Nomine Rai, i due forni di Conte e l’indecisione di Schlein (lettera43.it)

di Marco Zini

Se da una parte il leader del M5s si muove con 
gli alleati del centrosinistra, dall'altro non 
disdegna il dialogo con i meloniani. 

Sul tavolo la possibilità di un presidente di garanzia al posto di Simona Agnes. In caso il piano non andasse in porto i 5 stelle potrebbero votare la candidata lettiana in cambio però di almeno due direzioni pesanti come Tg3 e Tgr.

E il Pd? Non pervenuto.

Inizia una settimana caldissima per la Rai. Lunedì i lavoratori incrociano le braccia per protestare contro lo stallo al vertice e la mancanza di un piano industriale. Dopo mesi di scontri e polemiche, ora si andrà a bomba. Giovedì 26 settembre a Montecitorio e Palazzo Madama si voteranno i quattro consiglieri di nomina parlamentare, due alla Camera e due in Senato.

Contemporaneamente il Mef indicherà altri due consiglieri, così da arrivare a sette (quello dei dipendenti, Davide Di Pietro, è già stato eletto due mesi fa), che saranno l’amministratore delegato (Giampaolo Rossi) e il presidente. È su quest’ultima figura che le trattative andranno avanti fino all’ultimo. Perché la predestinata del centrodestra, Simona Agnes (quota Fi ma spinta soprattutto da Gianni Letta), non ha i voti in Vigilanza, dove il presidente deve essere eletto con maggioranza di due terzi: 28 voti.

Il centrodestra, dando per acquisito il voto di Maria Stella Gelmini (che ha da poco lasciato Azione per entrare in Noi Moderati), ne conta 26: gliene mancano due. Non potendo pescare tra le due renziane (Maria Elena Boschi e Dafne Musolino), che su un dossier così caldo non possono permettersi di voltare le spalle al Pd, gli occhi sono tutti puntati sul M5s.

Nomine Rai, i due forni di Conte e l'indecisione di Schlein
(Giampaolo Rossi e Simona Agnes Imagoeconomica)

La doppia partita di Conte

Giuseppe Conte è stato furbo. Da una parte ha fatto credere agli alleati di centrosinistra di volersi muovere insieme sulla Rai, tanto da sottoscrivere un documento comune in cui si chiede di procedere con la riforma della governance secondo i parametri del Media Freedom Act prima delle nomine, altrimenti l’opposizione non parteciperà alle votazioni e salirà, come si suol dire, sull’Aventino.

Usando di sponda la sua fidata presidente della Vigilanza, Barbara Floridia. Ma mentre Pd e Avs al momento escludono qualsiasi tipo di accordo con la maggioranza, l’ex premier in un paio di occasioni s’è smarcato. «Voteremmo un presidente dal profilo alto, di garanzia, che sia fuori dalle logiche dei partiti. Ma al momento, a vedere i nomi, non ne vedo…».

Tradotto: togliete di mezzo Agnes e parliamo. Messaggio recepito a Palazzo Chigi, dove Giorgia Meloni ha chiesto chiaramente ad Antonio Tajani di rinunciare alla figlia di Biagio Agnes: via lei e trattiamo un altro nome con i pentastellati. Poi i meloniani hanno recapitato ai 5 stelle il seguente messaggio: dateci una rosa di tre nomi per noi accettabili e vediamo. Nomi che ancora non ci sono, ma potrebbero arrivare nelle prossime ore.

Si parla di Milena Gabanelli e dell’ex direttore dell’Espresso Giovanni Valentini (firma delFatto), che però difficilmente andranno in meta: la prima è improbabile che accetti, il secondo potrebbe risultare indigesto ai meloniani. Ma Conte avrebbe nella manica anche un terzo nome, che ancora vuol tenere coperto. Staremo a vedere.

Se l’accordo coi 5 stelle su un presidente di garanzia non dovesse andare in porto, c’è però un piano B. I pentastellati potrebbero far convergere i voti che servono su Agnes, che diventerebbe presidente, in cambio di almeno un paio di direzioni “pesanti”: il Tg3 o la Tgr (in pole l’ex direttore del Tg1 Giuseppe Carboni), ma c’è pure RaiSport. Mediatore della trattativa è il futuro ad Giampaolo Rossi, che in passato, in Cda, diede una grossa mano all’ex ad pentastellato Fabrizio Salini. Ora quei canali sono stati riattivati.

Nomine Rai, i due forni di Conte e l'indecisione di Schlein
(Giuseppe Conte (Imagoeconomica)

Il vecchio patto del ticket Sergio-Rossi è stato rispolverato

Se invece Conte non fosse disponibile a dare soccorso giallo a Agnes, a quel punto la partita cambierebbe. Agnes verrebbe bocciata in Vigilanza e le veci di presidente spetterebbero al consigliere anziano.

Per questo la Lega ha deciso di cambiare cavallo per il Cda, proponendo l’ex direttore di Rai2 Antonio Marano (68 anni) al posto dell’attuale direttore della Tgr Alessandro Casarin (66 anni). Sarebbe dunque Marano (su cui però Matteo Salvini ha delle perplessità non foss’altro perché è un nome della “vecchia Lega”) a svolgere le funzioni da presidente in attesa di capire quale nome ripresentare in Vigilanza, magari anche la stessa Agnes.

Al momento, dunque, lo schema prevede Rossi ad; Agnes, Marano o un terzo nome gradito ai 5 stelle alla presidenza; Roberto Sergio direttore generale (che mercoledì scorso è andato a perorare la sua fedeltà a Palazzo Chigi, dove ha visto la premier). Insomma, il vecchio patto con lo scambio Rossi-Sergio è stato rispolverato e ripresentato a tavola.

Nomine Rai, i due forni di Conte e l'indecisione di Schlein
Roberto Sergio Imagoeconomica)

Nomine Rai, Conte e AVS si spartiscono il CdA con la destra: “il campo largo non esiste”, Schlein e il Pd isolati (unita.it)

di Carmine Di Niro

Alleanza già finita?
Nomine Rai, Conte e AVS si spartiscono il CdA con la destra: “il campo largo non esiste”, Schlein e il Pd isolati

Il riassunto migliore della situazione nel centrosinistra lo regala Angelo Bonelli, portavoce dei Verdi che assieme a Nicola Fratoianni forma l’Alleanza Verdi-Sinistra: “Il campo largo non esiste”.

E infatti dopo le divisioni sulla politica estera, supporto all’Ucraina in primis, il parallelismo contiano tra Trump e Harris per le presidenziali Usa del prossimo novembre e il ‘no’ alla firma per il referendum sulla cittadinanza dell’ex premier, anche sulla Rai quello che dovrebbe essere il “campo largo” contro la destra va in frantumi.

Chi sono i consiglieri eletti nel CdA Rai

L’ennesima dimostrazione di una alleanza impossibile è arriva questa mattina in Parlamento: alla Camera vengono eletti due consiglieri per il prossimo CdA della tv pubblica, con la scelta ricaduta su Federica Frangi, giornalista del Tg2 in “quota Fratelli d’Italia”, e Roberto Natale, per sei anni presidente della Federazione Nazionale Stampa Italiana (il sindacato nazionale dei giornalisti), eletto in quota AVS col sostegno dei 5 Stelle.

Per Frangi i voti sono stati 174, arrivati da tutte le forze di maggioranza, mentre quelli per Natale 45 su cui sono confluiti i voti del Movimento Cinque Stelle e di Alleanza Verdi e Sinistra. I voti dispersi invece sono stati tre, sei le schede bianche e tre quelle nulle.

Scena fotocopia andata in onda anche al Senato, dove l’Aula ha eletto Antonio Marano Alessandro Di Majo. Il primo, ex direttore di Rai2 indicato dalla Lega, è stato il più votato con 97 voti. Di Majo, già consigliere in quota M5s dal 2021, ha ottenuto 27 voti. Un voto è stato per Ruggero Aricò, due schede bianche e quattro nulle. Hanno partecipato al voto 131 senatori. Pd, Italia Viva e Azione non hanno partecipato al voto.

Come da previsioni della vigilia, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha proposto alla presidenza del Consiglio dei ministri la nomina di Simona Agnes e Giampaolo Rossi (come amministratore delegato) nell’ambito del Cda della Rai. 

Il “campo largo” si spacca

Come era emerso già nella giornata di mercoledì, alla prova dei fatti il “campo largo” si è rotto in Aula. I parlamentari del Partito Democratico, coerentemente con la scelta presa dalla segreteria Elly Schlein, hanno scelto di non partecipare al voto non rispondendo alla chiamata.

Scelta questa condivisa da Italia Viva e da Azione, mentre i 5 Stelle di Giuseppe Conte e AVS hanno infine deciso di esprimere il proprio voto. Una mossa che non è piaciuta, per usare un eufemismo, alla leader Dem: “Il Pd è rimasto sulla posizione che era di tutte le opposizioni fino a ieri. Noi rimaniamo coerenti con l’idea che sia sbagliato rinnovare un consiglio di amministrazione che sostanzialmente è già fuori legge perché il Media Freedom Act europeo è un regolamento già entrato in vigore”.

Le fa eco Maria Elena Boschi per Italia Viva, con Matteo Renzi sempre più posizionato a sostegno dei Dem: “Noi abbiamo condiviso la linea di Elly Schlein – spiega l’ex ministro – quindi non parteciperemo al voto come non parteciperà il Pd. Se anche il Movimento 5 stelle avesse tenuto la stessa linea, oggi la maggioranza sarebbe in difficoltà, invece loro hanno preferito fare accordi con il centrodestra per i posti nel Cda. Siamo abituati a queste scelte un po’ bizzarre da parte dei grillini, spero che smettano di dare lezioni agli altri”.

Conte rompe i patti

Giuseppe Conte difende invece la sua posizione e quella dei suoi deputati. Per l’ex premier “il Consiglio di amministrazione non è una poltrona. Sono funzioni di controllo e vigilanza”.

“Chi non vuole occupare le poltrone in Rai dica ai suoi ‘uscite fuori dalla Rai e abbandonate le poltrone’”, ha aggiunto il leader politico dei 5 Stelle, concludendo: “La riforma della governance della Rai non si può fare in tempi rapidi. E nel frattempo cosa facciamo? Rimaniamo senza cda? Lo lasciamo quindi a Giorgia Meloni e alle forze di maggioranza, senza esercitare neppure quel minimo controllo per il pluralismo e per le funzioni di vigilanza e di controllo?”.

Quanto a Bonelli e alle sue parole sul “campo largo” che “non esiste”, il portavoce dei Verdi è netto nelle sue dichiarazioni: “Se esistesse avremmo una situazione differente. È un lavoro che dobbiamo fare con molta pazienza, ci riusciremo. Abbiamo molti punti in comune, ma sulla Rai abbiamo una valutazione diversa. Noi non riteniamo saggio lasciare a Telemeloni il controllo del CdA”.

Quella volta in cui ho acciuffato il mio primo (neo)nazista (linkiesta.it)

di

Goodbye, Hitler

In “Eravamo come fratelli”, Daniel Shulz ripercorre la trasformazione dei giovani nati nella Ddr e cresciuti durante gli anni Novanta, esplorando la metamorfosi degli ideali socialisti in odio e violenza.

Una riflessione potente sull’origine della xenofobia e dell’estremismo di destra nella Germania post-comunista

Ho acciuffato il mio primo nazista. Era solo un piccoletto, un Wessi non uno di quei giganti che girano da noi in Brandeburgo. E dire che in realtà volevo solamente andare a prendere dell’erba, per Marik, che fa il servizio civile con me, e dice che gli sbirri non mi controllano spesso quanto lui.

È soltanto uno sfaticato, ma a me piace andare in treno a Berlino, quindi fa lo stesso. Esco dalla stazione, attraverso un incrocio, giro a sinistra in una via tutta villette unifamiliari e con un cimitero.

Lì mi viene incontro una testa rasata, sul metro e settanta, a occhio non sono bravo a fare stime. Sopra il tizio sembra grosso, a causa della giacca pesante, nera e tutta di pelle sulle spalle. Sotto spuntano due gambette sottili come stecchi. Quando siamo alla stessa altezza, sento: «Checca».

Gli è scattato il sensore per gli hippie – i miei capelli lunghi, gli occhiali, la stoffa morbida della mia giacca inca. Sono due teste più alto di questo omino stecco. Nello stomaco mi si accumula una sensazione di calore che risale l’esofago fino in testa.

Per un secondo il cervello mi sbalza in un mondo parallelo, quando faccio ritorno cammino come un robot, passi rigidi, sconnessi. Mi giro e corro dietro al tizio. Al semaforo successivo lo acchiappo, per il braccio destro, lo afferro e con uno strattone lo faccio voltare verso di me.

«Ehi!». I suoi occhi sono verde scuro. Vorrei che anche i miei fossero così.
«Ciao». Spero di dirlo in tono molto tranquillo, come in un film. Forse perfino sorrido.
«Che vuoi?». Cerca di liberarsi, alza la voce, urla che sono uno stronzo finocchio.

Io continuo a tenerlo fermo. Poi all’improvviso grida aiuto. Sono così sorpreso che lo lascio andare, insomma, non avevo mai sentito prima un nazista gridare aiuto, neanche quella volta durante la rissa al parcheggio, quando a Torsten hanno spappolato la testa come un pomodoro.

Un secondo, due secondi, tre. La testa rasata potrebbe correre via con le sue gambe sottili, ma è stato colto troppo alla sprovvista. Lo afferro di nuovo, sul davanti della giacca, con entrambe le mani.

«Forza, ariano!». Lo scuoto come farebbe un naufrago con una palma. «Una barzelletta sugli ebrei, raccontami una barzelletta sugli ebrei».

Mi guarda con gli occhi verdi sbarrati. Un cervo nel cono di luce dei fari di un’auto.
Conto: «Tre, due…».
Una mano si avvinghia al mio braccio destro. «Ehi, ma che sta facendo?».

Un tizio giovane, capelli arruffati, indossa un cappuccio variopinto che sembra fatto a mano all’uncinetto. «Lasci andare quell’uomo, per favore» dice il tizio, e io lo lascio andare.

Lo lascio andare e pianto il palmo della mano sinistra sul naso dell’Uomo Uncinetto, o almeno questo è il piano, ma lui si scansa, abbassandosi con una mossa stranissima, e io lo colpisco in mezzo alla fronte. Lui cade di culo all’indietro.

«Ahia, ma sei scemo?». Lo dice a bassa voce, e con una faccia confusa come se si svegliasse in questo istante nel suo letto, chiedendosi se sta ancora sognando. Penso a cosa dire, deve andare a farsi fottere, è questo che voglio dirgli, quando dietro di me si sentono dei passi pesanti. Bum. Bum. Bum. Il mio nazista sta tagliando la corda.

Quando entrambi attraversiamo di corsa col rosso, per poco non vengo investito da un pick-up, un coso grosso con le gomme gigantesche, quasi un monster truck. Il tizio al volante si sbraccia, io grido: «Scusa!», e continuo a correre.

Di nuovo dentro la stazione, su per le scale che portano ai binari. Lì ci sono due treni. Sceglie quello a sinistra, il penultimo vagone. Io faccio uno scatto dietro di lui e mi infilo appena in tempo nelle porte che si stanno chiudendo.

Lui mi vede e sgrana gli occhi, forse finora uno zelo tale l’aveva visto solo nei suoi simili. Corre in fondo alla vettura, lì è finita, e il treno parte. Qualcuno grida qualcosa, di smetterla, una voce di donna alle mie spalle, ma io ho occhi soltanto per la mia testa rasata. Alza le braccia saltellando come un pugile, io gli assesto un pugno alle reni, o comunque lì da quelle parti. Lui urla e si contorce.

Poi la cosa si fa davvero strana. Il nazista non cerca più di colpire, mi afferra i capelli con la mano sinistra e si lascia cadere trascinando giù con sé anche la mia testa. L’altra mano mi strizza le palle, o almeno ci prova, ma io sto in piedi a gambe larghe, e i jeans formano un triangolo protettivo tra le mie cosce, duro come un’armatura.

Lo prendo a calci nei fianchi, nella schiena, nello stomaco, ma a quello non riesco veramente ad arrivarci. In faccia non voglio colpire, denti, occhi, è troppo rischioso per me.

Non picchiare come una marionetta, così mi ha detto Sandro una volta, allarghi troppo il braccio per caricare, sferra colpi brevi e forti. Probabilmente sto sbagliando di nuovo.

Il nazista urla, continua a urlare la stessa cosa: «Che vuoi? Che vuoi?». A un certo punto scoppia a piangere.

I miei capelli però non li molla, e anche se non può pesare molto, sento come se mi strappasse via il cuoio capelluto. Do uno strattone all’indietro col busto. La testa mi brucia, e nella sua mano vedo lunghi capelli biondi.

Quando sbatto la fronte contro la sua, schiocca come una noce, rimbombandomi in testa. Lui finisce barcollando sulla parete del vagone, le sue mani non trovano un appiglio, scivola giù. Smetti quando uno è a terra, questo non me l’ha detto Sandro, ma mio padre. Sferro ancora due calci.

Gli sbirri arrivano due stazioni più avanti. Il commissario capo strepitando mi ordina di togliere le mani dalle tasche, molto lentamente. Chiede se ho un coltello.

Mi caricano sul loro furgone e mi spediscono a Potsdam, alla polizia ferroviaria. Il nazista non viene. In un ufficio un tizio batte su una vera macchina da scrivere la mia deposizione. In realtà non posso dire un bel niente, devo tenere la bocca chiusa. Gli racconto tutto.

Qualche settimana più tardi sono seduto nello studio di un’avvocata vicino al Ku’damm, il mio nazista mi ha denunciato. Naturalmente ho un’assicurazione che copre le spese giudiziarie, in fondo mio padre ci lavora, nelle assicurazioni.

L’avvocata mi guarda come una gatta che ha appena mangiato, ma nel tunnel dietro le sue pupille la fame è in agguato. «La deposizione che ha reso a Potsdam era subottimale» dice. «In tribunale ce la caveremo». In fin dei conti mi sono difeso da un estremista di destra, perciò sono un eroe.

Lo sguardo da gatta pasciuta si smorza quando le dico che non voglio andare in tribunale, ho troppo da fare, non ho tempo, mi dispiace. Non le dico che ho paura che la giudice mi possa chiedere perché ho menato quel tizio.

Se apro bocca una volta, potrei non smetterla più di parlare. Le racconterei tutto: di come Volker mi ha salvato dai due tizi con le tette alla Rambo. Dell’aggressione al parcheggio, quando sono corso via, e della sera in cui hanno preso Mariam e io per la paura non ho neanche pensato di mollare un pugno al piccolo Nowak.

Alla fine, e riesco a vedermi la scena in tutti i dettagli, mi inginocchierei davanti alla giudice chiedendole perdono come a un prete cattolico.

Mi costerà quattrocento bigliettoni, così dice l’avvocata, se non voglio chiarire la faccenda con il nazista in tribunale. Quattrocento bigliettoni per non dover parlare di tutta la merda successa prima, di che razza di codardo sono stato. Quattrocento bigliettoni per poter continuare a tenere la bocca chiusa. È uno scambio equo, direi.

Da “Eravamo come fratelli” di Daniel Schulz, Bottega errante edizioni, 296 pagine, 20 euro