccupazione degli elettori, così come è altamente soggettivo quando introduce la nozione di carisma. Tra l’altro il numero di chiavi necessarie per la vittoria, otto su tredici, farebbe pensare a vittorie schiaccianti e a rovinose sconfitte, che in realtà accadono sempre più raramente.

Lichtman ha risposto che il suo modello serve solo a predire vittorie e sconfitte, non le percentuali di voto, e l’economia si riflette anche su altre chiavi, come ad esempio la n. 8 (disordini e proteste).

Il modello Lichtman è comunque una doccia fredda sui costi delle campagne elettorali, la voracità dei media, la frenesia dei sondaggisti e le sorprese e contro-sorprese di un paese che dagli anni Sessanta in poi è in campagna elettorale permanente.

A parere di Lichtman, gli elettori votano il presidente sulla base di come il paese è stato governato nei quattro anni precedenti; il resto conta poco. Le campagne elettorali hanno uno scarsissimo effetto sulla decisione dei votanti. Se i cittadini sono soddisfatti, rieleggeranno il presidente o il candidato nominato dal suo partito. Se non sono contenti, sposteranno i loro voti sul partito concorrente.

Non so quale fosse il fondamento geofisico delle teorie di Keilis-Borok. Posso però dire che l’applicazione alla politica che ne ha fatto Lichtman sembra fondata su una mescolanza di utilitarismo “leggero” e di “percezione sociale” alquanto difficile da valutare.

L’elettore vota per i suoi interessi, che sono reali, ma devono anche essere percepiti come tali, e la percezione non è quantificabile. Ad aumentare l’indeterminazione contribuisce poi il fattore carisma. L’importanza che gli attribuisce Lichtman non è eccessiva

. Gli elettori votano per il buon governo, però dev’essere quello che loro stessi “percepiscono” come tale, così come devono “percepire” che il loro candidato è quello che ha il carisma giusto per realizzarlo (e sull’importanza del “percepito” rispetto al formarsi dell’opinione pubblica e delle sue decisioni mi riferisco al recente libro di Andrea Sartori, Assaliti dalle mille luci del cielo. La cultura della percezione, Quodlibet 2024).

Stando a Lichtman, l’intera industria che accompagna le elezioni presidenziali è una congrega di ciarlatani. Invece di investire milioni in campagne elettorali sarebbe meglio riservarli ad azioni politiche di impatto più duraturo, e su questo è difficile dargli torto.

Se non fosse però che la “percezione” complica tutto. Il passaggio di consegne tra Biden e Harris garantisce la continuità del “buon governo” di Biden (per chi lo “percepisce” come tale), ma non è stata Kamala Harris a implementare le politiche di Biden, le ha solo approvate, e può darsi che molti elettori non sentano il bisogno di essere grati a lei. La gratitudine è un fattore politico? È una quattordicesima chiave, o in politica proprio non esiste?

In fatto di economia e diritti, le posizioni di Kamala Harris sono l’ovvia continuazione del rooseveltismo moderato di Joe Biden: aggirare gli ostacoli burocratici che rallentano la costruzione di nuove case popolari, maggiori sgravi fiscali per le famiglie con figli (una politica messa in atto da Biden nel 2021 e che i repubblicani, con tutta la loro retorica pro-famiglia, hanno bloccato al Congresso nel 2022), nonché restrizioni all’aumento immotivato dei prezzi degli alimentari (cosa che ha fatto subito gridare ai repubblicani che gli Stati Uniti diventeranno il nuovo Venezuela, ma alcuni strumenti di controllo per impedire aumenti eccessivi in caso di catastrofi naturali esistono anche in stati repubblicani, Texas compreso).

Soprattutto, la promessa di una regolamentazione federale dell’aborto, che non c’è mai stata. Un po’ poco per definirla una comunista, come ha fatto Trump. Ma se Kamala Harris riuscisse a realizzare il suo programma anche solo in parte, nel clima attuale e con l’attuale Corte Suprema, sarebbe già un miracolo.

Ma alle elezioni mancano ancora più di due mesi. Per il momento conta solo la “percezione sociale”, quello che i gestori della presenza di Kamala Harris sui social media, tutti molto giovani e che sanno a chi stanno parlando, “costruiscono” di lei.

Tutto il resto è illuminismo vecchio stile. Chi vorrebbe avere più dettagli resta deluso, ma resterebbe deluso anche se li avesse, non importa se sia socialista, liberal o conservatore.

Che Biden sia riuscito a manovrare l’America fuori dal Covid e che le sue politiche abbiano contribuito ad abbassare il tasso di disoccupazione, nonché l’inflazione dal 9 al 3 per cento, non è stato molto “percepito”. Non che sia facile, perché le leggi dell’economia sono sconosciute ai più. L’inflazione degli anni del Covid è un ricordo, ma i prezzi ai supermercati non sono tornati com’erano all’inizio del 2020 (lo posso testimoniare).

È questo, adesso, che fa arrabbiare la gente. Come glielo spieghi che quando l’inflazione cala i prezzi si stabilizzano ma non diminuiscono, se non di poco, altrimenti si entra in rischio deflazione? Perché nel frattempo anche i salari sono aumentati e una brusca riduzione di prezzi porterebbe a una brusca riduzione degli introiti, e quindi dei salari.

Se Trump tornasse alla Casa Bianca i prezzi non scenderebbero di sicuro, a meno di una nuova crisi. Eppure, sono in molti ad avere nostalgia dell’economia di Trump ereditata da Obama, dal 2017 all’inizio del 2020, e ad essersi dimenticati del milione di morti di Covid, molti dei quali, se Trump e i suoi seguaci avessero avuto una reazione iniziale meno isterica, si sarebbero potuti evitare. È la storia della morte negli Stati Uniti. Ne vanno in cerca con le armi in mano, la stanano, la sfidano a duello, e se poi vince la ignorano.

Però l’oblio non fa distinzioni, può toccare a tutti. Gli Stati Uniti sono il paese in cui ti svegli la mattina, sali in macchina e al primo incrocio ti accorgi che un edificio è stato demolito.

Erano dieci anni che ti fermavi a quel semaforo due volte al giorno, eppure non ti ricordi affatto di che cosa ti occupava la vista in quel quadrato dove adesso c’è uno spiazzo vuoto. Biden è stato ringraziato alla Convention democratica, per quello che ha fatto e perché ha capito che non era più in grado di farlo.

Sarà omaggiato ancora, verrà dimenticato, celebrato quando morirà, dimenticato ancora e ricordato dagli storici. Ma anche il culto della personalità elevato intorno a Trump può fare la stessa fine. Un giorno il palazzo sembra indistruttibile, il giorno dopo arriva una palla da demolizione che lo manda in frantumi, e tu sei lì all’incrocio a chiederti che cosa c’era all’angolo fra quelle due strade che adesso non c’è più. Poi scatta il verde e devi ripartire.

(Getty Images)

Guterres (Onu) lancia l’allarme: “Innalzamento troppo rapido del Pacifico” (ilsussidiario.net)

di Vincenzo Pennisi

“Rischio catastrofe mondiale”

Il segretario generale delle Nazioni unite lancia l’allarme sull’innalzamento del Pacifico: “Una catastrofe mondiale sta mettendo in pericolo il paradiso”

Guterres, il grido disperato dopo l’innalzamento del Pacifico

Nel corso di una riunione sulle isole del Pacifico il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha lanciato l’allarme sull’innalzamento del mare, che starebbe correndo a velocità troppo folle negli ultimi tempi e questo ovviamente è un rischio enorme.

Una recente ricerca svelata da Guterres ha rivelato che i mari della regione si stanno innalzando molto più velocemente delle medie globali: “Sono a Tonga per lanciare un Sos globale – Save Our Seas – sull’innalzamento dei livelli del mareuna catastrofe mondiale sta mettendo in pericolo questo paradiso del Pacifico” ha avvertito con grande preoccupazione il segretario generale delle Nazioni Unite.

Una questione legata al surriscaldamento globale, tematica che da anni attira sempre più attenzione e di conseguenza polemiche: “E’ una situazione assurda – ha insistito Antonio Guterres richiamando tutti all’attenzione – . Una crisi che presto si amplierà fino a raggiungere una dimensione quasi inimmaginabile, il mondo deve agire e rispondere all’SOS prima che sia troppo tardi. Senza drastici tagli alle emissioni, entro la metà del secolo le isole del Pacifico possono aspettarsi almeno 15 centimetri di ulteriore innalzamento del livello del mare e in alcuni luoghi più di 30 giorni all’anno di inondazioni costiere” l’allarme del segretario generale delle Nazioni Unite.

Antonio Guterres: “Oceani stanno cambiando velocemente”

La questione riguardante l’innalzamento di mari e oceani è sempre stata particolarmente chiacchierata negli ultimi tempi e Antonio Guterres, intervenuto direttamente da Tonga, ha ribadito il concetto lanciando quello che lui ha definito un vero e proprio SOS: i cambiamenti degli oceani mese dopo mese sono sempre più pericolosi, meno tollerabili e con lo spauracchio di eventi devastanti all’orizzonte, le ondate di calore marino hanno addirittura raddoppiato la loro durata.

Guterres ha snocciolato altri dati allarmanti riguardo all’innalzamento del livello degli oceani:

“E il tasso medio di innalzamento del livello del mare è più che raddoppiato dagli anni ’90: tra il 1993 e il 2002 era di 0,21 centimetri all’anno; tra il 2014 e il 2023 è salito a 0,48 centimetri all’anno”.

La fine del Movimento 5 Stelle, il delitto perfetto (ilsole24ore.com)

di Paolo Becchi

Il Movimento 5 Stelle era nato come una promessa 
di cambiamento, 

ora con Giuseppe Conte rischia di diventare un partitino da numeri da prefisso telefonico alla sinistra del Pd.

Ma quello spazio peraltro è già occupato da un altro partitino. Il rischio dunque è l’estinzione e allora tutte le ultime manovre non saranno servite proprio a nulla

Dopo Silvio Berlusconi la vera novità politica in Italia è arrivata con Gianroberto Casaleggio . L’uomo della televisione era stato sostituito dall’uomo della rete. E, credetemi, Berlusconi sapeva nel 2013 che lui ormai era il passato, mentre Casaleggio il futuro. Il medium è il messaggio.

Ma Casaleggio da solo, con il carattere che aveva, non ce l’avrebbe mai fatta in politica: da qui l’incontro con Beppe Grillo e da allora Grillo capì che i computer non servivano solo per essere presi a martellate durante uno spettacolino. Nasce così una coppia perfetta che sa unire la rete e la piazza. Uno il Mazzini e l’altro il Garibaldi del nuovo Risorgimento italiano.

L’idea guida: la politica non è una professione, anche la cuoca di Lenin, può sedere in Parlamento o andare al governo. Ma ci deve stare per poco. Due mandati al massimo e poi torna a fare la cuoca. Non c’è bisogno di partiti. Ma sì un po’ di democrazia rappresentativa ci vuole, ma con il mandato imperativo e comunque bisogna puntare sulla democrazia diretta, con i referendum senza quorum. Ispiratore fondamentale? Adriano Olivetti , la sua critica ai partiti e l’ordine politico delle comunità. C’era dell’altro ovviamente ma sarebbe lungo parlarne.

La Grillo story

Il primo periodo, dopo le elezioni del 2013, è duro e ci sarebbero molte cose da raccontare che nessuno sa, ma è acqua passata. Il tentativo di far cadere in autunno il governo fallisce, perché Berlusconi in realtà non controllava una parte del suo partito.

Nel 2014 Casaleggio, già malato di un tumore al cervello, commette un grosso errore strategico e perde le elezioni europee. Non puoi concludere una campagna elettorale peraltro debole inneggiando a Enrico Berlinguer . Nell’ aprile del 2016 muore, e con lui muore il primo MoVimento.

Per la verità le cose sono più complesse ma sintetizzo. Casaleggio muore in famiglia ma politicamente in solitudine: con Grillo i rapporti si erano molto raffreddati. Casaleggio in punto di morte fonda con il figlio Davide l’ Associazione Rousseau , perché ha paura che Grillo deragli dalle linee progettuali del MoVimento.

Luigi Di Maio è più furbo di tutti gli altri e si accorda con Davide. Grillo fa il passo di lato. Resta come garante ma si defila. Nasce il nuovo MoVimento guidato da Di Maio con il sostegno di Casaleggio jr, fondatore insieme a lui della nuova associazione (mentre Grillo resta a guardare accontentandosi della regalia del ruolo nobile – e senza rischi – di Garante).

Elezioni 2018, la vittoria, ma i voti non bastano, nasce il governo giallo verde ma i “due ragazzi” commettono un tragico errore: quello di mettere alla guida del governo un terzo credendo di controllarlo; mentre sin dall’inizio l’“avvocato del popolo” aveva cominciato a tessere la sua tela. Salvini cade nella trappola, che lui stesso aveva preparato, e invece di far saltare il governo e andare a elezioni sarà proprio lui a saltare. Mattarella è stato molto abile e ha chiuso la partita.

Finisce il governo giallo-verde e di fatto inizia la carriera politica di Giuseppe Conte che a questo punto ha un unico obiettivo: trasformare il partito di Grillo nel suo partito, nel partito di Conte. Ma ha tre ostacoli davanti: Casaleggio jr, che rappresenta la continuità del MoVimento,

Di Maio che incarna il suo volto istituzionale e Grillo il padre-padrone fondatore. Far fuori tutti e tre insieme era impossibile ed ecco allora l’idea di farli fuori uno alla volta. Per prima cosa bisogna tenersi buono Grillo e “cointeressarlo” prosaicamente ai destini del partito, per l’amor di Dio tutto regolare, è il modo migliore.

Con un colpo di genio, il suo alter ego Vito Crimi – passato convintamente all’ala contiana insieme ai colonnelli che ormai mal sopportavano il figlio di Gianroberto – mette alla porta Casaleggio jr., a Di Maio non resta che fare una mini-scissione. Ma non si può lasciare il lavoro a metà: e ora tocca a Grillo.

Non ha più bisogno di pagarlo, non gli serve più. Del resto a quanto pare, titolarità di nome e simbolo – che gli erano garantiti da una sentenza della Corte d’appello di Genova- Grillo se li è già giocati e allora è giusto il momento per il colpo di grazia. Ok, il delitto è perfetto. Ma per fare che cosa? Un partitino da numeri da prefisso telefonico alla sinistra del Pd?

Ma quello spazio è già occupato peraltro da un altro partitino. Il rischio per Conte è l’estinzione e allora tutte queste manovre non saranno servite proprio a nulla. Io, che sono stato considerato per un po’ l’“ideologo” del MoVimento, mi auguro solo una cosa, che Grillo nato da un V-Day esca di scena e che Conte cambi il nome e il simbolo. Il M5S è stato solo un veloce raggio di sole nel regno delle tenebre. E così lo voglio ricordare.

Il pasticciaccio della militanza pro Palestina nella sinistra italiana (linkiesta.it)

di

Panzane e bandiere

Dalla bufala dei cinquecento morti provocati da un bombardamento di Israele su un ospedale fino alle requisitorie parlamentari contro i sabotaggi della tregua, c’è da chiedersi se questo atteggiamento sia più gradito all’israeliano medio o al medio macellaio del 7 ottobre

Elly Schlein era già una impegnatissima europarlamentare quando, il 17 luglio 2014, l’Unrwa – l’agenzia Onu per il sussidio dei rifugiati palestinesi – doveva manifestare tutto il proprio sconcerto (sì, ti saluto) comunicando di aver trovato una propria scuola imbottita di razzi pronti per il lancio sui civili israeliani.

Una decina d’anni dopo, il 17 ottobre 2023, segretaria e splendida quarantenne, l’avremmo ritrovata a reclamare pace e «due popoli, due Stati», e a condannare il bombardamento di un ospedale: ciò che, come è noto, non solo è contro il diritto internazionale ma, soprattutto, imperdonabilmente confligge con il principio che qui una volta era tutta campagna.

A dieci giorni dai massacri, dagli stupri e dalle deportazioni del Sabato Nero – che ovviamente «erano da condannare» – quella plenipotenziaria della sinistra seria non trovava di meglio che farsi ventriloqua dell’ufficio stampa di Hamas, il quale aveva inseminato le sensibilità democratiche di ogni ordine e grado con la notizia falsa dei cinquecento morti fatti da Israele bombardando – «deliberatamente!», come urlava il diffuso sottufficialato Pd – quell’ospedale.

La cara creatura era a La7, e non si poteva certo pretendere che il conduttore, abituale reggimicrofono di Dibba e Davigo, segnalasse che la bufala appariva per quel che era – una bufala – già per come era data, con quei cinquecento morti contati uno per uno a circa tre minuti e mezzo dal botto.

E figurarsi avvisare che già mezz’ora dopo cominciava a insorgere la mole himalayana di prove contrarie e cioè che non era stato un attacco israeliano e che i morti erano qualcosa come dodici volte meno.

Dice: vabbè, ma l’avevano scritto tutti. No: l’avevano scritto gli amanuensi di Hamas. E quella panzana era l’esordio alla grande di una guerra comunicazionale che senza sosta avrebbe accompagnato l’altra, quella fatta di razzi e ostaggi giustiziati, la realtà sistematicamente messa ai margini della società democratica adunata a invocare il ripristino della pace compromessa dall’oltranza israeliana, mica dal formicaio di tagliagole nei tunnel né – macché – dalla pioggia di confetti che rallegrava la Galilea.

Erano i colonnelli e le colonnelle di quella medesima segretaria, il nerbo fremente di quel partito serio, a presidiare Rafah coi cartelli «ceasefire on Gaza now», senza il tempo per analoghe trasferte in Libano, nello Yemen, in Siria, in Iran, i posti dove non è il caso di fare sit in e agitare striscioni «ceasefire on Israel».

Erano i capimandamento di quel partito a esercitarsi nelle requisitorie parlamentari contro i sabotaggi della tregua organizzati dai ministri con Uzi e filatteri, non dai macellai che rivendicavano di voler usare i bambini palestinesi «come attrezzi contro Israele».

Erano i giovanotti di quel partito, tra un Pride Judenfrei e un sonnellino sul miliardo di dollari ripulito dall’Unrwa, a spiegare che Hamas, d’accordo, sarà pure un po’ terrorista, ma insomma amministra anche uffici e scuole e ce se deve dialogà. Le scuole, appunto.

Quelle da proteggere se l’entità sionista le bombarda perché c’è il diritto internazionale, signori miei, ma sfuggenti alle sorveglianze giuridiche democratiche in questi dieci mesi di sistematico utilizzo a mo’ di bunker giusto come sfuggivano dieci anni fa alle ricognizioni della futura segretaria.

Chissà se se lo domandano, questi, se una militanza simile, in media, sia più gradita all’israeliano medio o al medio macellaio del 7 ottobre.

Paglia(ccio)rulo

Per chi non lo sapesse Gianfranco Pagliarulo è un 
ex senatore ed ex responsabile della Propaganda di 
Rifondazione Comunista, attualmente presidente 
dell'Anpi. 
Ruolo che fu del compianto Smuraglia, che partigiano lo era stato per davvero e che, alla stessa domanda sull’Ucraina, rispose senza esitazione: e come volete chiamarla, se non Resistenza?
Del resto, Pagliarulo fin dal 2014 si è schierato dalla parte dei repubblichini del Donbass e si è attaccato di continuo a tesi in gran parte antistoriche, cospirazioniste e revisioniste propagandate dalle fonti governative russe e da lui ripetute paro paro (almeno finché non è diventato presidente dell’Anpi, poi s’è dato una calmata).
Esemplari di una cultura politica anacronistica e revanscista ferma all’epoca della Dottrina Breznev, per gente come Pagliarulo l’Ucraina è colpevole, almeno fin dal 2014, di non voler rientrare nella sfera d’influenza di Mosca e di essersi data un governo autonomo, filo-occidentale e filo-atlantista, in poche parole rinnegando il passato e scegliendo il capitalismo.
Per i pagliaruli d’Italia in realtà la differenza non è la fornitura di armi pesanti o leggere, quella è una supercazzola. Ciò che fa la differenza per loro è che gli ucraini “nazisti e gay” non vogliono cedere ai tentativi di Putin di riportarli sulla retta via, e pertanto la loro lotta per resistere all’invasore non è vista come “resistenza” ma come ostinazione a non volersi arrendere, mentre la condotta della Russia viene considerata tutto sommato legittima e proporzionata.
In confronto Lavrov e Medvedev sono più equilibrati.
Nel merito, il contributo della Resistenza alla caduta del nazifascismo fu notevole ma non determinante, perché la sconfitta dell’Asse fu dovuta essenzialmente agli eserciti alleati. I numeri parlano chiaro: secondo i dati della stessa Anpi, su circa 25.000 partigiani i morti furono 6882. I caduti degli eserciti alleati per la liberazione dell’Italia furono 350.000, sepolti in 42 cimiteri sparsi per tutto il Paese.
Secondo gli storici, se i nostri partigiani non avessero ricevuto aiuti dagli Alleati e avessero dovuto fare tutto da soli, contando solo sulle armi residue del nostro esercito sgangherato e su quelle catturate ai tedeschi, sarebbe stata tutta un’altra storia.
La Resistenza italiana ha un valore incommensurabile non dal punto di vista militare ma soprattutto simbolico, di riscatto e redenzione morale di tutto un popolo. Gli italiani erano entrati in guerra per motivi abietti, dopo aver approvato le leggi razziali per compiacere gli alleati nazisti, fecero deportare migliaia di persone nei lager e si resero complici dello sterminio di 6 milioni di ebrei.
Con la lotta partigiana l’Italia rinnegò tutto questo e riabilitò il nostro Paese agli occhi del mondo, in quanto si schierò dalla parte giusta della Storia.
Eh sì, perché nonostante le sciocchezze degli “equidistanti”, esiste una parte giusta e una parte sbagliata. I partigiani per fortuna scelsero la parte giusta.