L’angolo fascista
Non leggete “il Fango Quotidiano”
Un Paese civile non ha bisogno di forcaioli e bugiardi.
Tutte le condanne di Marco Travaglio
Maurizio Belpietro, La Verità e le condanne – Diario
Procedimenti giudiziari per Pietro Senaldi
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di Salvatore Papa
Bologna si sta trasformando in un inferno turistico, una City of Food che ha cancellato gli spazi tradizionali e liberi della città.
Ora che ne parla anche il New York Times è tempo di capire le origini di questa trasformazione urbana, che nasce da una confusa sovrapposizione di cultura, cibo e turismo.
Mi ha fatto sentire a casa, con le sue infinite sorprese”: così nel 2018 l’inviata del «New York Times» Jada Yuan giustificava la presenza di Bologna nella sua lista delle 52 mete di viaggio in tutto il mondo, mettendo la ciliegina su una turistificazione in stato già avanzato.
Non era la prima volta che il quotidiano statunitense consigliava di visitare la città: già nel 2011 e nel 2015 il giornalista Evan Rail ne aveva parlato entusiasticamente nella sua rubrica “36 hours” e nel 2017 era uscito un altro articolo in occasione di un progetto speciale dedicato all’artista francese Christian Boltanski. Il 2018, però, era un anno speciale: si celebrava il record di arrivi, più di un milione e mezzo, il doppio rispetto a dieci anni prima.
A rallegrarsene c’era soprattutto l’attuale Sindaco di Bologna, Matteo Lepore, all’epoca Assessore al turismo e alla promozione della città, oltre che alla cultura. Cavallo di battaglia dell’impresa, infatti, era stata la cosiddetta City of Food, brand presentato nel 2014 all’interno di un programma di marketing territoriale che guardava all’Expo 2015 di Milano. “Il cibo” dichiarava Lepore “sarà un tema chiave per posizionare Bologna a livello internazionale”. E, in un certo senso, aveva ragione.
Quello che è successo nel frattempo lo possono raccontare alcuni dati (tipo quelli della Camera di Commercio: un ristorante/bar ogni 35 residenti nel 2023) e ha provato a riassumerlo pochi giorni fa, sempre sul «New York Times», Ilaria Maria Sala, in un pezzo che definisce Bologna un “inferno turistico”. “Per secoli” scrive Sala, giornalista di origini bolognesi residente a Hong Kong “i dotti, i grassi e le torri di Bologna sono stati in bella armonia.
Ora gli studenti sono stati sradicati e la torre è in difficoltà. Solo il grasso regna sovrano”. La ricca tradizione culinaria, lo ricordiamo, è il motivo per cui Bologna è detta “la grassa” (oltre a “la dotta”, per l’università, “la rossa”, per il colore degli edifici e la tradizione politica, e “la turrita”, per le torri), ma Sala, nel suo articolo, si riferisce soprattutto all’ossessione per la mortadella.
“La mortadella e Bologna si conoscono da tempo”, continua. “La lenta divorazione della nostra città da parte dei negozi di mortadella è iniziata prima di COVID, ma ha accelerato quando, come in molte città, molti negozi, caffè e ristoranti indipendenti di Bologna hanno cessato l’attività durante la pandemia. Molti di quelli del centro sono stati acquistati da catene con tasche profonde e una visione unica: vendere mortadella agli stranieri. Il centro è completamente cambiato”.
La risposta del sindaco Lepore è arrivata subito, stizzita e scomposta: “Voglio esprimere la mia più forte indignazione nei confronti di chi insulta la nostra città dipingendola come un mangificio di mortadella e anche per questo ho deciso di scrivere direttamente al prestigioso giornale americano evidenziando il danno di immagine prodotto nei nostri confronti”.
“Il cibo”, aggiunge Lepore, “è sempre stato un elemento identitario di Bologna, ma sono cultura e paesaggio il motivo per cui da fuori vengono a visitarci”.
Eppure proprio il progressivo appiattimento dell’identità culturale, ancora prima della proliferazione di nuovi “antichi” mortadellai e taglieri, è forse l’aspetto più profondo della recente evoluzione della città. Bologna, infatti, prima di conoscere il turismo di massa, era nota soprattutto per la sua capacità di conservare quello spirito “alternativo” (o contro-culturale, per usare un vecchio termine) che dagli anni Settanta ha dato vita a decine di esperienze autogestite e no profit dove era possibile sperimentare liberamente fuori dalle logiche del mercato e veder nascere fenomeni artistici che sono stati fino a non molto tempo fa la sua migliore cartolina.
“Ancora prima della proliferazione di nuovi ‘antichi’ mortadellai, è forse il progressivo appiattimento dell’identità culturale l’aspetto più profondo dell’evoluzione della città”.
Tantissimi di quegli studenti e di quelle studentesse che hanno scelto di trasferircisi (prima che i prezzi schizzassero e la ricerca di una casa, come sottolinea giustamente Sala, diventasse un problema serio) sono stati attratti, infatti, non solo dalla qualità dell’Università più antica del mondo, ma anche da quella che consideravano la culla italiana del punk, dell’hip hop, delle performing arts o del fumetto, dove sono nati luoghi mitici come – solo per citare alcuni dei più noti – la Traumfabrik nel ‘76, il Circolo 28 Giugno negli anni Ottanta (primo spazio in Italia concesso da un’amministrazione pubblica a un’associazione omossessuale, diventato l’attuale Cassero LGBTI+ Center), il Link Project o il primo TPO (il Teatro Polivalente Occupato dell’Accademia di Belle Arti) negli anni Novanta, le Street Rave Antiproibizioniste e una miriade di centri sociali occupati capaci di convivere – non sempre armonicamente – con i dotti, il grasso e le torri.
Chi oggi tornasse a visitare la città, dopo averci vissuto, oltre alla chiusura delle botteghe storiche rimpiante da Ilaria Maria Sala, noterebbe soprattutto la quasi totale assenza di spazi rappresentativi di quello spirito libertario e conflittuale soffocato da una sovrapposizione confusa di cultura, cibo e turismo.
Ed è proprio nelle politiche culturali e nel modo in cui viene utilizzato il termine “cultura” che sono evidenti i sintomi di questa mutazione che rientra, ovviamente, nelle più complesse dinamiche globali che hanno causato le trasformazioni urbane degli ultimi 40 anni. In questo senso, il caso di Bologna è emblematico.
1. La cultura come capitale simbolico per generare la crescita
Facendo un piccolo salto indietro nel tempo, si potrebbe indicare come punto di svolta il 2000, anno in cui è arrivata la nomina di Capitale Europea della Cultura.
Per capire la portata del cambiamento avviato da “Bologna 2000” bisogna allargare il quadro, guardando ai processi di produzione di capitale simbolico che caratterizzano il tardo-capitalismo. Venendo meno la capacità industriale, è proprio attorno al capitale simbolico, infatti, che le città hanno iniziato negli anni Ottanta a competere per l’attrazione di capitali, mettendosi in mostra come possono e, spesso, spettacolarizzandosi.
In questo contesto, i riconoscimenti delle istituzioni transnazionali ricoprono ovviamente un ruolo importantissimo, e anche Bologna ha provato a giocare la sua partita a colpi marketing territoriale e di candidature, venendo poi premiata due volte dall’Unesco: prima nel 2006, con la nomina di Città della Musica, e più di recente nel 2021, ottenendo il marchio di Patrimonio Unesco dell’Umanità per i suoi portici.
Da Capitale della Cultura la città ha visto, quindi, la possibilità di un rilancio d’immagine che ha potuto avere i suoi effetti simbolici anche attraverso la “rigenerazione” di intere aree. E grazie ai fondi europei sono nati, tra gli altri, il progetto della Manifattura delle Arti, il MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna e il lancio decisivo della Cineteca, oggi l’istituzione culturale cittadina più importante a livello mondiale.
Parliamo però di anni fortemente berlusconiani, caratterizzati da una costante svalutazione della cultura, vista un po’ come binario morto dell’economia; gli anni del mantra “con la cultura non si mangia” e delle distinzioni tra cultura utile e inutile. E una cultura “utile” era (ed è) una cultura in grado di essere generare numeri: indotto, crescita e consenso.
2. La sovrapposizione tra cultura, marketing ed economia
Per avere un esempio di quale sia l’eredità di quel periodo e di cosa sia considerata comunemente “cultura” oggi, potremmo prendere il rapporto “Io sono Cultura” realizzato da Fondazione Symbola e Unioncamere, che ogni anno stila una classifica delle città che producono più ricchezza e occupazione con la cultura stessa, ovvero: imprese che utilizzano la cultura come input per accrescere il valore simbolico dei prodotti, attività di comunicazione, videogiochi, imprese del digitale, turismo, business. Cultura utile.
A Bologna, questo grande mix ha trovato la propria corrispondenza amministrativa nel 2018 (l’anno del primo record di arrivi) quando l’assessore al turismo e alla promozione, Matteo Lepore, è diventato anche assessore alla Cultura.
Lepore, da buon uomo di marketing, ha sempre avuto un chiodo fisso: l’immagine della città. E la città immaginata da Lepore e dalla sua giunta non è più solo quella di chi abita, ma anche quella di chi visita e guarda da lontano. In questo senso va, quindi, letto il tono scomposto della sua lettera e il suo riferimento al “danno d’immagine”.
Prima da assessore e poi da Sindaco, molte delle sue politiche sono state funzionali alla comunicazione di Bologna verso l’esterno e parte di una strategia ben studiata per attirare nuovi capitali (tra cui anche quelli delle “catene con tasche profonde” di cui parla Ilaria Maria Sala).
“La città che era stata capace di alimentare sottoculture e nuovi immaginari si è trasformata progressivamente in una delle tante filiali dell’industria culturale senza quasi più spazi per la sperimentazione”.
È stato così per la City of Food o per le candidature Unesco (tra cui anche il tentativo di fare dei tortellini e della mortadella un patrimonio immateriale dell’umanità) che hanno portato a un nuovo livello il processo di rigenerazione simbolica avviato da Bologna 2000. Ed è stato così per l’utilizzo delle politiche culturali che hanno nel tempo marginalizzato tutto ciò che è stato considerato inutile ai fini del consenso e per raggiungere gli obiettivi prefissati.
Con Lepore alla Cultura è arrivato nel 2019 un nuovo spartiacque: l’abbattimento dello spazio autogestito XM24 all’apice di una serie di sgomberi violenti avviata qualche anno prima. Casa per decine di collettivi, disoccupati, precari, migranti, hacker, punk, queer, ecologisti, XM24 rappresentava il baluardo di una città che rifiutava le logiche del profitto, uno spazio di espressione diretta per un moltissimi soggetti diversi che lì potevano auto-organizzarsi in maniera orizzontale.
L’immagine delle ruspe applaudite da Matteo Salvini contro i locali del centro sociale è ancora viva ed esemplificativa di un paradosso: la convenzione per l’utilizzo di quello spazio risaliva, infatti, proprio al 2000 ed era stata concessa da Giorgio Guazzaloca, il primo e unico sindaco di centro-destra della storia di Bologna.
In un periodo in cui sempre più forte era diventata la richiesta di spazi liberi dal cappio dei bandi comunali che orientano la produzione culturale, la fine di XM24 ha inaugurato una nuova stagione di sgomberi sempre più rapidi (negli ultimi anni ce ne sono stati decine). L’ultimo risale a maggio scorso nei confronti della Vivaia TFQ, collettivo transfemminista che per ben due volte ha provato ad abitare un ex vivaio abbandonato: “Per noi” affermavano “l’occupazione è ancora uno strumento efficace per opporsi alle logiche speculative e propagandistiche della ‘città più progressista d’Italia’”.
Eppure gli spazi inutilizzati sono moltissimi, ma ogni richiesta di concessione deve sottoporsi a un bando o passare attraverso gli strumenti della cosiddetta “partecipazione”: patti di collaborazione, laboratori di partecipazione, bilancio partecipato, co-progettazione.
Percorsi che nei fatti incanalano le decisioni in schemi già previsti dall’alto (sulla retorica della partecipazione alla bolognese ha scritto molto Mauro Boarelli, storico e membro bolognese della rivista Gli Asini) e che, declinati nelle politiche culturali, producono quello che Lucia Tozzi, nel suo L’invenzione di Milano, chiama “il sale del marketing urbano”, ovvero: “l’abitante delle case popolari che accetta di partecipare alle attività socioculturali predisposte dai bandi europei insieme alle istituzioni locali (la festa di quartiere, la performance artistica, il laboratorio del pane biologico), il writer che si lascia arruolare nella decorazione di muri concordati, l’attivista del centro sociale che mette in secondo piano la contestazione diretta contro il malgoverno cittadino per sviluppare invece attività culturali underground”.
Nel mentre, comunque, oltre al numero di ristoranti, sono esplosi anche gli eventi. L’estate – che coincide con il picco della stagione turistica – è il momento clou e ogni anno i numeri comunicati sono da record. Il tentativo dichiarato è quello di “festivalizzare” la città. Per averne un esempio, nel 2023, il cartellone di iniziative culturali estive coordinate e promosse dal Comune di Bologna – Bologna Estate – contava più di 7mila eventi (fino a dieci anni fa erano poche centinaia). Parliamo, ovviamente, solo dei progetti approvati dal bando, senza tener conto di tutto il resto.
Un numero così ampio che rende indecifrabile la ratio qualitativa della selezione e in cui anche le cose migliori si perdono nella bulimia dell’offerta. Dentro questo grande calderone c’è di tutto, dai progetti curati dai teatri ai festival di food truck e i bar che ogni tanto organizzano stand up comedy. “Voglio” diceva il neoassessore Lepore prima di diventare sindaco “che Bologna rispecchi l’idea di una politica turistico-culturale capace di cogliere gli interessi della comunità”.
Tant’è che ancora oggi il bando che raccoglie le proposte e distribuisce i contributi economici promette un surplus di punteggio proprio ai progetti pensati per un target turistico. Così l’eventificio, oltre agli sgomberi, è diventato a Bologna, come altrove, una cifra delle politiche (turistico) culturali.
3. Il turismo si è mangiato la città, il cibo si è mangiato la cultura
A qualche giorno dalla sua lettera a Ilaria Maria Sala, Matteo Lepore si è scusato per il tono e ha iniziato a fare alcune proposte per il momento ancora poco convincenti sul coinvolgimento dei cittadini stessi nella gestione del turismo. “Il turismo”, ha riconosciuto, “per funzionare deve migliorare la vita di tutti, non mangiarsi le città”.
Nel frattempo, però, Bologna è molto cambiata. La città che fino ai primi 2000 era stata capace di alimentare determinate sottoculture e nuovi immaginari, anche grazie alla presenza dell’Università più antica del mondo, da modello riconosciuto per la produzione artistica si è trasformata progressivamente in una delle tante filiali dell’industria culturale senza quasi più spazi in grado di sperimentare attorno a un apparato simbolico disallineato. E chi resiste è più impegnato a sopravvivere.
“L’eventificio, oltre agli sgomberi, è diventato a Bologna, come altrove, una cifra delle politiche (turistico) culturali”.
A rompere definitivamente gli argini che separavano lo sviluppo culturale dalla promozione turistica è stata per prima proprio la City of Food, con la sua ambizione di presentare una nuova immagine adatta ad un pubblico generico e internazionale.
Nessuno potrebbe dire che Bologna sia culturalmente poco stimolante, ma non bisogna dimenticare il debito enorme nei confronti di quei luoghi liberi che furono la principale scuola di formazione per moltissime delle persone che oggi reggono le sue attività culturali più importanti, dalle associazioni e fin dentro le istituzioni stesse. La rendita, tuttavia, non può durare per sempre.
Come se non bastasse, non c’è più neanche l’assessore alla Cultura. È, infatti, lo stesso sindaco ad aver trattenuto l’incarico, designando all’inizio del proprio mandato una sua “delegata” con limitati poteri decisionali, Elena Di Gioia, che nel bel mezzo di quest’estate ha peraltro presentato le sue dimissioni.
Ma prima che il cibo si mangiasse la città e il turismo si mangiasse la cultura, Bologna è stata un modello per le sottoculture guardato con interesse in tutt’Europa. Come racconta Francesco Spampinato, curatore insieme a Roberto Pinto del volume Skank Bloc Bologna, che ripercorre la storia degli spazi espositivi cittadini no-profit dal 1977 a oggi: “Bologna è sempre stata considerata e percepita all’estero come una realtà innovativa, in cui delle forme di agitazione politica nate negli spazi no-profit trovavano una corrispondenza persino nelle amministrazioni locali e nell’università (pensiamo all’arrivo dello stesso DAMS e alla sua carica innovativa nell’ambiente accademico)”.
Quel fermento creativo, riversatosi anche in alcune richieste di cambiamento sociale, ha potuto però svilupparsi grazie a una quantità significativa di spazi liberi capaci di convivere con gli elementi identitari tradizionali della città.
Dove a dettar legge è, invece, un modello uniformante come quello dell’economia turistica, la produzione culturale messa in moto dai conflitti cede il passo alla riproduzione di format che ci restituiscono luoghi (e problemi) tutti uguali fino a dissolvere l’anima plurale delle comunità nell’immagine statica di un brand.
Emergenza carceri
Il problema, non emergenziale ma strutturale. È poco censito e affligge oltre il 40% dei detenuti
Nel dibattito ricorrente sulle condizioni nelle quali la popolazione carceraria è condannata a sopravvivere c’è sempre un convitato di pietra: il disagio mentale. L’emergenza psichiatrica negli istituti di pena – che colpisce i reclusi ma si riflette su direttori, agenti, funzionari giuridico-pedagogici, personale medico e volontari – è presenza incombente ma invisibile, che tutti conoscono ma che pochi nominano.
Per molti analisti, esperti e politici, l’argomento è tabù perché, a 11 anni dalla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e di fronte all’agonia delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza – che ne hanno preso il posto –, nessuno o quasi sa cosa fare.
Eppure, nel manuale del 2009 sui detenuti con bisogni speciali, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, ha identificato a livello mondiale otto gruppi di detenuti con bisogni speciali motivati da una situazione di particolare vulnerabilità: al primo posto ci sono quelli con bisogni (al plurale) di assistenza psichiatrica.
Poco o nulla è cambiato negli ultimi anni. Anche perché – nella rimozione del problema che non è emergenziale ma strutturale – molto incide il fatto che le statistiche per i detenuti con bisogni di assistenza psichiatrica non sono raccolte in modo sistematico.
E così nessuno sa in realtà quanti siano i reclusi con disagio mentale e psichiatrico e il loro tasso di gravità. Nell’ultimo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione si legge che il disagio mentale è maggiore tra le donne che tra gli uomini.
Le recluse con diagnosi psichiatriche gravi rappresentavano, negli istituti visitati dall’Associazione, il 12,4% delle presenze, contro il 9,2% della rilevazione complessiva. Le donne che facevano regolarmente uso di psicofarmaci rappresentavano il 63,8% delle presenze, contro il 41,6% complessivo.
Può, dunque, quel dato complessivo – 9,2 diagnosi psichiatriche gravi ogni 100 detenuti – essere attendibile? Assolutamente no, perché se così fosse – su una popolazione che oggi oscilla intorno alle 61mila presenze contro una capienza massima di 51.234 posti – ci sarebbe poco o nulla da preoccuparsi. Invece – come ricorda Antigone – «sta diventando un carcere di matti».
Le Aziende socio-sanitarie – che dovrebbero gestire l’area sanitaria negli istituti – raramente assumono o convenzionano psichiatri a tempo pieno e sfuggono alle diagnosi migliaia di casi. L’aleatorietà di alcune statistiche, di fronte alla nuda realtà, è testimoniata anche da quanto scrive il magistrato Roberta Palmisano – ex direttore dell’Ufficio studi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – nel n. 3 del 2015 di «Rassegna penitenziaria e criminologica».
Palmisano ricorda che uno studio che coinvolse sei regioni sui bisogni di salute di 16mila detenuti (1/3 della popolazione penitenziaria di allora) rivelò che il problema della salute mentale affliggeva oltre il 40% dei detenuti.
I numeri, dunque, dicono poco se non hanno alla base sistematicità, impegno continuo nella raccolta, capacità di analisi e progettualità, oltre alla realizzazione delle strutture previste, la formazione degli operatori, l’ingresso di figure preparate (e non che siano agenti o funzionari giuridico-pedagogici ad affrontare le patologie) e sponde politico/sociali. È ancora il lavoro di Antigone – nell’aggiornare le schede dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione – a svelare le troppe falle del sistema. Leggiamo cosa dicono quelle di Bolzano e Reggio Calabria. Nord e Sud.
Partiamo da Bolzano. Alla voce “Numero settimanale complessivo di ore di presenza degli psichiatri” la risposta è «non disponibile». Stessa risposta alle voci “Quante persone presentano diagnosi psichiatriche gravi?” e “Persone con diagnosi psichiatriche gravi”. Infine, non esiste un’articolazione per la salute mentale o un reparto per i detenuti con infermità psichica.
Nella casa circondariale Panzera di Reggio Calabria, il Reparto di osservazione psichiatrica, che prevede al massimo la presenza di 5 detenuti, è stato definitivamente chiuso e in attesa di lavori di ristrutturazione per spostarci alcuni ambulatori. È ora che il convitato
di pietra diventi visibile a tutti. A partire dalla politica.
di Carlo Canepa
Fact-checking
«Con il governo Meloni, l’Italia torna a credere in se stessa», e «ancora una volta, sono i numeri a parlare: con il governo Meloni stiamo cambiando l’Italia». Così il 26 agosto Fratelli d’Italia ha rivendicato, con una serie di grafiche pubblicate su Facebook, quelli che a detta sua sono i «successi» e i «nuovi primati» registrati dal nostro Paese grazie «alle riforme e agli investimenti voluti» dall’attuale governo.
Dalla lotta contro l’evasione fiscale al commercio internazionale, vediamo che cosa non torna nei dati riportati dal partito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Come già successo in passato, i numeri sono usati da Fratelli d’Italia per dare un quadro distorto della realtà.
L’evasione fiscale
Fratelli d’Italia ha scritto che «il 2023 ha fatto registrare un significativo incremento delle entrate fiscali», essendo «confluiti nelle casse dello Stato 4,5 miliardi in più rispetto al 2022». «La riforma fiscale che ha ridisegnato i rapporti tra fisco e contribuenti comincia a dare i propri frutti», ha aggiunto il partito di Meloni. Il numero citato è corretto, ma la riforma del fisco non c’entra.
Secondo l’Agenzia delle Entrate, nel 2023 le attività di contrasto all’evasione fiscale hanno raccolto 24,7 miliardi di euro, 4,5 miliardi in più rispetto all’anno prima – la cifra citata da Fratelli d’Italia. Circa 4,1 miliardi in più sono stati recuperati grazie alla “rottamazione quater” delle cartelle esattoriali, introdotta dal governo Meloni con la legge di Bilancio per il 2023.
Questa misura è un condono fiscale che ha permesso ai contribuenti non in regola con il fisco di pagare il debito senza pagare le sanzioni: lo Stato ha rinunciato a incassare tutto il dovuto per recuperarne almeno una parte. Come suggerisce il nome, la “rottamazione quater” è la quarta rottamazione delle cartelle approvata negli ultimi anni, quindi non è una misura nuova, ma ricalca quelle adottate da precedenti governi.
In ogni caso, per ragioni temporali la riforma del fisco non può avere avuto un ruolo nell’incremento dei soldi raccolti nel 2023 dall’Agenzia delle Entrate. Il governo ha presentato in Parlamento il disegno di legge delega sulla riforma fiscale a marzo 2023, e il testo è stato poi approvato definitivamente dalla Camera ad agosto dello stesso anno.
Uno degli obiettivi della riforma è trasformare il rapporto tra fisco e contribuenti, e il sistema della riscossione, ma il disegno di legge delega contiene solo dei principi generali che il governo deve rispettare e concretizzare attraverso i decreti legislativi. I primi decreti legislativi sono stati approvati dal governo alla fine di dicembre 2023, quindi non possono avere avuto effetti sulle attività di riscossione dell’anno scorso.
Il commercio internazionale
Secondo Fratelli d’Italia, «nel 2023 l’Italia ha raggiunto un record storico nelle esportazioni, con vendite per 666 miliardi di euro». Le elaborazioni dei dati Istat fatte dall’Osservatorio economico del Ministero degli Esteri dicono una cosa diversa.
Nel 2023 le esportazioni italiane hanno raggiunto i 626 miliardi e 204 milioni di euro. Questa cifra, più bassa di quella indicata da Fratelli d’Italia, è più alta solo di 9 milioni di euro rispetto al valore delle esportazioni registrato nel 2022. Tant’è che l’Osservatorio economico segna una variazione nulla tra le esportazioni del 2022 e quelle del 2023 (come si vede nel Grafico 1, le due barre azzurre dell’export del 2022 e del 2023 sono alte uguali).
Quindi durante il primo anno del governo Meloni, insediatosi il 22 ottobre 2022, non c’è stato un cambiamento sul fronte dell’export. Fatta eccezione per il 2020, anno condizionato dalla pandemia di Covid-19, dal 2014 in poi le esportazioni italiane sono sempre aumentate.
I numeri vanno letti poi con attenzione. Per esempio, a luglio il nuovo rapporto dell’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, un ente pubblico legato al Ministero degli Esteri e noto anche con la sigla ICE, ha sottolineato che nel 2023 l’andamento delle esportazioni italiane di merci è «il risultato di una riduzione dei volumi, a fronte di un aumento dei prezzi».
La giustizia
Fratelli d’Italia ha rivendicato anche un «miglioramento del sistema giudiziario», dato che «negli ultimi mesi si registrano dei segnali di miglioramento con una riduzione delle pendenze che nel settore civile è pari al 4,8 per cento, mentre nel settore penale, sull’anno precedente, è del 14,3 per cento». Secondo il partito di Meloni, questo è «un importante passo avanti per abbattere i tempi troppo lunghi della nostra giustizia».
Queste percentuali sono confermate dal Ministero della Giustizia. Secondo i dati più aggiornati, il numero di procedimenti aperti alla fine del 2023 (ossia le “pendenze”) nel settore della giustizia civile si è ridotto del 4,8 per cento rispetto all’anno precedente. Nella giustizia penale la riduzione delle pendenze rispetto all’anno precedente è del 14,3 per cento. Nel dare questi dati, Fratelli d’Italia ha omesso però di dire una cosa importante: nel settore civile le pendenze sono in costante calo dal 2011 in poi, mentre nel settore penale dal 2014, salvo un paio di anni di eccezione. Dunque la dinamica di calo non è iniziata con il nuovo governo, ma è in atto da tempo.
La corruzione
Secondo Fratelli d’Italia, anche i numeri sulla «diminuzione della corruzione» dimostrano i successi del governo Meloni. «Nel periodo che va dal 2004 al 2023 il trend della concussione è sceso dal 55,8 per cento, quello dei reati corruttivi del 50,5 per cento e quello del peculato del 5,8 per cento», ha scritto il partito di Meloni.
Queste percentuali sono contenute in un rapporto pubblicato a maggio dal Ministero dell’Interno e fanno riferimento al numero di delitti commessi contro la pubblica amministrazione. La variazione però, come ha scritto anche Fratelli d’Italia, è calcolata tra i numeri del 2004 e quelli del 2023, quindi in un arco di vent’anni, non nell’arco di tempo in cui ha operato solo il governo Meloni. La dinamica di calo dei delitti legati sia alla concussione sia ai reati corruttivi sia al peculato è in corso da anni ed è iniziata prima che si insediasse l’attuale governo.
Le disuguaglianze
Infine, secondo Fratelli d’Italia il governo Meloni ha contribuito a «cambiare l’Italia» riducendo le disuguaglianze. «Il tasso di disuguaglianza, valutato attraverso l’indice di Gini, è passato dal 31,9 per cento al 31,7 per cento e anche il rischio di povertà è diminuito di oltre un punto percentuale, passando dal 20 per cento al 18,8 per cento». Queste percentuali sono contenute in un rapporto pubblicato a marzo da Istat, ma vanno lette con attenzione e interpretate nel modo corretto.
Periodicamente l’istituto nazionale di statistica stima l’impatto delle politiche che hanno effetti sulla redistribuzione dei redditi in Italia. In particolare è analizzato l’andamento di due indici: semplificando, l’indice di Gini quantifica quanto è diseguale la distribuzione dei redditi in Italia (più è alto, più c’è disuguaglianza); il rischio di povertà, invece, quantifica la percentuale di persone che vive in famiglie con un reddito inferiore alla soglia del rischio di povertà.
Nel già citato rapporto, Istat ha simulato come sono cambiati nel 2023 rispetto al 2022 l’indice di Gini e il rischio di povertà grazie a tre misure: l’assegno unico e universale per i figli a carico; il reddito di cittadinanza, che dal 1° settembre 2023 è stato affiancato per una parte dei beneficiari dal supporto per la formazione e il lavoro; e il taglio del cuneo fiscale, ossia la riduzione della differenza tra il lordo e il netto in busta paga.
Tutte e tre queste misure non sono una novità del governo Meloni, ma sono state introdotte dal governo Draghi. L’attuale governo ha destinato più risorse all’assegno unico e al taglio del cuneo fiscale. Istat ha così stimato che nel 2023 queste tre misure – e non in generale tutte le politiche adottate dal governo Meloni – hanno ridotto l’indice di Gini da 31,9 a 31,7, mentre il rischio di povertà è sceso da un valore pari a 20 a 18,8. L’assegno unico è stata la misura che più di tutte ha contribuito al calo del rischio di povertà (-0,7), mentre l’effetto delle misure sul reddito di cittadinanza è stato nullo.
Anche in questo caso, questa dinamica di calo non è stata un’inversione di tendenza introdotta dall’attuale governo, come ha lasciato intendere invece Fratelli d’Italia. Come detto, le misure adottate nel 2023 hanno seguito la strada tracciata dal precedente governo, e già durante il governo Draghi erano migliorati i due indicatori analizzati da Istat.
di Giulia Guidi
Non sono “una strana coppia”, la loro amicizia rientra in un quadro di conquista del continente. E non solo
«La prosperità è in arrivo per l’Argentina», ha twittato Elon Musk quando Javier Milei ha vinto le elezioni a novembre.
Il multimiliardario usa la piattaforma, di cui è proprietario, per piantare la bandiera con le sue opinioni su ogni genere di questione, sempre in modo controverso. Dalla pandemia di COVID, alla guerra in Ucraina, alla Coppa del Mondo in Qatar, al consumo di droga, quasi ogni questione è stata affrontata dalla lingua tagliente del secondo uomo più ricco del mondo (la cui fortuna è di 195 miliardi di dollari, secondo Forbes).
Stranamente, molti dei suoi ultimi post su X si riferiscono all’America Latina, dove ha mostrato affinità con leader politici di destra come Milei, Nayib Bukele, presidente di El Salvador, e il leader brasiliano Jair Bolsonaro. E, al contrario, i bersagli dei suoi post sono sempre di sinistra, come il chavismo o Lula Da Silva.
Il suo elogio del libertario Milei è andato oltre i tweet: in aprile ha accolto il presidente argentino negli uffici della Tesla in Texas per due volte. Hanno parlato, scattato fotografie e dichiarato un reciproco “amore”, proprio mentre Milei sta applicando un drastico aggiustamento all’economia argentina, che l’opposizione ritiene stia creando scompiglio.
Leggi anche Milei, il “leone pazzo”
«Ci sono degli interessi economici, c’è una vicinanza ideologica politica e anche caratteriale. Ma direi che gli interessi economici sono prevalenti, tra satelliti e litio, così importante per le batterie elettriche di Tesla. Sappiamo che Milei è un anarco capitalista, vorrebbe un Paese, anzi un mondo, con una completa libertà da parte delle imprese, uno Stato ridotto al minimo: è una visione che Musk più volte ha definito interessante, spiega Antonella Mori, del dipartimento di Scienze politiche e sociali della Bocconi e responsabile del programma America Latina dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) -. Certamente la condivide perché fa i suoi interessi. La posizione di Milei in un contesto sudamericano in cui Musk si è schierato apertamente contro il Venezuela e contro Lula».
Non dimentichiamo che prima il Messico e poi il Cile hanno recentemente nazionalizzato le miniere di litio…
«È necessario fare dei distinguo. Il Messico e il Cile hanno dichiarato il litio risorsa naturale nazionale e questo vuol dire che, nello sfruttamento del minerale, deve esserci sempre una presenza di società pubbliche. Quindi, non vuol dire che tutti gli investimenti devono essere solo pubblici. Significa che ci devono essere dei partenariati tra pubblico e privato. L’Argentina potrebbe essere un caso diverso perché con Milei potrebbe esserci un’apertura ai privati al 100%. Però, bisogna tenere conto che è presidente da poco. La situazione non è ancora stabilizzata, e non è detto che sarà riconfermato alle prossime elezioni. L’Argentina è sempre stata governata dai peronisti (sia di destra che di sinistra). In questo momento, il litio è così importante che Musk potrebbe fare un investimento al 100%, ma a suo rischio, perché potrebbe esserci un cambiamento di rotta politica. Pensiamo, ad esempio, a quando hanno nazionalizzato il petrolio. È un Paese che da questo punto di vista non garantisce stabilità. Però sappiamo che il multimiliardario il rischio non lo teme e ci sono già altri investimenti privati, anche cinesi».
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Come lei ha già sottolineato, Musk non sembra essere mosso solo da interessi economici: sono frequenti le sue uscite su X sulle situazioni politiche di diversi Paesi, ma anche su fatti di cronaca, come durante le recenti Olimpiadi. Che suggestione le dà questa coppia di visionari?
«Questo è un punto importante. Milei vorrebbe portare nel mondo la filosofia economica dell’anarco-capitalismo, che Musk mette in pratica. Dopo averlo ascoltato nel suo intervento a Davos, il sudafricano si è complimentato pubblicamente con il presidente dell’Argentina, al quale, probabilmente, questo ruolo sta perfino “un po’ stretto”. La sua ambizione è avere un ruolo a livello mondiale. Si tratta quindi di due personalità molto particolari, ferventi sostenitori della libera impresa all’estremo: uno la fa, l’altro la idealizza».
Questa amicizia si sta sviluppando mentre in USA Donald Trump sta correndo per riprendersi la Casa Bianca: un menage a trois?
«Sì, tutti e due hanno un rapporto stretto con Trump, ma bisogna vedere chi vincerà. Senza dubbio sarebbero entrambi contenti».
Nel frattempo, Milei si sta spendendo molto per far entrare Musk nell’economia del Paese.
«Sì, non solo litio, così importante per le batterie elettriche. Milei ha già liberalizzato l’uso dei satelliti in Argentina e quindi gli Starlink del multimiliardario possono vendere i propri servizi, ma questa azione è stata precedente alla loro amicizia. Tesla potrebbe invece avere più difficoltà perché ci sono barriere tariffarie, visto che l’Argentina fa parte del Mercosur, e nel settore delle automobili sono elevate. E poi naturalmente richiedono anche delle infrastrutture per la ricarica. Ma il litio c’è, come c’è in Cile e in Bolivia ma, in questo momento, per Musk l’Argentina rappresenta il Paese più interessante».
Prima ha accennato all’instabilità della grande nazione sudamericana, come sta andando il governo in carica?
«L’economia sta lentamente riprendendo, però l’inflazione resta molto elevata, come lo squilibrio sul mercato dei tassi di cambio, quello ufficiale e quello “nero”. Milei vuole liberalizzare il tasso di cambio ma sa che, quando lo farà, ci sarà una grande svalutazione, che porterà ulteriore inflazione. La situazione macroeconomica è ancora molto delicata. Dal punto di vista dei cambiamenti microeconomici, invece, sta procedendo, perché ci sta lavorando moltissimo con tutta la squadra (con Mauricio Macri e Patricia Bullrich, soprattutto). Ma è ancora presto per dire che sia fuori da una situazione di pericolo. C’è anche l’incognita delle elezioni di metà mandato, dove verranno rinnovati metà dei parlamentari: lui vorrebbe rafforzare il suo partito, ma non è detto che vada così».
Oltre all’economia, un tratto che li accomuna è un entourage di persone “bizzarre”: la sorella del presidente è una sedicente astrologa, mentre Musk ha una collezione di mogli alquanto “originale”…
«Karina è Segretaria generale della Presidenza della Repubblica ed è la prima consigliera del fratello. Anzi, si vocifera che le decisioni più importanti le prenda lei. Per Musk è diverso: non credo che le mogli influiscano sulle aziende».
Un’azienda, però, è una specie di piccola nazione, dove ci sono azionisti/elettori…
«Assolutamente. Il patrimonio personale di Musk è un terzo del Pil dell’Argentina. Se aggiungiamo anche gli utili delle aziende, il dato lo supera. La potenza dell’imprenditore non è paragonabile a quella di Milei. Che, sì, è presidente di un Paese, ma la sua influenza economica e politica è nettamente inferiore a livello globale. Infatti è stato quest’ultimo ad andare in Texas in “udienza” da Musk. E non è stato l’unico. In america latina sono pochi i Paesi che hanno un prodotto interno lordo superiore al patrimonio del sudafricano».
Entrambi si professano anticomunisti e antisocialisti, però Musk in Cina ci è andato.
«Milei ha sempre ribadito che gli imprenditori argentini possono fare come credono, ma lui in Cina non metterà mai piede. È avverso perfino al “vicino di casa”, il presidente socialista del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva. Con Jair Bolsonaro, invece, è in ottimi rapporti. Come Musk, del resto».
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In questo momento c’è il Venezuela sotto i riflettori
«Sì, Milei ha ritirato l’ambasciatore a Caracas e il Brasile ha issato la propria bandiera sull’edificio, a tutela degli oppositori di Nicolàs Maduro che vi si erano rifugiati. Una situazione alquanto peculiare».
Ed è cronaca recente lo scontro tra Musk e il presidente venezuelano, che ha bloccato X nel Paese per 10 giorni, dopo le esternazioni del multimiliardario (“è un dittatore”, tra le altre).
Quello che risulta evidente è che uno degli uomini più ricchi del mondo (se non il più ricco) sta da tempo invadendo l’America latina. Rigorosamente da destra.
(foto ANSA)