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L’angolo fascista
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Un Paese civile non ha bisogno di forcaioli e bugiardi.
Tutte le condanne di Marco Travaglio
Maurizio Belpietro, La Verità e le condanne – Diario
Procedimenti giudiziari per Pietro Senaldi
Rassegna stampa estera 29/09/2024 (diario.world)
Archivio – Poste italiane 22.08.2024 (diario.world)
(Foto: Gregorio Dimonopoli)
Così l’Ucraina ha ribaltato la situazione, anche se l’Occidente non se n’è reso conto (linkiesta.it)
di James Sherr
Lo stato della guerra
L’avanzata dei soldati di Kyjiv in territorio russo ha mostrato tutte le fragilità della struttura di comando di Mosca. Ma il conflitto prosegue, Putin non si fermerà e il mondo libero non può smettere di sostenere chi da due anni e mezzo lotta per proteggere la nostra libertà
Da quando la Russia ha aggredito la Georgia nell’agosto 2008, e in modo più drammatico da quando ha iniziato l’invasione su vasta scala dell’Ucraina a febbraio 2022, Vladimir Putin ha dimostrato di seguire fedelmente il celebre assioma di Caterina la Grande: «Non ho altro modo per difendere i miei confini se non espanderli». L’offensiva ucraina di Kursk ha esposto il punto debole di questo approccio. Due anni e mezzo di guerra contro l’Ucraina hanno lasciato il territorio russo pericolosamente indifeso.
Non è la prima volta che questo problema viene alla luce. Nel giugno 2023, la “marcia per la giustizia” di Yevgeny Prigozhin ha esposto l’apertura del territorio russo alle incursioni e all’effetto sorpresa. Di certo, Prigozhin non è entrato in Russia alla testa di un esercito straniero. Resta il fatto che nelle due settimane successive al lancio dell’operazione Kursk il 6 giugno, l’Ucraina ha conquistato più territorio russo di quanto la Russia sia riuscita a conquistare in tutta l’Ucraina tra gennaio e luglio.
Indipendentemente da cosa accadrà adesso, l’operazione Kursk ha cambiato le carte in tavola sotto almeno due aspetti. Finora, l’istruzione accademica sovietica del comandante in capo delle forze armate dell’Ucraina, il colonnello generale Oleksandr Syrsky, è stata ampiamente criticata (al contrario, il background di istruzione militare del suo predecessore, Valery Zaluzhny, è interamente ucraino).
Non è un caso che Syrsky sia un laureato della Moscow Higher Command Combined Arms Command School, perché l’incursione di Kursk è un’operazione composita e ben eseguita. Anzi, è stata una sorprendente applicazione di quel che era palesemente mancato nell’offensiva ucraina dell’estate 2023: il coordinamento di artiglieria, droni, mezzi corazzati, difesa aerea, fanteria, intelligence (Isr) e forze speciali.
Non da ultimo, è stato un classico esempio di manovra operativa: un audace attacco attraverso il punto debole della linea nemica alle spalle del suo schieramento. Infine, l’operazione è stata concepita ed eseguita sfruttando l’elemento della sorpresa (il che significa che, mentre il nemico vedeva molto di ciò che stava accadendo, non poteva leggerlo e anticiparlo). L’ultima applicazione di questi principi è stata la controffensiva di Kharkiv del settembre 2022, comandata anch’essa da Syrsky. In altre parole, il lungo ciclo di guerra di logoramento è stato interrotto.
Il secondo assunto completamente ribaltato dall’offensiva di Kursk è la convinzione che Putin abbia ripristinato un modo di fare guerra sovietico, basato sulla preponderanza di massa e risorse, quello che aveva portato alla vittoria nel 1945. Che abbia provato a fare qualcosa del genere è abbastanza chiaro.
Da Bakhmut (caduto nel maggio 2023) ad Avdiivka (febbraio 2024) agli approcci di Pokrovsk, la caratteristica distintiva delle offensive russe è stata la loro forza inesorabile, sostenuta da superiorità in materiali e manodopera, e completata dalla distruzione gratuita di città e infrastrutture ucraine. Inoltre, almeno a quanto pare, l’approccio di Putin, come quello di Stalin, sembra non tener conto delle vittime tra le sue fila.
Secondo l’intelligence della difesa britannica, la Russia sta subendo quasi milleduecento vittime al giorno (ad agosto), paragonabili a quelle dell’esercito imperiale russo nella Prima guerra mondiale, e ha probabilmente subito oltre seicentodiecimila vittime da febbraio 2022.
Tuttavia, i più importanti studiosi della Grande Guerra Patriottica trarranno lezioni diverse. Le forze dell’Asse non furono sconfitte dal logoramento e da avanzamenti graduali, ma da offensive audaci e operazioni di accerchiamento: Stalingrado, Jassy-Kishinev e Vistola-Oder, per citarne solo tre. Queste furono dimostrazioni sorprendenti di attacchi complessi, rapidità e grandi manovre. In ciascuna di queste operazioni, l’Armata Rossa possedeva un generale controllo sullo scenario.
Perché era in grado di concentrare schiaccianti superiorità di personale e materiale in alcuni settori di sfondamento prima che il nemico potesse ridistribuire le sue forze e nonostante il fatto che complessivamente il vantaggio delle forze in campo nell’intero scenario di guerra non fosse poi così favorevole all’Armata Rossa rispetto al singolo punto di sfondamento. Gran parte di tutto questo era stato il frutto di una struttura di comando libera, che conferiva al comandante operativo autorità su tutte le formazioni e le armi di servizio nella sua zona di responsabilità.
Questo è il modello che Syrsky e i suoi subordinati stanno cercando di impiegare a Kursk e, in circostanze molto meno favorevoli, a Pokrovsk. Adesso sono i russi a possedere una struttura di comando ingolfata: troppe autorità di comando, responsabilità sovrapposte, subordinati in conflitto tra loro. E queste criticità li hanno perseguitati fin dall’inizio.
Questo spiega in gran parte perché le considerevoli superiorità di forza della Russia hanno prodotto così scarsi vantaggi. Spiega anche perché la perdita delle città “strategicamente significative” di Bakhmut (un’operazione della Wagner) e Avdiivka non si è tradotta in un successo sostanziale a livello operativo. Anche nel bunker di Putin, deve essere stato registrato che ventimila o trentamila soldati (paragonabili alle perdite in Afghanistan) sono stati sacrificati per proteggere Bakhmut e che le perdite ad Avdiivka sono state almeno altrettante.
Eppure, al momento in cui scrivo, Chasiv Yar (diciassette chilometri da Bakhmut) e Toretsk (trentacinque chilometri) sono ancora nelle mani dell’Ucraina. A questi esempi si aggiungono diversi errori di valutazione clamorosi, tra cui il ridispiegamento dell’80a Brigata Artica dal confine tra Norvegia e Finlandia all’estuario del Dnipro, dove è stata decimata perché le sue competenze specialistiche non avevano alcuna utilità in quella zona.
Il fatto davvero saliente è che i russi non hanno più la superiorità a livello operativo che i loro predecessori sovietici hanno saputo sfruttare in maniera così significativa. In nessun momento hanno trasformato il successo tattico in un successo sul campo. Ma Putin capisce le conseguenze di tutto questo? Non sembra. A Tuva il 2 settembre si è vantato: «Le Forze Armate russe non controllano più territori di 200-300 metri [nell’offensiva del Donbas] ma chilometri quadrati». In breve, le operazioni di logoramento stanno raggiungendo il loro scopo.
Cosa spiega il fatto che la saggezza ereditata dall’Unione Sovietica sull’arte bellica non sia messa all’opera? Tra le tante ragioni che possono essere citate, la principale è il sistema di potere statale stesso. Oggi, l’Fsb ha una responsabilità sproporzionata, anche in materia militare. Ha svolto il ruolo principale nella pianificazione della disastrosa invasione del febbraio 2022.
Ha utilizzato la sua posizione privilegiata per rimuovere gli ufficiali più talentuosi e volitivi dello Stato maggiore. E poiché è l’agenzia primaria per il mantenimento della sicurezza interna, le è stata affidata l’autorità di comando a Kursk, anche se non è il centro di una provocazione terroristica ma un teatro di guerra.
Tutto questo è la conseguenza della determinazione di Putin di affidarsi a uomini leali e sottomessi piuttosto che a persone di ingegno e capacità comprovate. Fino al 1941, il sistema di Stalin era lo stesso. Ma entro la fine di quell’anno, i generali incompetenti come Gerasimov furono rimossi e quelli con brillantezza dimostrata e dimostrabile furono promossi. Affidare l’autorità militare all’Nkvd e al Kgb era un anatema per i leader sovietici, persino per Stalin. Ma Putin non ha tratto profitto da questa esperienza.
Saremmo negligenti se non aggiungessimo che, nel corso del 2024, l’Ucraina ha espulso gran parte della flotta russa del Mar Nero a Novorossiysk e ha reso il territorio della Crimea occupata pericoloso per le forze aeree e terrestri russe e per le infrastrutture che le supportano; ha smorzato, anche se non completamente invertito, l’offensiva russa di primavera a Kharkiv e, nonostante le restrizioni occidentali all’impiego delle sue armi, ha anche reso i depositi di armi, i depositi di petrolio, i centri di comando e gli hub logistici russi sempre più vulnerabili agli attacchi.
Inoltre, queste stesse restrizioni occidentali sono state una scarica di adrenalina per l’industria della difesa ucraina, la cui innovazione tecnologica è stata completata dall’innovazione tattica sul campo.
Tuttavia, fino a ora, nessuno dei risultati dell’Ucraina ha diminuito la priorità assoluta assegnata da Putin all’offensiva del Donbas. Militarmente, non è necessariamente un errore. Le forze russe più capaci sono ancora impegnate nella presa di Pokrovsk. Se qualcuno a Kyjiv sperava in un ridispiegamento di queste forze per difendere la Madre Russia, non è successo.
Di sicuro, però, gli ultimi eventi sono importanti di per sé. L’offensiva di Kursk ha reso un’imminente offensiva russa a Sumy impossibile, morta sul nascere. Ha costretto la Russia a cercare nuove unità ovunque, perlopiù truppe scarsamente addestrate, per espellere gli intrusi ucraini.
L’incursione dell’Ucraina ha imposto un sostanziale ridispiegamento, almeno trentamila unità, a Kursk dall’Ucraina, e sebbene questo ridispiegamento non abbia diminuito la concentrazione delle forze dirette contro Pokrovsk, ne ha ostacolato l’aumento, le ha private di nuove riserve e ha permesso all’Ucraina di lanciare contrattacchi di successo in altre aree del fronte.
Mentre il ritmo dell’offensiva di Pokrovsk ha accelerato ad agosto, ha rallentato a settembre. Inoltre, secondo un esperto ucraino: «La direzione di Pokrovsk è considerata dal nostro comando come secondaria, al momento. Per stabilizzare la situazione, vi sono state trasferite unità della Guardia nazionale e la 25a Brigata aeromobile è stata trasferita direttamente alla direzione di attacco a Pokrovsk vicino a Novohrodivka […] La logistica non passa attraverso Pokrovsk per ragioni del tutto oggettive […] Brigate molto più forti vengono trasferite in altre parti del fronte».
Secondo lo Ukraine’s Centre for Defence Strategies, il Centro ucraino per le strategie di difesa: «Il comando nemico sul teatro delle operazioni deve condurre un riordino strategico tra le zone operative e rafforzare il raggruppamento operativo “Tsentr (Centro)” nella direzione di Toretsk con almeno un corpo d’armata […] Senza il coinvolgimento di forze e risorse aggiuntive, il comando della 41a armata [di Tsentr] dovrà presto concentrarsi su direzioni e settori più ristretti o abbandonare azioni offensive simultanee in tutta la zona operativa […] Entro la fine di quest’anno, il nemico non solo non riuscirà a occupare l’Oblast di Donetsk entro i suoi confini amministrativi, ma non sarà nemmeno in grado di conquistare la “fortress belt” di Kostyantynivka-Druzhkivka-Kramatorsk-Slovyansk».
Proprio per questo, l’intero settore a sud di Pokrovsk è seriamente a rischio di cadere nelle mani del nemico. Pokrovsk potrebbe essere secondaria al momento nelle valutazioni dello Stato Maggiore, ma questo giudizio potrebbe rivelarsi errato.
Sebbene le operazioni di Pokrovsk e Kursk abbiano ciascuna la propria grammatica, sono strettamente collegate. La dinamica di ciascuna di esse è estremamente fluida. In entrambi i teatri, le Forze armate dell’Ucraina si ritirano quando devono. Ma cedono anche territorio di proposito per rinforzare punti più importanti e intrappolare unità russe in avanzamento.
Il contrattacco della Russia a Kursk il 10 settembre è stato ampiamente riportato. Invece quasi non è stato riportato, a ovest, il secondo assalto di confine dell’Ucraina il 12 e le nuove avanzate che sono seguite. Avanzata e ritirata, accerchiamento e fuga, sono roba da guerra di manovra. Al momento in cui scrivo, nulla è stato deciso e ogni previsione è prematura.
Adesso, non dovremmo perdere di vista tre cose note. In primo luogo, indipendentemente da come si svilupperanno le realtà del campo di battaglia, il fattore politico sarà quello decisivo. Uno degli obiettivi principali dell’operazione Kursk dell’Ucraina è cambiare la narrazione al di fuori dell’Ucraina. Eppure, purtroppo, non sta cambiando.
Qualunque cosa accada dopo, almeno fino alle elezioni statunitensi non ci sarà alcun cambiamento nelle decisioni di Washington. Vladimir Putin rimane convinto che il tempo sia dalla parte della Russia e che l’Ucraina sia completamente dipendente dall’Occidente, la cui politica sarà fatta a Washington e Berlino, piuttosto che a Varsavia, Tallinn o Londra – per quanta audacia e tempra possano avere lì.
Inoltre, è ugualmente convinto che un’incursione ucraina limitata e contenibile attraverso il confine russo non rappresenti una minaccia accertabile per il sistema di potere in Russia stessa.
In secondo luogo, l’Ucraina e gli Stati Uniti vedono la guerra attraverso lenti diverse e probabilmente continueranno a farlo. Gli ucraini credono che la loro causa sia eminentemente sostenibile se l’Occidente è disposto a sostenerla. Credono anche che una vittoria significativa, ovvero la rottura del potenziale offensivo dell’esercito russo e il ritiro di una buona parte dei suoi guadagni territoriali, rientri nel campo del possibile.
Ma negli Stati Uniti, in Germania e in molti altri luoghi, la convinzione che «la Russia non può essere sconfitta» è solidamente radicata (così come, in totale contraddizione, il timore che la sconfitta della Russia sarebbe troppo pericolosa da gestire).
Mentre gli ucraini e i loro partner più coinvolti nell’Europa centro-orientale credono che la guerra giustifichi la loro convinzione storica che la Russia sia provocata solo dalla debolezza, un certo numero di persone influenti in Occidente, persino alcuni convinti della necessità di imporre sanzioni alla Russia, credono che la guerra sia stata provocata dall’allargamento della Nato e dalla sottovalutazione degli “interessi legittimi” della Russia.
Inoltre, mentre l’amministrazione Biden ammette che la probabilità di un’escalation nucleare è bassa, il Presidente e il suo team per la sicurezza nazionale ritengono che sia comunque troppo significativa per rischiare. Evitare un conflitto più ampio ha la precedenza sulla vittoria, come la intendono gli ucraini. Per l’Ucraina, la sconfitta del nemico e la sopravvivenza sono inseparabili. Queste differenze non sono facilmente conciliabili.
In terzo luogo, e per queste ragioni, la fiducia tra Ucraina, Stati Uniti e Germania è nettamente diminuita. La richiesta del Consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan, nel bel mezzo della sospensione degli aiuti militari statunitensi da parte del Congresso, che l’Ucraina smettesse di colpire la Russia con le proprie armi, ha ricevuto un veemente rifiuto da Volodymyr Zelensky ed è stata ignorata. Non sorprende che Kyjiv abbia nascosto a Washington i suoi piani per l’operazione Kursk.
Sebbene il direttore della Cia William Burns abbia avvertito che il trasferimento di missili iraniani alla Russia sarebbe stata una «escalation drammatica», al momento in cui scrivo, il loro dispiegamento non ha modificato di una virgola le restrizioni di Washington per l’Ucraina. In questo contesto, il leitmotiv di Putin secondo cui l’Occidente sosterrà la guerra fin quando non rimarranno più ucraini a combattere ha acquisito un tono ancora più inquietante.
A queste realtà, possiamo aggiungere una prognosi ben fondata. Non ci saranno cambiamenti negli obiettivi fondamentali della Russia finché Vladimir Putin e i pilastri del suo regime saranno al loro posto. Nel 2014, abbiamo riassunto questi obiettivi come sottomettere l’Ucraina o distruggerla. Oggi, la Russia sta facendo del suo meglio per rendere l’Ucraina inabitabile e insostenibile.
Tuttavia, Washington aderisce all’assioma che tutte le guerre finiscono con dei negoziati. Pochi in Ucraina credono che la Russia sarà pronta a fare concessioni significative finché non sarà sul punto di essere sconfitta. La dichiarazione di Zelensky secondo cui l’operazione Kursk è progettata per garantire una leva negoziale potrebbe placare Washington, ma non corrisponde alle sue convinzioni su Mosca. Il punto non è persuadere la Russia, ma fermarla.
In effetti, l’operazione Kursk dell’Ucraina ha ribaltato la situazione sul campo. Ma la triste verità è che questo potrebbe non avere importanza.
La mostra romana sul Futurismo: «Non fatela, è una cialtroneria» (ilgiornaledellarte.com)
di Guglielmo Gigliotti
L’esposizione voluta dall’ex ministro Sangiuliano raccontata da chi ci ha lavorato: Massimo Duranti, Andrea Baffoni e Giancarlo Carpi.
Inaugurazione prevista il 30 ottobre alla Gnam di Roma: si farà?
Nessuno vorrebbe essere ora nei panni di Gabriele Simongini, destinato a fare da parafulmine nella tempesta di critiche che dovevano colpire Gennaro Sangiuliano. A fine 2022 il giornalista de «Il Tempo» aveva ottenuto dall’allora neoministro della Cultura (ora neodimesso), l’incarico di curare la grande mostra sul Futurismo.
Sangiuliano, ignaro di 70 anni di ricerca storico artistica sul movimento marinettiano e delle grandi mostre allestite in Italia e nel mondo (accompagnate da una mole di libri, saggi, studi e articoli), era certo che con questa mostra monstre di 650 opere finalmente qualcuno si sarebbe accorto del Futurismo. Ma Simongini voleva ancora di più: la mostra non avrebbe dovuto occuparsi solo degli anni propri del Primo e Secondo Futurismo (1909-44), ma proseguire fino ai giorni nostri, con il titolo «Il tempo del Futurismo 1909-2024».
Chiama così attorno a sé, e al designato co-curatore Alberto Dambruoso, un Comitato scientifico che comprende alcuni tra i maggiori conoscitori in Italia e all’estero dell’arte futurista, convocati mediante comunicazione ufficiale di Massimo Osanna, direttore generale Musei del Ministero. Sono Giovanni Lista, Günter Berghaus, Massimo Duranti, Claudia Salaris, Maurizio Scudiero, Giancarlo Carpi e Andrea Baffoni.
Fervono per mesi i lavori, le riunioni, le richieste di opere ai musei e ai privati, gli incontri con Cristina Mazzantini, direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e contemporanea di Roma che, dal 30 ottobre, dovrebbe ospitare la mostra. E poi succede qualcosa. Gabriele Simongini viene tecnicamente esautorato poco prima di questa estate da un Comitato organizzatore (costituito dalla Mazzantini, da Osanna e da Alessandro Giuli, allora presidente del MaXXI, ora ministro), il quale, per questioni di budget fa tagli copiosi alla mostra, dimezzandone le opere, ma senza consultare né il curatore né il Comitato scientifico, lasciando di stucco prestatori pubblici e privati.
Dambruoso, inizialmente menzionato nelle richieste di prestito di opere, viene rimosso. A eseguire tecnicamente i tagli è Cristina Mazzantini. La scelta dell’editore del catalogo, Treccani, non avviene mediante gara pubblica ma con diretta designazione del Ministero. La comunicazione della mostra, nonché un programma di talk, è affidato a Federico Palmaroli, inventore sui social della pagina satirica «Le più belle frasi di Osho» e «appassionato» di Futurismo.
Anche dei testi in catalogo si occuperà il Comitato organizzatore e non il curatore Simongini, che viene travolto da critiche interne ed esterne, prendendosela con la stampa che tenta di capire le dinamiche contorte di una gestione debole e confusa di quella che doveva essere la mostra simbolo della Destra al governo, la grande rivincita, la risposta definitiva alla sofferta «egemonia culturale della sinistra».
Ma l’arte, se arte vera, non è di destra né di sinistra. E anche la trasparenza nei rapporti di lavoro. Così, i componenti del Comitato scientifico, dopo quasi un anno di grande impegno organizzativo, scrivono a Massimo Osanna per sapere quale sarà la loro fine.
L’alto dirigente, travolto come tutti dal grande caos, si barrica come può dietro la frase «non risulta che sia stata formalizzata la nomina dei componenti del Comitato scientifico». Ha ragione. Doveva farlo lui, dopo il primo formale invito, e qualcuno dall’alto deve averglielo impedito. I componenti del Comitato scientifico «fantasma» hanno deciso di venire alla luce e raccontare la loro versione dei fatti. Claudia Salaris si era già dimessa nei mesi precedenti, Massimo Duranti, Andrea Baffoni e Giancarlo Carpi sono ora i primi a rilasciare le loro testimonianze in esclusiva per il «Giornale dell’arte».
Massimo Duranti: «Ministro Giuli, dica stop all’inaugurazione. Questo è una grande pasticcio internazionale»
Parafrasando Manzoni, si potrebbe dire, riguardo a «Il tempo del Futurismo», che «questa mostra non s’ha da inaugurare», almeno così come è stata configurata con un repentino blitz. Lo dicono molti di quegli esperti della materia con curriculum zeppi di mostre, saggi e cataloghi, che hanno lavorato per mesi e mesi alla sua costruzione, ora desaparecidos, non essendo per l’alta burocrazia del Ministero della Cultura (MiC) mai esistiti come componenti di un Comitato scientifico che non c’è (mai stato), perché forse qualcuno si è dimenticato di scrivere un decreto. Dunque al MiC c’è un secondo «caso Boccia», ma senza la bionda. Mi spiego.
Ho/abbiamo ricevuto l’invito scritto del direttore generale Osanna che scriveva anche a nome del ministro Sangiuliano, a far parte del Comitato scientifico. Dopo aver accettato, ho lavorato lungamente con il curatore Simongini, individuando le necessarie sezioni (ora sparite), trovando opere e compilando elenchi, interloquendo spesso con funzionari del Ministero e poi conducendo sopralluoghi alla Gnam con la nuova direttrice Cristina Mazzantini, la stessa che in febbraio, dopo che il MiC le riversò addosso l’organizzazione della mostra, convocò i futuri desaparecidos al museo per una lunga riunione. È avvenuto tutto abusivamente? All’antivigilia dell’inaugurazione, infatti, dopo un presunto cambio di programma, che non c’è stato, ma solo una decurtazione incontrollata delle opere, Osanna mi scrive che la sua lettera precedente è carta straccia (per tutti i membri designati, ma anche per il designato co-curatore Dambruoso, il cui nome compare in centinaia di lettere di Osanna spedite in mezzo mondo, ma le opere che verranno sono solo 16). Dunque, questa mostra sarebbe l’unica al mondo a non avere un Comitato scientifico, a meno che questi giorni ne inventino e decretino uno in extremis.
Essendo il più grande (non in senso di valore, ma solo anagrafico, non sentendomi ancora vecchio) e aduso a sentirmi sempre fedele alle istituzioni, grato per l’ospitalità di «Il Giornale dell’Arte», lancio un ultimo appello al ministro Giuli perché decida uno stop all’inaugurazione per vedere di rimediare a un grande pasticcio internazionale, presentando una mostra senza adeguata scientificità per i tagli indiscriminati, non compiuti dal curatore, a quanto si sa. Invece si sa che fu autoritariamente l’ex ministro Sangiuliano a ordinare i tagli (soprattutto dei privati), stilando anche i nomi dei nuovi autori per il catalogo e imponendo che dovesse essere la Treccani (hanno fatto la gara d’appalto?) a pubblicare il catalogo.
Dopo la scure, risulterebbero 54 opere di Balla (molte irrilevanti) e 25 di Depero (alcune irrilevanti e invece con buchi clamorosi); 120 della Gnam, con molti capolavori ma anche opere di poca importanza. E però verrà da Philadelphia un celebre dipinto di Duchamp (che futurista non era, anzi rifiutò sdegnosamente ogni accostamento) che ci costerà 65mila euro, somma con cui avremmo potuto esporre decine di aeropitture, Arte Sacra Futurista (ma il Giubileo al MiC sembra che non interessi molto), Idealismo cosmico, Arte meccanica ecc. Rivoluzione non certo compensata dall’immissione di aerei, automobili (già previsti nel progetto), motociclette, radio, telefoni da campo, ditemi voi quanto necessari a contestualizzare (ma solo banalmente a spettacolarizzare), un insieme che porterebbe disdoro scientifico all’Italia e al suo Governo.
Non nutro molte speranze che il mio appello venga accolto, ma mi sento in dovere, comunque, di proporlo. Ci sarebbe la possibilità di ricreare un minimo di scientificità rivalutando una dozzina di opere cancellate che, oltretutto, provengono da luoghi pubblici e privati già interessati al prelievo di opere, dunque con modestissimo aggravio economico. Si dovranno ripristinare le sezioni affidandole ai curatori già previsti, congiuntamente al curatore principale, ai quali assegnare anche il compito conseguente di scrivere i testi in catalogo. Sono disponibile, come credo altri. Ma questa volta ci vorrebbe una nomina ufficiale.
Ora c’è anche il rischio della deriva politica della mostra, cosa che, obiettivamente, all’inizio non c’era: nessuno mi ha suggerito opere del regime da inserire, eppure io ne ho inserite, di quelle che avevano una valenza artistica. Leggo tuttavia negli ultimi elenchi, di rafforzamenti di dipinti/sculture di apologia, soprattutto sembra che in catalogo scriveranno solo personalità dichiaratamente di destra, nessuno dei quali ha competenze specifiche sul Futurismo.
Massimo Bray, direttore generale di Treccani, interpellato, ha risposto che non è lui a decidere chi scrive e il curatore ammette, con il classico scaricabarile, di non essere neanche lui a decidere, ma il Comitato organizzatore.
Quello che nel mondo dell’arte abitualmente si occupa dei trasporti, allestimento ecc. e non certo dei contenuti della mostra e del catalogo (ma c’è un decreto che lo crea?). E pensate: sarebbe composto da Osanna, Mazzantini e Giuli, prima che diventasse ministro. A scrivere, di esperti, sarebbero rimasti solo Giovanni Lista da Parigi e Günter Berghaus.
Attendiamo fiduciosi, ma non troppo. [Mssimo Duranti]
Andrea Baffoni: «La mostra è un barcone sgangherato: mi tengo lontano da questa cialtroneria»
La vicenda della mostra «Il tempo del Futurismo» ha ormai assunto i contorni di una commedia anni Ottanta. Avevo fin dall’inizio espresso dubbi sulla validità del progetto, accettando comunque l’invito a prender parte al Comitato scientifico, ricevuto dal direttore generale Massimo Osanna, per una sorta di dovere morale nei confronti di una materia che studio da anni e per la quale ho curato mostre in Italia e all’estero, scritto saggi, tenuto conferenze e pubblicato libri.
Col passare dei mesi, tuttavia, i dubbi non sono diminuiti ma aumentati, soprattutto per l’assenza di una regia competente. Infatti, il gran lavoro svolto per la compilazione di interminabili e, a questo punto direi improbabili, liste di opere, ha infine portato all’ormai nota epurazione di circa 300 pezzi. Episodio che ha rappresentato il primo imbarazzante «incidente» di percorso. Confesso che nella mia carriera di curatore non ho mai, e sottolineo mai, assistito alla cialtroneria di chiedere ufficialmente il prestito di una o più opere per poi dire, dopo aver ricevuto il consenso: «Mi scusi, ma non mi ero accorto di avere pochi soldi, pertanto rinuncio al prestito».
Le parole non sono state proprio queste, ma il senso sì. Una situazione dalla quale, tuttavia, mi ero in parte già allontanato, esponendomi il meno possibile. E questo perché a me quella lettera del direttore generale non bastava. Ovvero, per lavorare attivamente a una mostra così complessa pretendo sempre un regolare contratto, ma questo impegno da parte della Gnam, o del Ministero, o dell’editore (come a un certo punto ci fu detto), non sembrava voler arrivare.
E infatti, invece che il contratto, è arrivato il secondo atto di questa fantozziana commedia degli equivoci: «Il Comitato scientifico non è mai esistito», ci è stato comunicato. Che in parole povere significa anche dire: «Avete lavorato per nulla, e nessuno ve l’ha chiesto». E qui scatta la risata, almeno da parte mia, poiché smaschera definitivamente la cialtroneria che avevo percepito fin dall’inizio e che, da tempo, mi aveva fatto rallentare, con rammarico, ammetto, rispetto ad alcuni dei miei colleghi, pervicacemente impegnati a tentare ulteriori strade per salvare il salvabile.
La verità è che non c’è niente da salvare, anzi è bene stare alla larga da questo barcone sgangherato che non sa dove andare. In preda alle correnti, vittima degli scandali, soggiogato dalla ridicolaggine di personaggi buffoneschi, un po’ guasconi e un po’ bravi ragazzi, avvezzi alle zingarate, ma con poco successo e che sono infine approdati nella stanza dei bottoni, senza però sapere quale spingere e nemmeno a cosa possa servire. [Andrea Baffoni]
Giancarlo Carpi: «Ho svolto un lavoro immenso per nulla»
Il 18 settembre 2023 incontro Gabriele Simongini che mi mostra il mio nome nella lista del Comitato scientifico della mostra, mi propone di scrivere un testo ed eventualmente di curare una sezione. Accetto le proposte dicendogli che gli manderò un progetto di sezione riguardo al legame tra Futurismo e «post-war», tema che interessava a entrambi. Il 26 ottobre 2023 ricevo dal MiC (n. prot. 20573), una lettera firmata dal direttore generale Musei Massimo Osanna: «Siamo lieti di sottoporre alla Sua attenzione la richiesta […] di voler aderire al Comitato scientifico della mostra».
Accetto per iscritto, credendo che sia definitivo. Lavorerò quindi per l’ottenimento di circa 100 opere (da privati, musei, Gnam), con infiniti contatti e svariate giustificazioni scientifiche dirette a proprietari e direttori. A novembre, mi accordo con Simongini per la co-cura della sezione «Ricostruzione futurista dell’universo» insieme a Maurizio Scudiero, mentre un’altra sezione che, intanto, gli avevo proposto, si va realizzando. A dicembre stilo da solo l’elenco della parte letteraria della mostra (tale elenco sarà usato sino alla fine come fonte intellettuale per i prestiti).
Il 13 febbraio 2024 Simongini chiede a me e Dambruoso un primo progetto di allestimento. Il 24 febbraio lo stesso Simongini manda a saggisti e comitato scientifico una mail in cui scrive che «dal Ministero mi dicono che gli autori dei testi in catalogo e i curatori delle sezioni saranno contrattualizzati […] non appena sarà conclusa la gara d’appalto per la casa editrice». Anche il co-curatore Dambruoso la riceve. Il 29 febbraio conosco la direttrice della Gnam, Cristina Mazzantini, discuto con lei e Simongini di tecnologia d’epoca. Ci chiede di fare l’allestimento per dimostrarle che le opere erano poche per lo spazio. Ci lavoro. Poi lo spazio raddoppia. Altri prestiti, nuovo allestimento.
A inizio marzo Simongini ci manda l’esito della seconda campagna prestiti e chiede a me e Dambruoso di distribuire le opere per sezione. La deadline dataci dal MiC è il 5 aprile. Invio elenchi di opere a Duranti, Scudiero, Baffoni per le loro sezioni. E formo, ordino al suo interno con Scudiero «Ricostruzione futurista dell’Universo», e da solo «Sviluppi, ricostruzione e feticismo delle merci», «Anni 50», «Anni 60», «Anni 80», «Fotografia e cinema anni 30», «Cartellonistica». Una è in co-cura, una a mia cura.
Le altre da assegnare. Il 2 maggio Simongini ci manda l’elenco degli autori dei testi e ci chiede il titolo del nostro. Glielo comunico per iscritto. Nella mia corrispondenza con MiC e Gnam (circa 350 mail) figurano Emanuele Merlino (capo Segreteria Tecnica del ministro), Osanna, Mazzantini. Risale al 3 luglio la mia ultima consulenza a Simongini su una informazione scientifica richiestagli dal MiC. Fino a settembre non mi viene ufficialmente fatto sapere più nulla del testo né della mia cura, né del compenso.
A inizio settembre vedo le opere che io ho scelto, trovato, disposto, nell’elenco pubblico del bando di gara trasporti. Mando una pec a Treccani, editore del catalogo, ma non mi risponde. Poi il 19 settembre, Osanna e Mazzantini rispondono finalmente a un’altra mia pec: «Non risulta sia stata formalizzata la nomina di un Comitato scientifico» e «non risulta affidato il servizio editoriale». Ho lavorato nove mesi per lo Stato ma nessuno lo sa. [Giancarlo Carpi]
Rassegnata stampa 28/09/2024 (diario.world)
L’angolo fascista
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Tutte le condanne di Marco Travaglio
Maurizio Belpietro, La Verità e le condanne – Diario
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