Se l’insulto arriva da gente di «parola» (corriere.it)

di Aldo Grasso

Padiglione Italia

L’odio Gli attacchi scomposti e livorosi di coloro che si credono «scrittori»

Cecilia Parodi è indagata per «istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale» (più che insulti le sue sono aberrazioni) su denuncia della senatrice Liliana Segre, così come il filorusso Nicolai Lilin, sodale di Michele Santoro, ha attaccato duramente due bravi giornalisti della Rai, Stefania Battistini e Simone Traini, con avvertimenti ferali: «Sappiate che vi siete scavati la fossa da soli».

Cosa hanno in comune Parodi e Lilin? Hanno scritto libri (da «Educazione siberiana» di Lilin è stato tratto un film), hanno dimestichezza e conoscenza del peso delle parole, hanno usato espressioni con gratuita cattiveria e irreparabile serietà.

A prima vista, Parodi e Lilin sono aggressivi e turpiloquenti ma non sembrano appartenere alla schiera degli squadristi da tastiera, dei persecutori anonimi: mentecatti che sfogano sulla rete la loro frustrazione e grettezza e offendono perché feriti dalla bravura e dalla felicità altrui.

Gli insulti rappresentano un fenomeno deplorevole e maleodorante, ma sono convinto che i peggiori siano proprio quelli di coloro che si credono «scrittori»: intrisi di odio nutrito dalla loro immaginazione e dal loro ego, vengono scelti con insospettabile volgarità e pronunciati con cognizione di causa.

Come sostiene Leonardo Sciascia, si formano «nell’oscuro mondo dell’imbecillità e del fanatismo».

Il disimpegno del governo Meloni sull’Ucraina è proprio ciò che spera Putin (linkiesta.it)

di

Urbi et Orbán

Tajani e Crosetto (e quindi anche la premier) non pensano che l’esercito ucraino possa respingere l’aggressore, ostacolano la capacità militare del paese che si difende da Mosca e, a questo punto, si dimostrano più vicini a Budapest che a Kyjiv

«Non vogliamo altre armi in Ucraina, non vogliamo altri morti, non vogliamo un’escalation della guerra, non vogliamo un’escalation della crisi in Medio Oriente. Oggi continuiamo ad adottare una posizione pacifica e di buon senso». Sembra Antonio Tajani, invece è il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjártó.

Il cerchio si chiude: toni a parte, sulla situazione in Ucraina l’Italia ha le stessa posizione di Budapest. Cioè contraria a quella dell’Alto Commissario europeo Josep Borrell che aveva raccolto il grido d’aiuto del ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba che è tornato a chiedere armi da poter utilizzare sul suolo russo.

Borrell ha una posizione chiara: «Le armi che abbiamo dato all’Ucraina devono essere pienamente utilizzabili e le restrizioni devono essere rimosse per permettere agli ucraini di prendere di mira i luoghi da cui partono gli attacchi russi. Altrimenti le armi sono inutili».

È la linea di Kuleba che giustamente ha fatto rilevare che «la sicurezza a lungo termine per l’Europa inizia con decisioni coraggiose a breve termine per l’Ucraina». E già, con l’Ucraina è in gioco l’avvenire dell’Europa.

Tajani non lo capisce o fa finta di non capirlo. Il ministro più pigro della storia diplomatica italiana ha ribadito il no del governo di Roma, «le nostre armi solo a uso difensivo, gli altri Paesi decidano come vogliono». E poi dicono di volere una politica estera e di Difesa comune. Qui sembra Corrado Guzzanti quando sintetizzava la filosofia del Polo delle libertà, «facciamo un po’ come c. ci pare».

C’è veramente da restare allibiti davanti a questo mix di falsità e inadeguatezza. Soprattutto perché la situazione sul terreno sta conoscendo una svolta pericolosissima con gli attacchi massicci dell’Armata di Putin su tutto il territorio ucraino, a partire da Kyjiv.

Eppure è proprio grazie alla possibilità di usare le armi per colpire le basi russe che l’Ucraina è tuttora in grado di restare in campo. Se le togli questa chance, la battaglia è impari. Che è esattamente quello che vuole il dittatore di Mosca: fiaccare l’avversario per giungere nell’inverno inoltrato a una farsesca trattativa di pace con un’Ucraina in ginocchio e dissanguata.

Il disimpegno di alcuni Paesi è in atto. L’allarme lo ha dato coraggiosamente il ministro degli Esteri lituano. Altro che Tajani. «Da giugno l’Ucraina non riceve munizioni, i Patriots promessi non sono stati ancora consegnati. Allora io mi domando: non siamo anche noi parte del problema?», si è chiesto Gabrielius Landsbergis.

Che ha rincarato la dose: «Sappiamo che alcuni aiuti promessi nel 2023 saranno consegnati solo nel 2027, ma intanto i titoli di giornale sono usciti: creiamo una narrazione per dire ai nostri cittadini che combattiamo per il bene, ma poi quando si tratta di andare al sodo le cose cambiano. E Putin invece ha partner affidabili, come la Corea e l’Iran».

Al crudele piano di Putin, l’Italia sta dunque dando man forte, contraddicendo la posizione filo-Ucraina seguita dall’Occidente libero e democratico. Tajani, Guido Crosetto e Giorgia Meloni si sono evidentemente convinti dell’ineluttabilità della sconfitta del popolo ucraino e del suo leader Volodymir Zelensky e, con il cinismo ereditato dai tempi in cui ci si voleva sedere al tavolo dei vincitori in cambio di alcune migliaia di morti, si appresta a pugnalare l’Ucraina pur senza dirlo apertamente, ma semplicemente ostacolando la sua capacità militare.

Siamo dunque a uno snodo cruciale, forse decisivo, nel quale la Farnesina sta di fatto aprendo i suoi uffici sulla riva del Danubio, vicino a quelli di Viktor Orbán, in attesa di srotolare i tappeti sulla famosa Arbat, la strada che porta alla Piazza Rossa. E nessuno, o quasi, da noi apre bocca per opporsi a questa deriva.

Nell’inquietante silenzio di Elly Schlein e di tutto il gruppo dirigente ancora al mare risaltano le isolate voci dei soliti dem coerenti, Pina Picierno, Elisabetta Gualmini, Filippo Sensi, forse si aggiungerà qualcun altro: troppo poco.

La realtà è che le opposizioni perdono tempo a litigare su Matteo Renzi o Andrea Orlando, mentre Kyjiv è più sola.

Il ricatto di Piantedosi alle Ong, costrette a scegliere tra soccorrere i migranti e rischiare la confisca (unita.it)

di Angela Nocioni

Terzo fermo per la nave

Ordinato il terzo fermo per la Geo Barents dopo cinque salvataggi. Ong costrette a scegliere tra soccorrere in tempo e rischiare la confisca

(Foto di Msf)

La connivenza delle autorità italiane con i miliziani libici è tale che Roma, per poter tener lontane dal Mediterraneo centrale le navi di soccorso e lasciare senza testimoni le scorribande libiche sulle motovedette fornite dall’Italia, ha bloccato per l’ennesima volta in porto una nave di soccorso accusandola di non aver rispettato durante un salvataggio le norme – contrarie al diritto internazionale – del decreto Piantedosi. 

E’ successo alla Geo Barents, di Medici senza frontiere. Accusata di non aver informato tempestivamente il Centro di comando delle capitanerie di porto di Roma durante la terza delle cinque operazioni di salvataggio fatte il 23 agosto.

E’ per questa nave il terzo fermo. Ed è la ventitreesima volta che una nave di salvataggio viene bloccata dopo un soccorso attraverso l’applicazione del decreto Piantedosi. L’imputazione è anche stavolta spudorata: aver messo in pericolo la vita dei naufraghi.

La Geo Barents ha salvato 191 naufraghi il 23 agosto, 191 persone che ora sono vive soltanto perché quell’equipaggio le ha prese a bordo prima che la banda di assassini della Guardia costiera libica le catturasse in mezzo al mare e le portasse nei centri di detenzione dai quali si esce soltanto pagando i miliziani se si sopravvive a stupri quotidiani, torture e violenze descritte in numerosi report dell’Onu e da chiunque sia uscito vivo da quelle celle.

E l’Italia lo accusa di aver messo a rischio la vita delle persone che ha salvato. E gli blocca la nave per due mesi, oltre alla multa, così da impedire alla Geo Barents di fare missioni di salvataggio per almeno due mesi.

Msf denuncia che l’accusa è costruita sulle informazioni fornite dalla Guardia costiera libica, cioè da una banda di miliziani assassini che vivono del traffico di migranti e dei nostri soldi. Ma intanto si ritrova la nave bloccata in porto. 

“Nel cuore della notte – racconta Riccardo Gatti, responsabile del gruppo dei soccorritori – abbiamo visto persone che saltavano da una barca in vetroresina, che cadevano o venivano spinte in acqua. Non avevamo altra scelta se non quella di tirare fuori dall’acqua le persone il più velocemente possibile. C’era un pericolo imminente che annegassero o si perdessero nel buio della notte”. Dice Juan Matias Gil, capomissione di Medici senza frontiere: “Le autorità ci costringono a scegliere tra il salvataggio delle persone in mare e la prosecuzione delle attività. Ma la salvaguardia della vita umana è al centro della missione di Msf. Contesteremo questa detenzione illegittima seguendo le opportune vie legali. Siamo stati sanzionati per aver semplicemente adempiuto al nostro dovere legale di salvare vite umane.  La Guardia costiera libica, finanziata dall’Ue e considerata un attore affidabile dall’Italia, è stata accusata dalle Nazioni Unite di complicità in gravi violazioni dei diritti umani in Libia. Parliamo di crimini contro l’umanità, di collusione con i trafficanti, nonché di essere responsabile di violenti respingimenti in mare”.

Quel che la flotta civile delle ong che pattugliano il Mediterraneo non dice quasi mai esplicitamente – perché il ricatto del decreto Piantedosi funziona – è che per tentare di evitare il fermo, la multa e, soprattutto, la confisca della nave che può scattare dopo alcuni fermi, spesso i responsabili delle navi di soccorso in mare aspettano il via libera al soccorso da parte del Mrcc di Roma anche quando il via libera non arriva subito.

E quasi mai arriva subito. In mare il tempo è prezioso, non si deve aspettare nemmeno un secondo a lanciare i gommoni di salvataggio quando si è avvistata una barca di naufraghi.

E invece, drammaticamente e inevitabilmente, spesso si aspetta. Non lo si dice volentieri, ma si aspetta. Per non farsi sequestrare la nave. Per evitare la confisca. Per scongiurare la possibilità che l’armatore, quando c’è un armatore, possa decidere di rescindere il contratto di affitto del mezzo. E perché una nave di soccorso bloccata in porto è una missione di salvataggio di meno, molti morti in più.

Morti che non contano. Persone che finiscono in fondo al mar Mediterraneo e di cui nessuno si occupa perché sono persone di cui non importa nulla a nessuno.

Otto anni di colonia penale al giornalista russo Mikhailov (ildubbio.news)

di Alessandro Fioroni

Caporedattore di un giornale siberiano, aveva 
denunciato i massacri di civili ucraini a Bucha 

Per i giudici avrebbe violato la legge contro le “fake news”

La macchina della repressione, della censura e dell’arbitrio giudiziario non si ferma un attimo nella Russia di Vladimir Putin, impantanata nella guerra in Ucraina che è anche un “conflitto interno” contro qualsiasi voce osi criticare la ormai ex “operazione speciale”.

A farne le spese è chiaramente la libera informazione come dimostra il caso di Sergei Mikhailov, un giornalista siberiano condannato ieri a otto anni di carcere perché, secondo la classica accusa, «aveva diffuso intenzionalmente false informazioni sull’esercito russo».

I pubblici ministeri di Gorno-Altaysk, una città nella regione meridionale dell’Altaj che si trova ai piedi dell’omonima catena montuosa, hanno sostenuto che il 48enne sarebbe stato spinto a scrivere articoli contro l’invasione dell’Ucraina dal suo da «odio politico».

Il tribunale ha anche imposto un divieto di quattro anni sulle attività giornalistiche ed editoriali di Mikhailov.

Ecco i fatti: il giornalista ed editore di Listok, era stato arrestato nel 2022 vicino a Mosca per aver pubblicato sul canale Telegram e sul sito web del suo giornale online, notizie sulla strage di civili a Bucha, a nord-ovest della capitale ucraina Kiev, e molte altre informazioni sui bombardamenti e le uccisioni nella città sud-orientale di Mariupol. Eventi che in entrambe le città ucraine hanno rappresentato alcuni dei punti piu tragici dell’invasione russa.

Il giornalista ha negato qualsiasi illecito e la sua difesa dovrebbe far conoscere il suo modo di procedere la prossima settimana. Al momento Mikhailov continua a sostenere la linea dei suoi reportage nei quali ha sempre denunciato le politiche del Cremlino, l’invio di truppe in Ucraina e il bombardamento delle città.

In particolare il giornalista ha lanciato diverse bordate contro la propaganda russa, che con la sua narrativa sulla leadership di Kiev, definita fascista, ha «creato un intero universo virtuale nello spazio dell’informazione, e questa nebbia è diventata sempre più forte».

Il lavoro rivendicato dal cronista è stato quello di diradare questa nebbia in modo che i «lettori non fossero sedotti dalle menzogne, in modo che non prendessero parte a conflitti armati, non diventassero assassini e vittime e in modo che non danneggiassero il fraterno popolo ucraino».

Vladimir Putin ha rafforzato la morsa del regime sulla libertà dei media e sulla libertà di espressione negli ultimi dieci anni, la repressione del dissenso si è quindi ulteriormente intensificata drammaticamente dall’inizio della guerra.

Tre mesi dopo l’invasione, il Cremlino ha ampliato le leggi contro i cosiddetti «agenti stranieri» , includendo nella black list organizzazioni senza scopo di lucro, media indipendenti, giornalisti e attivisti.

In questo modo le organizzazioni che ricevevano qualsiasi sostegno dall’estero, comprese le donazioni o altri finanziamenti, potevano essere equiparate a covi di spie anti russe.

Nel 2023, Putin ha poi varato leggi sulla censura di guerra che criminalizzano chiunque possa essere sospettato di screditare le forze armate russe o di condividere informazioni sulla loro condotta che non aderiscono alla linea del governo.

Coloro che finiscono nei meccanismi kafkiani delle norme sulla censura rischiano fino a 15 anni di carcere, spesso da scontare nelle terribili colonie penali a nord-est del Paese.

La censura di Stato ha così portato alla chiusura di diversi media indipendenti e alla persecuzione di giornalisti di spicco, centinaia di reporter sono inoltre costretti a fuggire in esilio per poter continuare il proprio lavoro di informazione.

Altri sono rimasti in Russia a “combattere” ma, come dimostra il caso Mikhailov, hanno dovuto pagare un caro prezzo. Secondo il gruppo per i diritti umani OVD-Info, più di mille persone si stanno difendendo in procedimenti penali avviati a causa delle loro critiche alla guerra in Ucraina.

Secondo le stime di Amnesty International, nel 2023 almeno 21.000 persone sono state prese di mira dalle leggi russe utilizzate per reprimere ad arti chiunque manifesti un pensiero contro la guerra in Ucraina.

Le scuse di Zuckerberg (butac.it)

di 

Oggi abbiamo ricevuto una segnalazione che ci fa piacere condividere con voi:

Buongiorno vi invio una  notizia rivelatasi una fake

https://www.google.com/amp/s/www.butac.it/zuckerberg-censura/amp/

Vi invio la notizia corretta visto che zuckerberg ha ammesso con una lettera una pressione dall’amministrazione Biden in materia di censura sul covid

Vediamo se riusciamo ad essere imparziali davvero?!

Saluti.
Il messaggio come potete vedere era un filino passivo-aggressivo, chi lo scriveva probabilmente aveva letto sommariamente il nostro articolo del 2023, pensava che fosse qualcosa di più recente e che linkandoci il Fatto Quotidiano ci mostrasse come avessimo toppato. Ho ritenuto fosse sensato, per una volta, rispondere, senza però cadere nello stesso tipo di aggressività.
Ciao,

Ti ringrazio per la tua segnalazione, ma credo che ci sia stata un’incomprensione. Hai avuto modo di leggere attentamente l’articolo, e di verificare la data di pubblicazione? Purtroppo, temo di no. Il nostro articolo del 2023 si riferiva specificamente a una frase che due giornalisti de La Verità attribuivano a Zuckerberg, frase che abbiamo dimostrato non essere stata mai pronunciata. Nell’articolo, che suppongo non sia stato letto con attenzione, riportavamo già nel 2023 che:

“Zuckerberg ha solo detto che alcune istituzioni, nel tentativo di arginare la disinformazione – anche quella che non faceva danni – hanno tentato di silenziare voci che in un secondo momento si sono rivelate vere o fonte di dibattito. La sua è solo una presa di coscienza sul fatto che non sempre è possibile certificare fin da subito cosa sia vero e cosa no.”

In altre parole, spiegavamo già allora ciò che ora Il Fatto Quotidiano presenta come una novità. Grazie comunque per la tua segnalazione, che ci offre l’opportunità di chiarire ulteriormente questi aspetti. Un saluto.

Per chi non avesse voglia di andarsi a leggere l’articolo del 2023, tale articolo si riferiva a una frase cavalcata appunto dai due giornalisti de La Verità che sostenevano che Zuckerberg avesse detto due specifiche frasi. Una sarebbe stata questa:

Abbiamo oscurato anche informazioni vere

e l’altra era usata nel virgolettato del titolo de La Verità:

Zuckerberg si scusa per la censura: “Sul Covid la scienza aveva torto”

Nessuna delle due frasi era stata detta. Ma, come avevamo spiegato nella risposta al segnalatore, nell’intervista del 2023 Zuckerberg aveva ammesso di aver subito pressioni da istituzioni che chiedevano di silenziare voci anche quando non era dimostrato che esse fossero false, senza per questo rinnegare la scienza. E oggi cosa c’è di corretto nel titolo del Fatto Quotidiano?

Zuckerberg ammette “pressioni da staff Biden e Fbi” su Meta: ottennero la “censura” delle notizie sul computer di Hunter e sul Covid

Zuckerberg, in una lettera a Jim Jordan, che presiede la Commissione Giustizia della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, ha ammesso (come aveva già fatto in passato) le pressioni del governo, ma non parla di aver censurato delle informazioni, bensì di averle declassate, ovvero aver tolto loro visibilità in attesa che i fact-checker selezionati dalla piattaforma dessero il loro parere sui fatti. Spiega che:

In 2021, senior officials from the Biden Administration, including the White House, repeatedly pressured our teams for months to censor certain COVID-19 content, including humor and satire, and expressed a lot of frustration with our teams when we didn’t agree. Ultimately, it was our decision whether or not to take content down, and we own our decisions, including COVID-19-related changes we made to our enforcement in the wake of this pressure.

Che tradotto:

Nel 2021, funzionari senior dell’Amministrazione Biden, inclusa la Casa Bianca, hanno ripetutamente fatto pressioni sui nostri team per mesi affinché censurassero determinati contenuti sul COVID-19, inclusi umorismo e satira, ed hanno espresso molta frustrazione con i nostri team quando non eravamo d’accordo. Alla fine, era nostra la decisione se rimuovere o meno il contenuto, e ci assumiamo la responsabilità delle nostre decisioni, inclusi i cambiamenti relativi al COVID-19 che abbiamo applicato a seguito di queste pressioni.

E ancora:

In a separate situation, the FBI warned us about a potential Russian disinformation operation about the Biden family and Burisma in the lead up to the 2020 election. That fall, when we saw a New York Post story reporting on corruption allegations involving then-Democratic presidential nominee Joe Biden’s family, we sent that story to fact-checkers for review and temporarily demoted it while waiting for a reply. It’s since been made clear that the reporting was not Russian disinformation, and in retrospect, we shouldn’t have demoted the story. We’ve changed our policies and processes to make sure this doesn’t happen again — for instance, we no longer temporarily demote things in the U.S. while waiting for fact-checkers.

Che tradotto:

In un’altra situazione, l’FBI ci ha avvertiti riguardo a una potenziale operazione di disinformazione russa sulla famiglia Biden e Burisma durante la campagna elettorale del 2020. Quell’autunno, quando abbiamo visto una storia del New York Post che riportava accuse di corruzione riguardanti l’allora candidato presidenziale democratico Joe Biden e la sua famiglia, abbiamo inviato quella storia ai fact-checker per la revisione e l’abbiamo temporaneamente declassata in attesa di una risposta. È stato successivamente chiarito che il reportage non era disinformazione russa e, in retrospettiva, non avremmo dovuto declassare la storia. Abbiamo cambiato le nostre politiche e processi per assicurarci che ciò non accada di nuovo — ad esempio, ora non declassiamo temporaneamente i contenuti negli Stati Uniti mentre aspettiamo i fact-checker.

Zuckerberg ammette di aver scelto delle politiche che potessero in qualche maniera ridurre le critiche che gli erano state mosse dall’amministrazione americana retta da Biden, politiche che ora dice non implementerà più. Ogni piattaforma decide le proprie regole e Meta, come abbiamo visto da tempo mette davanti a tutto una cosa: il guadagno.

Ci sta, si tratta di un’azienda con tantissimi impiegati e investitori, devono pensare agli utili. Il problema è che non conta che i soldi arrivino grazie a post sponsorizzati truffaldini, o annunci sul market place di prodotti inesistenti, poco conta che le sponsorizzazioni riguardino integratori che promettono di depurarvi dai vaccini, o schema Ponzi e trading online, basta che paghino.

Nulla di tutto ciò ci sorprende, nulla di tutto ciò suona come novità.

Per approfondire, al post dell’articolo del Fatto suggeriamo altre letture:

Il “supporto formazione e lavoro” è ancora meno trasparente del reddito di cittadinanza (pagellapolitica.it)

di Carlo Canepa

Lavoro

Il sussidio è in vigore da un anno, ma mancano i numeri per capire se e quanto sta funzionando

Il prossimo 1° settembre sarà passato un anno esatto dall’entrata in vigore del cosiddetto “supporto per la formazione e il lavoro”, il sussidio introdotto dal governo Meloni per incentivare l’occupazione di una parte degli ex percettori del reddito di cittadinanza.
A dodici mesi dall’introduzione di questa misura, però, sappiamo ancora poco – e in alcuni casi proprio nulla – su come stia funzionando. Non ci sono infatti informazioni complete, pubblicamente disponibili, sui risultati raggiunti finora dal supporto per la formazione e il lavoro, un problema che in passato ha riguardato anche lo stesso reddito di cittadinanza.

Di che cosa stiamo parlando

Il decreto “Lavoro”, convertito in legge dal Parlamento a luglio 2023, ha creato le due misure che hanno sostituito il reddito di cittadinanza, cancellato definitivamente dal 1° gennaio 2024. La prima misura si chiama “assegno di inclusione” e dall’inizio di quest’anno può essere richiesta dalle famiglie che al loro interno hanno almeno un minorenne, o una persona con almeno 60 anni di età, oppure una persona con disabilità.

Per accedere al nuovo sussidio bisogna rispettare una serie di requisiti, tra cui essere residente in Italia da almeno cinque anni e un ISEE non superiore ai 9.360 euro.

La seconda misura che ha preso il posto del reddito di cittadinanza è il supporto per la formazione e il lavoro. Mentre l’assegno di inclusione è stato pensato come «misura di sostegno economico e di inclusione sociale e professionale», il supporto per la formazione e il lavoro ha l’obiettivo di «favorire l’attivazione nel mondo del lavoro delle persone a rischio di esclusione sociale e lavorativa».

Questa misura è diventata operativa il 1° settembre 2023 e ne possono farne richiesta i componenti delle famiglie con un’età tra i 18 e i 59 anni, il cui ISEE non supera i 6.000 euro annui e che non hanno i requisiti per ottenere l’assegno di inclusione.

Secondo il governo Meloni, in questa categoria rientrano gli ex percettori del reddito di cittadinanza che sono “occupabili”, ossia che possono cercare e trovare un lavoro. Le caratteristiche delle persone che rientrano in questa categoria sono molto varie: per esempio, oltre il 70 per cento degli ex percettori del reddito di cittadinanza che non possono accedere all’assegno di inclusione hanno la terza media come titolo di studio.

In concreto, il supporto per la formazione e il lavoro consiste in un assegno mensile di 350 euro, erogato dall’Inps, che può essere incassato al massimo per 12 mesi. Chi vuole ricevere questo sussidio deve farne richiesta sulla piattaforma del Sistema informativo per l’inclusione sociale lavorativa (Siisl), impegnandosi a presentarsi alla convocazione del servizio per il lavoro competente.

Qui il richiedente deve sottoscrivere il cosiddetto “patto di servizio personalizzato”, dove sono indicati almeno tre agenzie per il lavoro che dovranno aiutarlo a trovare lavoro, e i percorsi di formazione da seguire. Nelle intenzioni del governo, la piattaforma Siisl è stata pensata per presentare offerte di lavoro e servizi di orientamento e accompagnamento al lavoro ai beneficiari del nuovo sussidio. Una volta trovato lavoro, cessa l’erogazione dell’assegno mensile.

La poca trasparenza

Quanti sono a oggi i beneficiari del supporto per la formazione e il lavoro? Gli unici dati pubblicamente disponibili sono stati pubblicati per la prima volta da Inps lo scorso 9 luglio, oltre dieci mesi dopo l’introduzione del sussidio. In totale, dal 1° settembre 2023 al 30 giugno 2024 i beneficiari del supporto per la formazione e il lavoro sono stati 96.161, e in media ogni beneficiario ha ricevuto 3,7 assegni mensili.
La maggiore concentrazione di beneficiari è nelle regioni meridionali (78 per cento), seguite dalle regioni settentrionali (13 per cento) e quelle del Centro Italia (9 per cento). La Campania è la regione dove si concentra la fetta più grossa dei beneficiari del sussidio, il 28 per cento sul totale. Seguono la Sicilia (18 per cento), la Puglia (12 per cento) e la Calabria (11 per cento). Nel periodo considerato, quasi il 57 per cento dei beneficiari era composto  da donne, mentre il 43 per cento da uomini.

Gli unici dati disponibili sulle classi di età dei beneficiari e sulla loro cittadinanza, invece, riguardano solo maggio 2024, mentre non sono disponibili né i dati cumulativi dell’intero periodo considerato lungo dieci mesi né i dati sui singoli mesi precedenti. A maggio i cittadini italiani erano la stragrande maggioranza (il 93 per cento), mentre la metà esatta dei beneficiari aveva tra i 50 e i 59 anni di età (Tav. 2.3 e 2.4).

Per fare un confronto, sui beneficiari del reddito di cittadinanza c’era maggiore trasparenza: ogni mese, infatti, l’Inps pubblicava i nuovi dati dell’Osservatorio sul reddito e sulla pensione di cittadinanza. Gli unici numeri pubblicati dall’Inps finora sui beneficiari dell’assegno di inclusione – l’altra misura che ha sostituito il reddito di cittadinanza – sono usciti a inizio luglio, insieme a quelli del supporto per la formazione e il lavoro.

Un’altra lacuna nei dati su questa misura riguarda il numero di persone che hanno trovato un’occupazione o che hanno seguito un corso di lavoro, o che hanno perso il sussidio perché non hanno rispettato le condizioni fissate dalla legge. Nel report statistico pubblicato da Inps non c’è traccia di numeri per rispondere a queste domande, e questi dati non sono stati forniti nemmeno dalla ministra del Lavoro e delle Politiche sociali Marina Elvira Calderone, che il 9 luglio ha tenuto una conferenza stampa per commentare il primo rapporto dell’Inps.

Lo scorso gennaio la ministra aveva divulgato i primi dati sui risultati del supporto per la formazione e il lavoro, dicendo che erano stati assunti quasi 11 mila beneficiari del sussidio. Da quella data non ci sono più stati aggiornamenti.

Il 31 luglio, durante un question time alla Camera, la ministra Calderone ha detto che finora i beneficiari del supporto per la formazione e il lavoro sono stati «96 mila» (il numero che abbiamo visto sopra), senza però spiegare quanti di questi abbiano trovato lavoro e con quale tipologia contrattuale, per esempio se ha tempo determinato o indeterminato.

Va detto che anche per il reddito di cittadinanza c’era poca trasparenza su questo aspetto, seppure qualche dato in più ogni tanto veniva pubblicato dall’Agenzia nazionale politiche attive lavoro (Anpal), che dal 1° marzo di quest’anno è stata soppressa dall’attuale governo.

A scadenze irregolari, Anpal pubblicava alcune statistiche sui profili lavorativi dei beneficiari del reddito di cittadinanza che avevano sottoscritto il “Patto per il lavoro”, che li obbligava a cercare attivamente un’occupazione. Da queste statistiche era però impossibile capire quanti beneficiari avessero trovato lavoro grazie ai centri per l’impiego e grazie ai navigator, le figure create per supportare i beneficiari del reddito di cittadinanza.

L’impatto sulla povertà

Intervenendo in Parlamento a fine luglio, Calderone ha aggiunto anche che secondo Istat la povertà è «in calo», dato che «il 2023 ha visto una riduzione del rischio di povertà monetaria di 1,2 punti». È vero che Istat ha stimato per il 2023 un calo dell’indicatore del rischio di povertà, il cui valore è sceso da 20 a 18,8 (il -1,2 citato da Calderone), ma il supporto per la formazione e per il lavoro non ha contribuito a questo calo.

Istat ha valutato infatti l’impatto di tre misure sulla distribuzione dei redditi delle famiglie: l’assegno unico universale; il reddito di cittadinanza e l’introduzione del 1° settembre 2023 del supporto per la formazione e il lavoro; e il taglio del cuneo fiscale, ossia la riduzione della differenza tra lordo e netto in busta paga. Istat ha stimato che le sole modifiche introdotte lo scorso anno dal governo Meloni per il reddito di cittadinanza non hanno avuto impatto nel ridurre il rischio di povertà, mentre hanno fatto leggermente aumentare l’indice di Gini, un indicatore che valuta quando sono distribuiti in maniera diseguale i redditi.

La spesa

Nella conferenza stampa del 9 luglio, Calderone ha dichiarato che «le misure che hanno sostituito il reddito di cittadinanza con due percorsi differenti stanno funzionando anche bene». Come abbiamo visto, però, mancano i numeri per dire se sia davvero così. La ministra ha poi aggiunto che il supporto per la formazione e il lavoro «ha un tiraggio inferiore rispetto a quelle che erano le previsioni». Detta altrimenti, la spesa per la misura e i beneficiari sono meno di quanto previsto dal governo.

Complessivamente, dal 1° settembre al 31 maggio 2024 sono stati erogati  107,6 milioni di euro per gli assegni del nuovo sussidio. Il decreto “Lavoro” ha imposto un limite di spesa di 122,5 milioni di euro per il 2023 e di quasi 1,5 miliardi di euro per il 2024. Per il momento, dunque, la cifra spesa finora è di gran lunga inferiore alle attese e con tutta probabilità il governo risparmierà rispetto agli stanziamenti iniziali.

Ricordiamo che il passaggio dal reddito di cittadinanza all’assegno di inclusione e al supporto per la formazione e il lavoro ha già comportato dei risparmi per le casse dello Stato. Dopo vari rifinanziamenti, il reddito di cittadinanza poteva contare su una spesa di quasi 9 miliardi di euro all’anno, ridotti a circa 7 miliardi con l’introduzione delle nuove misure.