Vladimir Putin non è un nemico dell’islamismo ma un suo alleato (italiaoggi.it)

di Dario Fertilio

Dittature

La giustificata protesta del governo italiano dopo l’ultima mossa di Mosca (una giornalista della Rai che ha documentato l’ingresso delle forze ucraine in Russia è stata inserita nella lista dei ricercati) non può scalfire l’ideologia putiniana.

Essa si basa sull’intimidazione, e trae slancio dalle debolezze. L’inviata Stefania Battistini è stata richiamata prudenzialmente in patria, ma il risultato è stato una minaccia allargata: rivolta, più che a lei, ai colleghi tentati di seguirne l’esempio. Il che, tradotto nella pratica, significa colpirne uno per educarne cento.

Eppure, non sono trascorsi molti anni da quando i putiniani d’Italia (Salvini e, in modo persino più entusiastico, la Forza Italia di Berlusconi) invocavano una santa alleanza tra Occidente e Cremlino, allo scopo di combattere l’islamismo radicale. Allora, di fronte alle atrocità commesse da Al Qaeda e dall’Isis, si era creato il mito dell’uomo forte, di principi morali e fede cristiana, esempio per gli indecisi europei, inflessibile con i terroristi al punto da promettere di “andarli a scovare anche al gabinetto”.

Erano anni di cecità politica, culminati con la decisione di un club forzista, in via Dante a Milano, di intitolarsi al despota di Mosca. Inesorabile, dopo di allora, la storia ha smentito quelle assurdità: c’è una salda alleanza precisamente fra i due totalitarismi che avrebbero dovuto combattersi. Putin ha stretto un patto proprio con l’Iran, fornendola di tecnologia in cambio di missili e droni da impiegare contro l’Ucraina. In parallelo ha radunato tutte le dittature disponibili, inclusa la pur ingombrante Cina, nello sforzo di opporre un fronte unico al mondo libero.

Oggi, chi allora assecondò quella strategia autolesionistica occidentale ha rinchiuso il suo scheletro nell’armadio. Nel frattempo, ogni volta che i terroristi islamisti presenti sul territorio della Federazione Russa rialzano la testa e compiono stragi – come quella del Crocus City Hall – la propaganda putiniana comincia con l’incolpare la Nato, salvo ammettere a denti stretti la verità, e proporsi di nuovo come baluardo contro l’islamismo.

Anche se il gioco ormai è scoperto. Nel Putin filo islamista qualcosa ricorda l’iniziale simpatia staliniana per l’espansionismo di Hitler – il famoso patto Molotov-Ribbentrop. Il Führer allora era considerato un “rompighiaccio” da Mosca, utile a colpire le democrazie, che alla fine ne sarebbero risultate indebolite e vulnerabili.

L’obiettivo di Putin è simile: stringere alleanze per minacciare l’Occidente su più fronti, paralizzandolo con la nuda ostentazione della forza.

Dal processo a Salvini all’Ilva, la giustizia è sempre più squartata fra forma e sostanza (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola Posta

L’apparato giudiziario italiano fa sempre più fatica ad affrontare le questioni cruciali con chiarezza e senso di responsabilità. Tra Taranto e il processo nei confronti del leader della Lega l’esito possibile sembra essere solo uno: sommo diritto, somma ingiustizia

“Arrendermi? Mai!”. Hanno risposto così ieri Donald Trump e Matteo Salvini. Il primo rispondeva a un tentato attentato al kalashnikov, il secondo a una richiesta della pubblica accusa in processo. Ormai una cosa vale l’altra. Dal governo si accusa la pubblica accusa di voler demolire i confini della patria.

Messi a estremo repentaglio dall’eventualità che 147 migranti soccorsi e arrivati, fra i quali molti minori, inermi, quasi denudati, ed estenuati, dopo otto regolari richieste di assegnazione del porto di sbarco inascoltate, venissero sbarcati prima di essere costretti a 19 giorni di sequestro fermo in mare e al sole di ferragosto.

Questo è così ridicolo da rendere imbarazzante discuterne, al contrario di come hanno fatto per dovere d’ufficio i magistrati di Palermo. I quali non hanno “interpretato” la legge, ma l’hanno applicata, e così facendo hanno tutelato un ideale di umanità e uno dello Stato di diritto.

Così facendo saranno stati anche turbati, senza lasciarsene sequestrare, da una forte preoccupazione. Il processo avrà un esito. Se dovesse contraddire alle radici le richieste dell’accusa, darebbe ragione a un orientamento politico e a una parte ingente dello spirito pubblico (la coincidenza fra la requisitoria di Palermo e i commenti all’assassinio della signora di Viareggio che poi è andata a restituire l’ombrello, così che fosse chiara la normalità della cosa) e rianimerebbe un po’ l’esanime presenza di Salvini, ridotto ad attendente di un generale in licenza premio.

Se il tribunale riconoscerà la fondatezza dell’accusa, il senso di umanità e la fedeltà allo Stato di diritto ne usciranno rafforzati, e Salvini e i suoi alleati, per i quali ormai è solo una ruota di scorta ma in tempi fitti di forature, rincarerebbero i loro lai contro la persecuzione dei poteri forti, all’unisono con Elon Musk.

È una situazione tipica in cui è bene che l’etica dei principii – fare la cosa giusta senza lasciarsi condizionare dalle conseguenze che ne deriveranno – prevalga su un supposto senso di responsabilità. Quest’ultimo ha piuttosto a che fare con l’entità della pena richiesta dalla pubblica accusa, i 6 anni che fanno così impressione da mettere in ombra la sostanza del giudizio, e da far dimenticare che nella lotteria della giustizia 6 anni o multipli cascano capricciosamente sulle spalle di imputati anonimi colpevoli di bagattelle.

Gli anni di condanna sono simbolici nelle sentenze, e diventano effettivi solo se e quando entrano nel calendario tristo della galera. Eventualità che nel nostro caso sembra comunque piuttosto esclusa da una sentenza di primo grado che aspetterà un itinerario interminabile, e da un insabbiamento. Che Salvini vada in galera per il suo tronfio crimine è infinitamente più improbabile di uno sbarco sollecito di naufraghi a Lampedusa.

La giustizia è sempre più squartata fra forma e sostanza, che dovrebbero nella reciproca adesione costituirne la ragion d’essere. A Taranto sono appena stati cancellati il faticosissimo processo sull’Ilva e le pesanti condanne con cui si era concluso. Il sequestro dell’Ilva risale al 2012, il processo cancellato era arrivato solo al primo grado, e il prossimo, quando sarà, ripartirà dall’udienza preliminare.

La giustizia è così invidiosa dell’allungamento della vita media dei suoi imputati da trovare il modo di sopravvivere loro: nessuno andrà mai in galera per l’Ilva e l’ambiente svenduto e le morti per l’aria respirata. Già nella sentenza del 2021 il significato simbolico prevaleva su quello sostanziale fino a sostituirlo del tutto.

Adesso è sfumato, tutti illibati. Ho sui padroni dell’Ilva e sui loro gerarchi minori opinioni contrarie a quelle espresse anche qui, ed ebbi una forte solidarietà con le magistrate e i magistrati che costruirono la reazione della legge, oltre che dei lavoratori e della città, a una dilapidazione di Taranto che si presentava e si presenta ancora come fatale.

Un bravo cronista tarantino, Francesco Casula, ha ricordato la risposta di Franco Sebastio, che era stato a capo della Procura (è morto nel gennaio del 2023): “Ma davvero abbiamo bisogno di una sentenza per sapere che cosa è successo?” E non era certo un’espressione di resa.

Leggeremo le motivazioni della tabula rasa della Corte d’appello jonica, si chiama così, che manda il processo a Potenza. Una, ritenuta delle più probabili, è costituita da un’argomentazione che voglio trattare da profano: poiché i magistrati incaricati del processo vivono anche loro a Taranto, e perfino nei quartieri più colpiti dai veleni dell’acciaieria (e un paio di loro colleghi, sia pur pensionati, hanno voluto anche costituirsi parte civile) ci troviamo in un caso di legittima suspicione: i giudici cioè giudicano di un presunto reato di cui anche loro, come tutta la popolazione di Taranto e dintorni, sono stati e sono vittime.

Dunque non possono essere sereni e obiettivi. (A Potenza si controllerà che i giudici competenti non siano a portata delle polveri?) Non sono all’altezza dei ragionamenti tecnici, né alla bassezza.

Dico che un profano come me, uno qualunque del popolo, si chiede come sarà mai possibile al mondo citare in giudizio i responsabili dei disastri climatici, dal momento che non ci sarà un solo essere animato che non ne sia toccato.

Sommo diritto, somma ingiustizia.

Sfatiamo un mito: il diritto di famiglia non favorisce affatto le donne (ildubbio.news)

di Nunzia Coppola Lodi (avvocata)

La parità dei diritti è ancora lontana e le 
italiane hanno compiti di cura superiori a 
molti altri paesi europei

Ho letto, con molto diletto sul Dubbio, la risposta del prof. Gazzoni all’ingiustificato e duro attacco ricevuto, dopo l’ultima edizione del suo manuale di Diritto Privato, a proposito delle sue notazioni sulla magistratura italiana e ne condivido spirito e grido di dolore; tuttavia, se anche io non ho mal compreso il punto, da avvocato che ha attraversato le tempestose praterie del diritto di famiglia, civile e penale, dissentirei sull’influenza nei relativi provvedimenti della presenza preponderante delle donne.

Ho una esperienza di oltre 40 anni principalmente nella materia, anche per la parte penale, e da un lato ho pagato un altissimo prezzo personale per avere difeso mogli/ compagne di uomini importanti, in ogni caso non ho notato una sensibilità per la situazione delle donne, in favore delle quali la battaglia è, anzi, assai dura e difficile.

In ambito civile, i provvedimenti presuppongono una parità e una libertà di scelta dei partner, siano essi coniugi o compagni di vita, che vedono le donne come nel passato ancorate al carico familiare ma senza le tutele economiche che, se in alcuni casi del passato si erano trasformate in perniciose rendite di posizione, oggi garantirebbero un adeguato mantenimento delle stesse ed in ogni caso dei figli.

In quanto costituzionalmente pari all’uomo e libere nelle scelte, invece, le donne sono invitate a trovarsi un lavoro se non l’hanno o a passare ad un lavoro a tempo pieno, scordando il passato, si suddividono al 50% le spese straordinarie dei figli e si determinano per contributi mensili lontani dal loro pregresso tenore di vita con il padre.

Si è passati così da un estremo all’altro in una situazione sociale che non è poi così cambiata perché non vede affatto la parità dei diritti e dei compiti di cura familiare tanto più che le donne italiane hanno un carico molto maggiore di quello della maggior parte delle europee, dedite alla cura in età giovane dei figli e più avanti degli anziani.

Dunque, se pur “scegliesse” di lavorare la donna deve cercare lavori che le lascino tempo per la cura familiare e quindi i provvedimenti economici dovrebbero tenere conto delle rispettive posizioni dei partner come necessitate da cultura ed assenza di welfare.

Per quanto in aumento, non sono poi molti i padri che sanno conciliare impegno lavorativo e paritario accudimento dei figli, quindi la realtà della maggioranza delle donne è che ricevono assegni per i figli che non tengono conto di tale carico e sono indotte a trovarsi un lavoro, se non l’avevano, o a trovarne uno a tempo pieno se c’era, ma a tempo parziale.

Ma questo porta le donne ancor più in stato di disuguaglianza. Personalmente penso che dovrebbero essere ammessi ed anzi sollecitati accordi per la regolamentazione economica degli effetti della possibile cessazione della vita in comune di due partner, per dare tutela alle diverse scelte della coppia e lavorative e di cura, anche al fine di responsabilizzare ad una nuova cultura della cura familiare.

Questo potrebbe anche contrastare l’inverno demografico che, se non erro, deriva dalla maggiore emancipazione femminile ma anche della precisa certezza delle giovani donne che ogni loro progetto per avere figli comporta che non possano mantenere ed avanzare nel proprio lavoro ed è una salita estrema di difficoltà in uno Stato che non ha il welfare e le tutele di rientro al lavoro di altri stati moderni, in primis la Francia.

La CEDU continua a sottolineare, del resto, come in Italia “le leggi son ma chi pon mano ad esse?” rilevando l’arretramento e la misoginia dei provvedimenti civili e penali che censura e che riguarda, inevitabilmente, tutti gli operatori che vi si sono attivati grazie ai quali le donne ed i loro figli subiscono una vittimizzazione secondaria.

La commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e su ogni forma di violenza di genere, istituita nell’ottobre 2018 dal Senato della Repubblica Italiana per adempiere all’art. 18 della Convenzione di Istanbul e pubblicata nel 2022, è molto documentata a fronte di un lavoro di 4 anni in cui è stato esaminato tra il 2020 ed il 2021 tutto il materiale dei fascicoli “di 1411 procedimenti” giudiziari in materia familiare.

Diventare vittime secondarie di violenza economica deriva anche dal ricevere contributi di mantenimento inadeguati al carico ed alla storia familiare, valutando le situazioni di parità costituzionale sulla carta dei diritti e non su quella della realtà.

La legge Cartabia ed il codice rosso hanno norme in parte tese a superare l’incompetenza degli operatori, ma quella che va cambiata è la visione culturale che CEDU e commissione del Senato riportano alla mancanza di adeguata formazione, che plasma inevitabilmente le sensibilità sul fatto esaminato, da parte della magistratura, degli operatori di pubblica sicurezza e dei Servizi Sociali e, non ultimo, di noi avvocati.

Il PD sbaglia: l’Italia non è ultima per spesa in sanità tra i Paesi Ocse (pagellapolitica.it)

di Carlo Canepa

Sanità

Sia in rapporto al Pil sia per singolo abitante c’è chi spende meno di noi, che siamo invece in fondo agli Stati del G7

Il 4 settembre il Partito Democratico ha scritto sulla sua pagina ufficiale Facebook che «l’Italia è fanalino di coda dei Paesi Ocse per quel che riguarda la spesa sanitaria». «Su tutti i dati il nostro Paese è in fondo alla classifica, sia per quel che riguarda la spesa pro capite che gli investimenti legati al Pil», ha aggiunto il partito guidato da Elly Schlein.

Abbiamo controllato che cosa dicono i numeri e le cose non stanno così.

La spesa in rapporto al Pil

L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) raggruppa i Paesi tra i più sviluppati al mondo, che hanno un’economia di mercato in comune. A oggi 38 Stati fanno parte dell’Ocse, tra cui 22 Paesi dell’Unione europea (con l’Italia) e tutti e sette i Paesi del G7.

I sistemi sanitari di questi Paesi hanno fonti di finanziamento diverse tra loro: da un lato, ci sono Paesi come l’Italia e la Spagna dove l’assistenza sanitaria pubblica è finanziata dalla fiscalità generale, ossia dalle tasse pagate dai cittadini; dall’altro lato, ci sono Paesi come Francia e Germania dove l’assistenza si basa sulle assicurazioni obbligatorie sottoscritte dai cittadini.

Sul database di Ocse sono disponibili i dati aggiornati al 2023 della spesa sanitaria di 18 Stati membri su 38 che fanno parte dell’organizzazione. In questo database la voce “spesa sanitaria pubblica” considera sia quella finanziata con la fiscalità generale sia quella finanziata con le assicurazioni volontarie, ed esclude la spesa privata dei singoli cittadini. Lo scorso anno si stima che la spesa sanitaria pubblica dell’Italia ha raggiunto un valore pari al 6,2 per cento del suo Prodotto interno lordo (Pil).

Sette Paesi sui 18 per cui sono disponibili i dati – che sono comunque ancora provvisori – hanno registrato percentuali più basse: Colombia (5,9 per cento), Cile ed Estonia (5,8 per cento), Irlanda (5,1 per cento), Lituania (4,9 per cento), Lussemburgo (5 per cento) e Ungheria (4,5 per cento). Corea del Sud e Portogallo hanno invece una spesa uguale a quella italiana.

Il nostro Paese non è ultimo in classifica tra i Paesi Ocse nemmeno se si guardano i dati relativi al 2022, che sono disponibili per tutti gli Stati membri dell’organizzazione. Due anni fa la spesa in sanità dell’Italia ha raggiunto un valore pari al 6,7 per cento del Pil, una percentuale inferiore alla media Ocse pari al 7 per cento, ma comunque più alta di quella di 19 Paesi Ocse.

Tra quest’ultimi, ci sono anche dieci Paesi dell’Unione europea: Estonia e Grecia (5,3 per cento), Ungheria (4,9 per cento), Irlanda (4,7 per cento), Lettonia (4,9 per cento), Lituania e Lussemburgo (4,8 per cento), Polonia (4,7 per cento), Portogallo (6,5 per cento), Slovacchia (6,2 per cento). A questi si aggiungono altri tre Paesi Ue che non fanno parte dell’Ocse, ma per cui l’organizzazione mette lo stesso a disposizione le statistiche: Bulgaria (4,9 per cento), Croazia (6,3 per cento) e Romania (4,5 per cento).

Nel suo post sui social network il PD ha citato come fonte la Fondazione Gimbe, un’organizzazione indipendente che periodicamente pubblica rapporti sul sistema sanitario italiano. Il 3 settembre la Fondazione Gimbe ha raccolto in un comunicato stampa alcuni dati aggiornati sulla spesa sanitaria tra i Paesi Ocse, ma non ha scritto che l’Italia è ultima tra questi Paesi per spesa sanitaria.
La fondazione ha sottolineato correttamente che la spesa italiana in rapporto al Pil è la più bassa tra i sette Paesi del G7. Nel 2022 gli Stati Uniti hanno registrato una spesa pari al 13,8 per cento del Pil, la Francia al 10,1 per cento, il Regno Unito al 9,1 per cento e il Giappone al 9,8 per cento. Per la Germania e il Canada sono disponibili i dati del 2023, quando la loro spesa sanitaria è stata rispettivamente pari al 10,1 per cento e al 7,9 per cento del Pil.

La spesa in rapporto alla popolazione

Secondo il PD, l’Italia «è in fondo alla classifica» se si guardano i dati sulla «spesa pro capite» in sanità. Anche in questo caso i numeri dicono che questa affermazione è scorretta.

Nel 2022, ultimo anno per cui abbiamo i dati completi, la spesa sanitaria pubblica in Italia è stata pari a 3.526 dollari per abitante, tenendo conto della diversa parità di potere d’acquisto con gli altri Paesi (in inglese Purchasing power parity, o PPP).

Questo valore non è il più basso tra tutti i Paesi Ocse: hanno infatti una spesa sanitaria pubblica pro capite più bassa dell’Italia il Cile, la Colombia, la Costa Rica, l’Estonia, la Grecia, l’Ungheria, Israele, la Corea del Sud, la Lettonia, la Lituania, il Messico, la Polonia, il Portogallo, la Slovacchia, la Slovenia, la Spagna, la Turchia, la Bulgaria, la Croazia e la Romania.

Anche in questa classifica comunque l’Italia è ultima tra i Paesi del G7, superata tra gli altri da Francia (5.866 dollari), Germania (7.403 dollari) e Regno Unito (4.836 dollari).