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L’immorale dibattito sull’Ucraina, e la resa di fronte ai crimini di Putin (linkiesta.it)

di

La viltà e la ferocia

La Russia lancia migliaia di missili, droni e bombe sui civili ucraini, e i quaquaraquà italiani straparlano che è meglio costringere Kyjiv a difendersi con le braccia legate dietro la schiena

I criminali russi hanno puntato e centrato un ospedale a Kharkiv, subito dopo aver preso di mira e colpito altri obiettivi civili a Odesa. Poi hanno lanciato missili sulle case di Kryvyy Rih e di Dnipro. Morti e feriti, persone normali dilaniate nel sonno.

Ogni giorno, da trentuno mesi consecutivi, la notizia è sempre la stessa: ferocia belluina dei russi, resistenza ammirevole degli ucraini, e chiacchiera vigliacca degli europei.

I nomi delle città a volte cambiano, altre no; a volte le difese aeree funzionano, altre no; l’oscenità dei volenterosi carnefici di Vladimir Putin rimane però sempre uguale, mai adeguatamente riconosciuta in Occidente, come se il popolo russo fosse la vittima innocente della barbarie, una vittima considerata addirittura più meritevole di cura degli ucraini, quando invece è complice e profittatrice del sangue di regime.

Fin dall’inizio dell’invasione, l’Italia ha partecipato alla grande gara di solidarietà nei confronti dell’Ucraina, del resto al governo c’era Mario Draghi e non più il gagà che pochi mesi prima aveva sinistramente fatto sfilare l’Armata Rossa sul territorio italiano, mentre gli italiani erano costretti in casa dal lockdown.

Era la stessa Armata Rossa che da lì a poco avrebbe devastato città, massacrato civili, scavato fosse comuni, approntato gulag del XXI secolo e minacciato il mondo libero. Era la stessa Armata Rossa che aveva sventrato la Siria, piallato la Cecenia, occupato illegalmente la Georgia, la Crimea e il Donbas.

Giuseppe Conte è il punto più infimo della già alquanto bassa scala di moralità pubblica italiana. Il movimento Cinquestelle frequentava i congressi del partito unico di Putin, organizzava viaggi nella Crimea illegalmente occupata dagli imperialisti russi, e alle elezioni del 2018 si presentò agli elettori, che lo premiarono, con un programma di politica estera che sembrava uscito dalle segrete stanze della Lubyanka.

Non a caso poi nacque l’alleanza di governo gialloverde guidata da Conte e con il pioniere padano che si eccita al solo menzionare il nome di Putin come vice. Christopher Hitchens di gente come loro diceva che non vogliono la pace, sono a favore della guerra ma tifano per gli avversari.

Lasciamo stare i saltimbanchi e gli indossatori di magliette putiniane, tanto presto finiranno nell’umido della storia, e concentriamoci sui partiti meno mascariati dalla turpitudine dei loro riferimenti ideali. Fratelli d’Italia e il Partito democratico hanno sostenuto l’Ucraina, con qualche caveat di troppo, ma lo hanno fatto. Solo che hanno cominciato a fare marcia indietro, con dichiarazioni pubbliche fesse e voti parlamentari machiavellici volti a legare le braccia dietro la schiena agli ucraini.

Meloni e i suoi ministri lo fanno un po’ perché si aspettano una vittoria di Donald Trump a novembre in America, e quindi un cambio di rotta verso la resa alla Russia, un po’ perché per tradizione e cultura non sono così distanti dai valori patriottici, nazionalisti e sovranisti dello zar del Cremlino.

Il Partito democratico lo fa per un’altra ragione che nessuno ha ancora capito, fatto sta che lentamente ma indiscutibilmente si è allontanato dalla posizione antifascista dei socialisti europei e dei progressisti di tutto il mondo, a cominciare da Kamala Harris e Keir Starmer.

Trentuno mesi dopo, dunque, la solidarietà italiana è svanita, al momento ancora più a parole che nei fatti, ma le parole non sono affatto innocue, tutt’altro, sono il cacio sui maccheroni della propaganda russa che adesso, grazie alle intemerate irresponsabili dei ministri di destra e alle manovrette dei politicanti da quattro soldi della sinistra, amorevolmente riuniti nell’intergruppo bipartisan degli utili idioti di Putin, alimentano la narrazione della stanchezza della Occidente, della minaccia della terza guerra mondiale, della «pace per il nostro tempo», ovvero consolidano nell’opinione pubblica la capitolazione morale dell’Europa e l’abbandono degli ucraini ai torturatori di Mosca.

Soltanto tre eurodeputati italiani hanno mostrato il calviniano «midollo del leone» tanto caro al padre dell’Europa Altiero Spinelli e, in dissenso dai rispettivi gruppi italiani ma in linea con le più serie famiglie politiche europee, hanno votato senza esitazioni a Strasburgo tutti gli articoli della risoluzione pro Ucraina.

Gli unici tre italiani con il midollo del leone vanno ringraziati, e i loro nomi vanno ricordati come quelli dei tredici professori su milleduecento che rifiutarono di giurare fedeltà al Fascismo. Oggi gli antifascisti italiani al Parlamento europeo sono soltanto Pina Picierno e Elisabetta Gualmini del Pd, e Massimiliano Salini di Forza Italia, a fronte di pusillanimi, mezzi uomini, ominicchi e quaquaraquà.

Li vedo mentre mostrano la faccia contrita e dicono con tono grave che non mi devo permettere perché ovviamente loro combattono Putin più di chiunque altro, anche se non abbastanza da fare qualcosa perché smetta di uccidere gli ucraini e di occupare le loro regioni.

Soltanto la settimana scorsa, la Russia ha lanciato sull’Ucraina trenta missili, quattrocento droni, e più di novecento bombe, e ha ucciso trentuno civili e ferito duecento persone.

Le bombe e le vittime, sarebbero state di più se gli ucraini non fossero riusciti a distruggere due depositi di armamenti in territorio russo, con quel tipo di operazione militare che le anime belle vorrebbero impedire alle forze armate ucraine.

Di questo si tratta, e non d’altro: gli ucraini chiedono di potersi difendere colpendo le basi militari russe da cui partono gli attacchi russi ai civili ucraini, ma la politica italiana alla (quasi) unanimità spiega che non è il caso, meglio che Putin resti libero di bombardare le città e gli ospedali in modo da piegare la schiena degli ucraini, piuttosto che rischiare che gli ucraini depotenzino il complesso militare criminale con cui Putin deliberatamente commette crimini contro l’umanità.

Una logica che si nasconde dietro un pacifismo di facciata (non vogliono la pace, sono favorevoli alla guerra mossa dagli altri) che peraltro è pienamente anticostituzionale. Il sempre citato è mai compreso articolo 11 della Costituzione dice che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», non la guerra e basta.

La guerra che la Costituzione italiana ripudia è la guerra di aggressione russa, volta a offendere la libertà ucraina ed europea, non quella difensiva degli ucraini. Del resto non può che essere così, visto che la nostra Costituzione nasce da una guerra di resistenza, sostenuta dagli alleati democratici, contro il nazifascismo che aveva occupato il nostro paese e offeso militarmente le nostre libertá.

La cosa drammatica è che siamo scivolati verso l’Ungheria di Viktor Orbán, e forse la situazione è ancora peggiore perché probabilmente Budapest un’opposizione alla russificazione della società esiste. Da noi no, anche l’opposizione ha ceduto all’imperialismo russo.

Che fine ha fatto il Piano Mattei per l’Africa: soldi, progetti, segreti (lespresso.it)

di Carlo Tecce

Il dossier

Il progetto di Giorgia Meloni, che mira soprattutto a recuperare risorse energetiche, è l’ultima carta di politica estera del governo. Mentre in Europa i rapporti con Francia e Germania si logorano, si cerca di far pesare il ruolo di Roma nei paesi africani.

Ecco come.

Non è dirimente, e forse neanche interessante, certamente non è utilissimo, stabilire adesso se il Piano Mattei per l’Africa di Giorgia Meloni è ambizioso o velleitario. Questi sono aggettivi deformanti e probabilmente catene del pensiero.

Come i pregiudizi. Per descrivere il Piano Mattei, a due anni dalla prima e solenne citazione di Meloni alle Camere durante il discorso di insediamento del suo governo, a una manciata di mesi dalla sfarzosa parata di gennaio a Palazzo Madama a favore di telecamere, fotografi, spicciola propaganda, è necessario vivisezionare i progetti pilota che hanno un sapore di concretezza e riguardano nove Stati africani.

Quattro sono nord-sahariani e perciò affacciano sul Mediterraneo, sono Stati dirimpettai che sono legati a Roma da relazioni frequenti, a volte turbolente, altre tiepide, e si tratta di Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto. Cinque sono sub-sahariani e perciò sono al centro, non soltanto geografico, di dispute mondiali che annoverano russi, turchi, cinesi, e si tratta di Kenya, Etiopia, Mozambico, Costa d’Avorio, Repubblica del Congo.

I documenti parlamentari specificano che fra i progetti pilota «alcuni sono in fase di attivazione e alcuni sono in corso d’opera». Questo ci permette di fare una digressione numerica: il denaro, la cosiddetta dotazione finanziaria. A rigor di annunci, grossomodo, per quanto valgono queste cifre, fra crediti, garanzie, donazioni, il Piano Mattei ha a disposizione 5,5 miliardi di euro per un arco di tempo quadriennale poiché la sua durata è quadriennale seppur rinnovabile quasi in automatico. «Gli esborsi totali per quest’anno dipendono dall’avanzamento dei lavori, posso dire che siamo a circa un miliardo», precisa Edmondo Cirielli, il viceministro che agli Esteri ha la delega alla Cooperazione internazionale.

I 5,5 miliardi di euro assegnati al Piano Mattei provengono, sempre per i documenti parlamentari e governativi, per circa 3 miliardi dal Fondo italiano per il Clima (ministero Ambiente) e 2,5 miliardi dal Fondo per la Cooperazione internazionale (ministero Esteri). In larga parte, siccome la cooperazione internazionale non è una invenzione né una attività inedita, il denaro era già esistente ma la sua destinazione appare nuova.

Per un motivo evidente: la cabina di regia politica e la struttura di missione tecnica sono ubicate a Palazzo Chigi, non al ministero degli Esteri, e sono gestite dal presidente del Consiglio e dal diplomatico Fabrizio Saggio. Più che dal ministro forzista Antonio Tajani, che ovviamente ha la sua porzione, la Farnesina operativamente è rappresentata da Cirielli, influente dirigente di Fratelli d’Italia. Tornando ai documenti parlamentari e governativi, scremati i 5,5 miliardi di euro che appartengono più al futuro che al presente, il Piano Mattei può attingere da quattro voci di spesa: 200 milioni di euro per le imprese che investono in Africa; 500 milioni di euro tramite Cassa Depositi e Prestiti per finanziamenti coerenti col Piano Mattei, puntellati da una garanzia statale di 400 milioni (80 per cento); il già citato Fondo Italiano per il Clima che ha risorse per 840 milioni annui (2022-26); 50 milioni per le acquisizioni di capitale societario.

Il Piano Mattei prevede 17 settori di collaborazione con i Paesi africani (a gennaio all’evento di Roma erano presenti in 46 su 54), per esempio formazione, agricoltura, istruzione, sanità, turismo, economia, ambiente, energia, migrazioni. Analizziamo la fine di quest’elenco, che è l’inizio del Piano Mattei: energia e migrazioni collimano con i bisogni italiani, senza star qui a pensare davvero di salvare l’Africa o di scacciare Russia e Cina con le teorie attorno ai teorici 5,5 miliardi di euro.

A proposito di Russia. Obbligato dalla guerra in Ucraina a interrompere i contratti con Mosca per le importazioni di metano e petrolio, il governo di Mario Draghi si rivolse agli amici del continente africano. Amici non sempre affidabili. Il governo Meloni ha proseguito in questa direzione allargando la platea di amici e il ventaglio di possibilità con la promessa, in ossequio allo stile di Enrico Mattei fondatore di Eni, di non avere mai un atteggiamento «predatorio», ma di creare un interscambio con reciproci vantaggi. Almeno queste sono le premesse. Vediamo come si tramutano in atti reali.

La Costa d’Avorio quest’anno deve, si legge nei documenti parlamentari e governativi, «diventare prioritaria per la cooperazione italiana allo sviluppo». Lo merita perché è ivoriana la prima nazionalità dei migranti irregolari che sbarcano in Italia. C’è l’urgenza di interloquire col governo di Abidjan. E difatti ci sono progetti pilota per bonificare l’acqua, costruire le scuole, sperimentare la telemedicina, attribuire le borse di studio.

Assieme a Etiopia e Libano, la Costa d’Avorio è beneficiaria di quote per lavoro subordinato fissate dal decreto Flussi per i corridoi lavorativi. A oggi le quote sono irrisorie (300 persone), ma il protocollo d’intesa, firmato con la Comunità di Sant’Egidio, è un metodo che andrebbe diffuso massicciamente. La Costa d’Avorio da un anno è già una fonte di energia, di petrolio e di metano, perché Eni ha avviato la produzione da Baleine, giacimento in mare di recente scoperta.

Per le esigenze energetiche italiane, il posto di Mosca l’ha preso il governo di Algeri (che ha costanti rapporti proprio con Mosca, anche di natura militare). La pace sociale in Algeria poggia sulla ricchezza del sottosuolo, peraltro non sfruttato appieno. Già due anni fa, dopo l’invasione ordinata da Vladimir Putin in Ucraina, l’Algeria ha scalato la classifica e si è affermata prima fornitrice di metano per l’Italia coprendo il 34 per cento delle importazioni.

Lo scorso anno ha raggiunto il 37 per cento, saturando i tubi del gasdotto Transmed che arriva a Mazara del Vallo passando per la Tunisia. L’attenzione degli italiani si è spostata su eolico e solare, ma il processo è assai lento. Oltre agli accordi commerciali ampliati e rinsaldati e al fascino che l’industria bellica italiana trasmette a chiunque e non fa eccezione il governo algerino, il progetto pilota sostenuto dal Piano Mattei è un progetto (non pilota) già esistente: si chiama “agricoltura desertica” e lo conduce l’italiana Bonifiche Ferraresi, si concentra a Sud-Est del Paese, e mira a introdurre la coltivazione di grano, cereali, semi per oli e, a regime, pure olive e frutta.

«Una quota del 30 per cento della produzione sarà riservata all’Italia», questa clausola, riportata nelle schede ufficiali, ha ferito il patriottismo di quei politici che vorrebbero nutrirsi esclusivamente con frutta e olive maturate in Italia. Per non vincolarsi al governo di Algeri, per non avere un unico sbocco energetico col rischio di non averne uno, Roma ha intensificato la presenza in Mozambico e Repubblica del Congo, un anno fa mete di un viaggio istituzionale di Meloni.

Il Mozambico ha lo status della Costa d’Avorio, «è prioritario per la cooperazione italiana allo sviluppo». Questo si traduce in un contributo complessivo di 200 milioni, di cui 95 a credito (prestiti), 105 a dono. Non uno sforzo immane per le casse di Roma. L’abbondanza di metano ha catturato l’attenzione delle multinazionali del settore, ma il Mozambico, in preda al terrorismo in diverse aree, rimane fra i più poveri e agitati del continente.

Il governo Meloni ha un patto triennale con la Repubblica del Congo per trasferire in Italia, in forma liquefatta, un massimo annuo di 4,5 miliardi di metri cubi di gas. Il fabbisogno italiano oscilla dai 76 miliardi di metri cubi (2021) ai 61,5 (2023). Il Piano Mattei ha elaborato per il Congo «azioni complementari» al programma Hinda del gruppo Eni che «ha già visto la costruzione/riabilitazione di 31 pozzi, di cui 27 alimentati da pannelli fotovoltaici, utili a 25 mila abitanti di 18 villaggi».

Il governo Meloni ha rimosso le ultime precauzioni diplomatiche con l’Egitto e, mentre in Italia si celebra il processo per scoprire la verità sull’uccisione di Giulio Regeni avvenuta nella capitale egiziana, si replica il modello Algeria. Bonifiche Ferraresi è impegnata con i terreni più aspri per allestire una filiera agricola, il gruppo Eni estrae metano dal giacimento in mare di Zohr.

Invece in Kenya l’obiettivo italiano sono i biocarburanti «basati su olio vegetale a partire da materie prime coltivate su terreni degradati, inquinati o abbandonati, da colture di secondo raccolto e valorizzando rifiuti e scarti». Qui il Piano Mattei vuole coinvolgere 400 mila agricoltori entro il 2027 e recuperare 400 mila ettari in disuso. Il tema con la Tunisia sono le partenze dei migranti con i barconi. Per raddrizzare l’economia tunisina non basta l’Italia, e dunque Meloni s’è fatta accompagnare da Ursula von der Leyen.

Il governo di Roma supporta le linee di credito per le imprese e ha elargito 50 milioni di euro per il bilancio statale. Il Piano Mattei è rivolto a una interconnessione elettrica sottomarina (Elmed), realizzata dall’italiana Terna e la tunisina Steg. Per l’Etiopia c’è un sacrificio finanziario più consistente per recuperare spazio su altri contendenti non europei: 300 milioni, di cui 140 in prestito, 160 a dono. Al Marocco, per chiudere l’elenco, non servono soldi, ma alleati in Europa.

Perché il Piano Mattei ha debuttato con questi nove Paesi lo spiega Cirielli: «C’era già un dialogo solido e paritario con la presidente Meloni e dal primo anno di governo erano in campo interventi di cooperazione inquadrabili nel Piano Mattei». Il fattore energetico è fondamentale, ma per il viceministro non è lo spirito del Piano Mattei: «Noi abbiamo già accordi in tal senso con molti di questi Paesi.

Però ci sembra giusto non prendere soltanto idrocarburi in cambio di denaro, vogliamo fare di più. Riteniamo che aiutare lo sviluppo economico e sociale di queste nazioni sia moralmente ed eticamente doveroso e anche utile a rafforzare i nostri rapporti. Oltre al gruppo Eni e Bonifiche Ferraresi, vorremmo coinvolgere ulteriormente Snam e portare Enel e Ferrovie. Questo vale anche per le aziende che operano nella sanità e nell’istruzione».

Riposta l’intenzione, quella sì velleitaria e non ambiziosa, di trascinare francesi e tedeschi su posizioni italiane per l’Africa, ci si concentra su energia, migranti e commercio in senso largo. Con mezza Europa al governo diffidente e l’altra di estrema destra e in attesa delle elezioni americane, il Piano Mattei è uno sbocco essenziale per la politica estera di Meloni. Al punto che Cirielli, politico moderato, fra il serio e il faceto, dichiara sonante: «Il Piano Mattei è la più importante iniziativa diplomatica dell’Italia negli ultimi trent’anni».

Servizio civile formato nostalgia: “Nei campi per servire la Patria” (lastampa.it)

di Giovanni De Luna

A noi

Tra i vari compiti che potranno assolvere i giovani che sceglieranno di fare il servizio civile in agricoltura figurano, oltre ad attività di assistenza ai disabili e ai “fragili” e servizi di tipo educativo per bambini o ragazzi, anche «iniziative di conoscenza, promozione e tutela dei prodotti agricoli e alimentari del made in Italy» e la trasmissione di competenze «per prevenire e contrastare i disturbi legati all’alimentazione o per ridurre lo spreco alimentare e valorizzare l’economia circolare».

È un modo come un altro per ribadire quello che per gli uomini e le donne di Fratelli d’Italia sta diventando la loro vera ossessione sovranista: guardare al made in Italy soprattutto dal punto di vista commerciale e valutarne gli eventuali benefici solo in termine dei profitti che se ne possono trarre.

IL PROGETTO

Secondo il ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, Francesco Lollobrigida (affiancato nella sua ultima performance, al G7 dei giovani, dal Ministro delle Politiche giovanili, Andrea Abodi) in questo modo i mille volontari (questo è il numero massimo previsto dal progetto) avranno la possibilità di «servire la Patria con un’attività di valore agricolo».

Sulla bocca di Lollobrigida questo accostamento tra la patria e l’agricoltura evoca immagini non proprio edificanti: Mussolini che nell’Agro pontino è impegnato nella trebbiatura, a torso nudo e con il consueto cipiglio; la “battaglia del grano”, che sprofondò il mondo rurale italiano e il lavoro nei campi in una dimensione epica («È l’aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende») al cui interno anche l’autosufficienza alimentare diventava un obbiettivo bellico; le iniziative legate alle bonifiche che davano l’idea di un territorio domato dal regime, di una natura imbrigliata, sconfitta, per celebrare la grandezza del fascismo; gli ammassi obbligatori con cui si tentò invano di combattere le speculazioni di chi, durante la guerra, “faceva la borsa nera”.

Niente paura però: nel progetto di Lollobrigida non ci sono riferimenti a un’agricoltura vincolistica. Il servizio civile agricolo non sembra l’anticamera della militarizzazione del settore.

E il riferimento alla Patria vede infrangersi ogni riferimento malizioso al retroterra ideologico di Lollobrigida sugli scogli insormontabili delle leggi di mercato

(Mussolini e la trebbiatura)

Tragedie e verità (amare) (corriere.it)

di Gian Antonio Stella

L’ultima alluvione

Ma se lo meritano, gli emiliani e i romagnoli investiti da una seconda alluvione in poco più di un anno, negli stessi identici posti, un diluvio supplementare di accuse reciproche sulle responsabilità di quanto sta accadendo?

Manco il tempo di accendere le pompe idrovore per salvare quel che si può nelle città e contrade invase dalle acque ed è partito lo scaricabarile. Di qua la destra di governo contro le amministrazioni locali di sinistra ree, secondo il ministro per la protezione civile Nello Musumeci, d’aver sprecato «in questo decennio 595 milioni avuti dai governi di Roma per i territori più vulnerabili».

Di là l’ex governatore Stefano Bonaccini («Ma se da un anno e mezzo è tutto in mano al commissario scelto da loro!») e la neo-presidente regionale Irene Priolo, furente contro lo «sciacallaggio» di chi strilla in momenti così dopo aver «lasciato soli i comuni sotto organico» ad affrontare tutti i nodi delle emergenze ambientali.

Per non dire dei tafferugli sui ritardi negli indennizzi che Giorgia Meloni aveva promesso celeri e «al 100%» e che si sono rivelati invece farraginosi e tirchi al punto che per certi danni chi aveva chiesto 30 mila euro ne avrebbe in un caso ricevuti 13,83. Polemiche destinate a incendiare ancor più la campagna elettorale.

E che rischiano di aggiunger confusione sul tema di fondo: ancora una volta l’Italia, quale che sia il governo, appare impreparata e colta di sorpresa davanti a catastrofi naturali destinate col cambiamento climatico ad aggravarsi. S ono passati dieci anni da quel 2014 in cui l’allora ministro dell’ambiente Gian Luca Galletti spiegò in Parlamento che occorrevano almeno 14 miliardi di euro per «la prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico e l’adattamento al cambiamento climatico».

Eppure solo pochi mesi fa, dopo sei governi e quattro anni spesi solo per la Valutazione ambientale strategica, il ministro Gilberto Pichetto Fratin ha potuto annunciare il varo del «Pnacc», l’agognato Piano nazionale di adattamento al cambiamento climatico fornito di 361 disposizioni per contenere i disastri ambientali ma, ahinoi, del tutto squattrinato: «Purtroppo, per questo obiettivo essenziale, non è stato stanziato un euro. Zero», spiega Stefano Ciafani, presidente di Legambiente.

«Non è che non ci sia un solo euro sul contrasto al cambiamento climatico», precisa l’ex ministro Enrico Giovannini, «Ma tutto è disorganico, approssimato, senza il filo conduttore». Peggio: mai come in questo caso ogni ritardo pesa di più sui ritardi successivi, finendo per moltiplicare a dismisura i costi di interventi indispensabili. Su tutti la «dislocazione», cioè il trasferimento altrove, di stabilimenti, edifici pubblici, scuole, case private e così via dichiarati da tempo ad alto o altissimo rischio idrogeologico.

Eppure molto si potrebbe fare. L’ha dimostrato nella scorsa primavera il Veneto, colpito a Vicenza da un diluvio (400 millimetri d’acqua in poche ore) non così diverso da quello che aveva devastato la città nel 2010. Stavolta però senza danni grazie ai lavori su 23 bacini di laminazione in grado di contenere la piena.

Un successo che spinse Luca Zaia a dire a Marco Cremonesi: «È ora di far partire il Piano Marshall contro le alluvioni. Meglio spendere un miliardo per la prevenzione piuttosto che due, o chissà quanti, per riparare i danni dopo». Parole sante. Ma difficili da reggere alle gomitate di una lotta politica troppo condizionata dagli interessi elettorali della settimana. Un grosso guaio per un paese come il nostro esposto ai capricci di 7.496 corsi d’acqua praticamente tutti, Po compreso (basti ricordare l’apocalisse del 1951), a carattere a volte torrentizio.

Un dato dice tutto: perfino Milano che si picca di essere la capitale economica, finanziaria e culturale, come spiega il saggio in uscita per Polistampa La nuova civiltà dell’acqua di Erasmo D’Angelis e Mauro Grassi, ha contribuito in modo pesante all’errore di tombare sotto il cemento, in tutta Italia, circa 20.000 chilometri d’acqua: «Sotto il manto stradale milanese c’è un groviglio idrico unico al mondo. Un tesoro d’acqua che non ha paragoni e che la fa come galleggiare sul mar delle acque dolci avendo nelle sue viscere la bellezza di 370 chilometri di corsi d’acqua naturali e canali artificiali, con 170 chilometri di corsi d’acqua minori».

Tra i quali il Seveso che dal 1976 al 2023 è esondato 120 volte. Più l’ultima, due settimane fa.

La stessa Giorgia Meloni, del resto, dopo l’alluvione in Romagna del maggio 2023, spiegò di esserne consapevole: «Mettere in sicurezza l’Italia è una sfida epocale. Stiamo purtroppo scontando decenni di scelte mancate e di ritardi e l’idea, errata, che la cura del territorio non fosse un investimento strategico. Bisogna cambiare paradigma».

Parole d’oro. Alle prese con la realtà quotidiana dei conti, la stessa presidente del consiglio decisa a «fare la storia» sembra tuttavia avviata nel percorso impantanato seguito, di rinvio in rinvio, dai suoi predecessori meno virtuosi. Attaccati sempre, per scaramanzia, al cornetto portafortuna di corallo …