Niente grazia: Marcellus Williams giustiziato dal boia senza prove (ildubbio.news)

Usa

Il 55enne afroamericano aveva passato gli ultimi 23 anni nel braccio della morte.

Sull’arma del delitto non c’era il suo Dna e la stessa famiglia della vittima aveva dubbi

Aveva evitato l’iniezione letale nel 2015 e nel 2017, ma la sua condanna non era stata annullata nonostante la clamorosa mancanza di prove. Cosi intorno alle 23.00 di martedì scorso il detenuto Marcellus Williams è stato giustiziato nella prigione di Bonne Terre nel Missouri. L’uomo 55enne era in cella da 23 anni, dal momento in cui venne condannato per l’omicidio di Felicia Gayle, un’ex giornalista e assistente sociale, trovata pugnalata a morte nella sua casa nel 1998.

Williams ha sempre sostenuto la sua innocenza e per una volta la stessa famiglia della vittima aveva paventato la possibilità che l’uomo non avesse commesso il brutale assassinio. La vicenda giudiziaria di Williams sembra in tal senso il classico caso di malagiustizia.

Durante il processo, i pubblici ministeri avevano sostenuto che Williams avesse fatto irruzione in casa della donna assassinata che si trovava sotto la doccia. Una volta uscita era stata uccisa con un grosso coltello da macellaio. Sempre secondo l’accusa, Williams aveva rubato un computer che poi aveva rivenduto.

I pubblici ministeri avevano anche presentato la testimonianza di Henry Cole, che ha condiviso la cella con Williams nel 1999 mentre era in carcere per una rapina a mano armata in un negozio di ciambelle. Cole testimonio che Williams aveva confessato l’omicidio fornendo dettagli specifici. Inoltre anche la sua ragazza dell’epoca sostenne che l’accusato portava una giacca per coprire le macchie di sangue nonostante il gran caldo di quei giorni.

Ma gli avvocati hanno sostenuto che non c’erano prove forensi che collegassero Williams alla scena del crimine e che l’arma del delitto era stata maneggiata male, mettendo in dubbio la prova del DNA. I test infatti hanno dimostrato che il materiale genetico sul coltello apparteneva a membri dell’ufficio del procuratore che lo avevano toccato senza guanti dopo le prove di laboratorio originali del crimine.

Secondo un rapporto dell’Associated Press, la difesa di Williams ha anche sostenuto che sia la ragazza che Henry Cole avevano condanne penali e stavano sperando in una ricompensa di 10 mila dollari. Hanno anche prodotto altre prove come un impronta di scarpe insanguinata e capelli trovati sulla scena del crimine che non corrispondevano a quelli di Williams.

Sulla condanna a morte pesa anche il sospetto di razzismo, Williams infatti era nero e durante la reclusione si era convertito all Islam diventando un Imam. Dalla giuria sono stati esclusi alcuni giurati afroamericani con motivazioni abbastanza risibili come quella di una somiglianza troppo marcata con l’imputato tale da far sospettare una parentela stretta.

Risulta così controverso l’iter processuale piu recente in cui senza prove del DNA che indicassero sospetti alternativi, gli avvocati avevano raggiunto un compromesso con l’ufficio del procuratore. Williams avrebbe presentato una nuova dichiarazione di non contestazione per omicidio di primo grado in cambio di una condanna all’ergastolo senza condizionale.

Il giudice Bruce Hilton aveva approvato l’accordo, così come la famiglia di Gayle. Tuttavia, il procuratore generale repubblicano Andrew Bailey ha presentato ricorso, portando la Corte Suprema dello Stato a bloccare l’accordo e ordinare a Hilton di condurre un’udienza probatoria.

Il 12 settembre scorso Hilton ha così stabilito che la condanna per omicidio di primo grado e la condanna a morte sarebbero rimaste in vigore, affermando che le argomentazioni di Williams erano state tutte precedentemente respinte.

La Corte Suprema dello Stato ha confermato questa decisione lunedì. Il governatore Michael Parson, repubblicano anch’esso, ha respinto la richiesta di clemenza di Williams.

Il selfie di Meloni con Novák, la protagonista dello scandalo pedofilia che persino Orbán ha dovuto allontanare (editorialedomani.it)

di Francesca De Benedetti

Sorrisi e selfie dagli States

La fedelissima orbaniana ha dovuto dimettersi da presidente della Repubblica ed è uscita dalla scena politica ungherese.

Ma la premier la abbraccia all’Atlantic Council, mentre lei predica sui «bambini che salvano il mondo». Le relazioni (pericolose) tra meloniani e orbaniani

Probabilmente Giorgia Meloni ha sperato che in Italia nessuno ricordasse la biografia politica di Katalin Novák, o più semplicemente ci sono connessioni che per lei neppure gli scandali interrompono.

Fatto sta che la ex presidente della Repubblica ungherese, costretta a dimettersi questo febbraio per il suo coinvolgimento in uno scandalo pedofilia, ha potuto esibire una foto scattata negli Stati Uniti assieme alla premier italiana e ad Elon Musk, accompagnata dalla scritta: «Solo i bambini possono salvare il mondo».

Inoltre, stando a fonti ungheresi, sarebbe stata proprio Meloni a garantirle l’invito alla cerimonia all’Atlantic Council. Novák si fa promotrice di una «no profit contro il collasso demografico».

Chi è Novák, e lo scandalo

Katalin Novák è stata sempre considerata una fedelissima di Orbán. Anzitutto è stata la ministra della Famiglia (della «famiglia tradizionale»), della propaganda anti Lgbt, del World Congress of Families e del summit demografico di Budapest; ha sempre avuto rapporti stretti con leghisti come Lorenzo Fontana e ovviamente coi meloniani.

Poi da presidente – un ruolo da lei assunto nella primavera 2022 – ha svolto il ruolo di maschera del potere: era lei a fare il viaggio in Ucraina, le missioni riconciliatrici, a gettare strati di cipria sulle contraddizioni orbaniane.

Per lei il terremoto politico comincia il 2 febbraio di quest’anno: il portale 444 rivela che nell’aprile 2023, contestualmente con la visita del Papa a Budapest, la allora presidente della Repubblica ungherese ha concesso la grazia presidenziale al vicedirettore dell’orfanotrofio di Bicske, che aveva cercato di coprire gli abusi pedofili, arrivando a forzare i bambini a prestare falsa testimonianza.

Di fronte alle rivelazioni, Orbán non ha preso le sue difese; si è limitato a dire che la Costituzione andava cambiata per evitare che casi simili si ripetessero e poi si è eclissato. Novák, che era in missione, ha dovuto quindi salire su un aereo di stato, indossare un tailleur color confetto, e annunciare le sue dimissioni.

Il selfie con Meloni

Questo pomeriggio la protagonista dello scandalo pedofilia ha twittato come slogan: «Only children can save the World», accompagnando il tutto con il selfie assieme a Meloni e Musk, con il quale un anno fa si faceva fotografare sostenendo di voler combattere il declino demografico.

Novák – che dopo lo scandalo è ormai fuori dalla politica ungherese e si accontenta di ricevere titoli onorari da università della Corea del Sud – si fa ora promotrice di una «no profit globale contro il collasso demografico», come spiega anche per motivare il suo incontro con Meloni e Musk.

Fonti ungheresi riferiscono che sarebbe stata proprio Meloni a garantirle un invito all’Atlantic Council.

Mondo orbaniano e meloniano

I rapporti tra la premier italiana e quello ungherese non si sono mai interrotti.

Novák – che in passato ha accompagnato Orbán nei suoi viaggi romani e che ha partecipato a iniziative con leghisti come Fontana ed esponenti di FdI –  ha anche svolto un ruolo nel favorire il riavvicinamento pubblico tra i due un anno fa.

Dato che, a guerra in Ucraina appena scoppiata, la leader di FdI aveva contenuto i selfie col premier filoputiniano, a settembre del 2023 la allora presidente della Repubblica ungherese ha invitato Meloni al summit demografico di Budapest, fornendo così un’occasione formale ai due capi di governo per un bilaterale ungherese.

Non c’è quindi da stupirsi che le due abbiano rapporti stretti.

Ma è piuttosto scandaloso che Meloni tuttora esibisca selfie con la ex presidente controversa, così imbarazzante che persino il suo mentore politico Orbán ha separato la propria strada pubblica dalla sua.

Le trame di Conte sulla Rai rendono il campo largo una pantomima politica (linkiesta.it)

di

Telenerogialla?

In sfregio al patto siglato ad agosto col Partito democratico, il leader del Movimento 5 stelle vuole accordarsi con il governo sul consiglio di amministrazione della televisione pubblica e ottenere qualche nomina, piazzando Giuseppe Carboni alla direzione del Tg3, al posto di Mario Orfeo

E meno male che ad agosto il cosiddetto campo largo aveva siglato un patto d’unità d’azione contro Tele-Meloni! Un mese e mezzo dopo Giuseppe Conte quel patto lo sta rompendo secondo la sua ormai proverbiale doppiezza con la quale porta a spasso il Nazareno come gli pare.

È una specie di beffa della storia: sulla Rai il Partito democratico, cioè un partito che dovrebbe fare politica dentro le situazioni concrete, vive una stagione neopopulista che lo porta dritto dritto a ritirarsi sull’Aventino; mentre l’avvocato, che in teoria in nome della diversità dovrebbe porsi fuori dai giochi, briga con la maggioranza per avere un posto a tavola.Il risultato è che questo benedetto campo largo è sempre più una pantomima.

L’Ucraina è un miliardo di volte più importante delle pochezze di viale Mazzini ed è soprattutto quello il terreno della più grande truffa di Conte, il pacifista che in realtà tifa per Mosca, come da ultimo dimostra lo scoop di Massimiliano Coccia su Linkiesta relativo alla campagna “La Russia non è nostra nemica” ordita da un collaboratore di Virginia Raggi.

La doppiezza sulla Rai però non scherza. Conte vorrebbe fare un doppio sgambetto mica male al Pd: trattare con la destra sul consiglio di amministrazione e insieme beccare qualche nomina. L’obiettivo principale è il Tg3 dove al posto di Mario Orfeo, vicino al Pd, vorrebbe insediare il redivivo Giuseppe Carboni, già direttore del Tg1 in epoca gialloverde e ora direttore di Rai Parlamento, in pratica il giornalista di fiducia del Movimento 5 stelle.

Se Orfeo non schiva il colpo, sarebbe un cazzotto nell’occhio di Elly Schlein. Che come tale non dispiacerebbe certo a un centrodestra che si appresta a prendersi più o meno tutta la Rai. In subordine, il fido Carboni potrebbe approdare a Rai News, con il meloniano Paolo Petrecca dirottato a Rai Sport o al Giornale radio.

È chiaro che la cornice della rottura del patti è tutta politica e va oltre la questione  dei posti. Domani Camera e Senato si riuniranno per eleggere i quattro consiglieri di amministrazione di indicazione parlamentare. Subito dopo il ministero dell’Economia, nella sua veste di azionista di controllo, designerà l’amministratore delegato, che sarà il meloniano Giampaolo Rossi, che scambierà il posto di direttore generale con l’attuale ad Roberto Sergio, e un altro consigliere, la forzista Simona Agnes, che diventerà presidente della azienda.

Questo è il patto di ferro del centrodestra. Ma che farà il Pd? La linea di Schlein e dei suoi collaboratori è quella dell’Aventino, evitando cioè di designare propri consiglieri, e nemmeno partecipando alla seduta della Commissione parlamentare di vigilanza che dovrà ratificare, con i due terzi, la nomina del presidente. Stare fuori da tutto, visto che la destra non accetterà mai un presidente di garanzia come vorrebbe il Pd, che è il primo a saperlo.

Dunque, il messaggio è: alzarsi e andarsene. Un passo in più rispetto a quello che fece ai suoi tempi Pier Luigi Bersani che nel Cda mise Benedetta Tobagi e Gherardo Colombo, la cosiddetta società civile al potere, cioè l’inizio del populismo applicato alla questione televisiva, il primo passo della ritirata poco strategica del Pd da un terreno vitale per la democrazia come il servizio pubblico (salvo poi trattare sui posticini nelle redazioni e sui trenta secondi nei pastoni dei tg).

Siamo dentro la logica del tanto peggio tanto meglio. L’azienda è allo sbando e la concorrenza di La7 e Nove quest’anno si farà sentire. Fatti loro, di Giorgia Meloni, certo.

Però è un problema del Paese. Di solito una forza che vorrebbe essere di governo non scappa, per di più tradita dal principale alleato che tratta sottobanco con gli avversari.

Un altro episodio del disfacimento del campo largo, una barca che sta andando sugli scogli.

Il nuovo fronte (corriere.it)

di Paolo Mieli

L’ esplosione in contemporanea di migliaia di 
cercapersone in mano (o in tasca) a esponenti 
Hezbollah in Libano e in Siria, e quella dei 
walkie-talkie, per un attimo hanno restituito 
la fama sempiterna all’intelligence israeliana. 

Fauda , la serie tv che ha reso celebri quei servizi segreti, è di nuovo tra noi. Giusto alla vigilia del primo anniversario del 7 ottobre che invece quella fama l’aveva incrinata in un modo forse definitivo.

Nel senso che da quel momento in poi nessun cittadino israeliano potrà più fidarsi ciecamente della nomea del Mossad. Anche per quel che è seguito al 7 ottobre di un anno fa. Nel corso di dodici mesi Gaza è stata pressoché distrutta, Israele è stata sconvolta da possenti manifestazioni antigovernative al ritmo di una alla settimana (talvolta due o tre), il governo d’unità nazionale formatosi per affrontare la crisi a giugno è andato in frantumi.

In più si è scoperto che i servizi segreti di Tel Aviv e Gerusalemme avevano un’idea piuttosto approssimativa del reticolo militare sottostante a Gaza. E che per anni aveva funzionato un flusso di armi in direzione di quella struttura sotterranea di cui nessuno aveva precisa contezza. E si è scoperto altresì che Israele aveva il peggior apparato del mondo intero per illustrare le condizioni in cui si è venuta a trovare e le scelte che stava compiendo.

I n aggiunta, gran parte dei rapiti è a tutt’oggi nelle mani dei rapitori, per liberarli è stato ucciso un numero impressionante di soldati e si sono aperti nuovi fronti militari, anch’essi tutt’altro che imprevedibili. Adesso la guerra si sposterà probabilmente a Nord, alle frontiere con il Libano dove esiste una struttura militare ostile assai più potente di quella di Hamas, un reticolo anch’esso sotterraneo degli hezbollah, i quali però sono vulnerabili— come dimostra il clamoroso infortunio dei cercapersone — e non hanno in mano chatufim (ostaggi).

Israele è obbligata ad aprire quel fronte non foss’altro per riportare a casa, in sicurezza, migliaia e migliaia di abitanti di quella regione che da mesi sono stati costretti a riparare in dimore di fortuna.

Tutto ciò, accompagnato da un’ondata di discredito internazionale che ha spostato in un campo di inimicizia (o quasi) anche individui che in precedenza non erano pregiudizialmente ostili alla causa israeliana, persino personalità della diaspora ebraica.

E ha creato un sentimento pressoché unanime di ostilità nei confronti della persona di Benjamin Netanyahu. Un sentimento che non tiene in alcun conto il fatto che — come si è detto — fino a giugno Netanyahu ha guidato un gabinetto di unità nazionale: ragion per cui i nove decimi delle vittime di Gaza sono riconducibili non al solo Netanyahu bensì a politici votati dalla maggioranza del corpo elettorale di Israele.

E che tutti i predecessori di Netanyahu, in tempo di guerra quantomeno dal 1967 in poi (ma anche prima, ad esempio durante la guerra di Suez del ’56), furono accolti da diffusi sentimenti antipatizzanti. Quasi ovunque, nel mondo intero.

In passato però gli israeliani avevano dalla loro i presidenti degli Stati Uniti, cosa che adesso non è più. Biden ha mostrato all’inizio solidarietà per la causa israeliana unendosi però al coro di quelli che suggerivano allo Stato ebraico cosa «non fare» (all’indomani del 7 ottobre, l’ha esortato a non comportarsi alla maniera in cui aveva reagito Bush Jr all’abbattimento delle Twin Towers).

Poi gli ha spedito una decina di volte Blinken con un ambiguo mandato ad un tempo di incoraggiamento e di freno. Per impegnarsi direttamente in una trattativa di cui, va detto, è impossibile, o comunque assai difficile individuare l’orizzonte.

Adesso oltretutto il presidente degli Stati Uniti si ritrova congelato per i mesi che vanno di qui al 20 gennaio quando uscirà dalla Casa Bianca e ha passato la patata bollente alla povera Harris che rischia, per il protrarsi del conflitto, di perdere ampi strati di elettorato che simpatizzano o nutrono sentimenti di antipatia per entrambi i contendenti.

L’Europa ha avuto un comportamento analogo a quello di Biden non aiutata dalle Nazioni Unite che si sono mostrate assai poco sensibili, se non in modo rituale e del tutto generico, nei confronti della sorte degli ostaggi israeliani.

Sicuramente la vicenda dei cercapersone esplosivi — come del resto la capacità di parare missili e razzi provenienti da ogni direzione e di colpire a morte dirigenti di Hamas e di Hezbollah — restituirà almeno in parte agli israeliani fiducia nelle capacità militari del proprio Paese. Ma la via del ritorno a casa dei chatufim (vivi o morti) è ancora lunga.

Altrettanto lunga è la strada per cui i palestinesi di Gaza e dei territori possano considerare riparati i torti subiti. Ancor più lontana appare la meta di una pacifica convivenza tra Israele e i Paesi arabi circostanti. Neanche la cattura o l’uccisione di Sinwar cambierebbe in realtà questa prospettiva. Troppo tempo è passato dal 7 ottobre perché tutto possa risolversi con un evento ad effetto.

Stavolta è necessaria una soluzione di pace. Pace vera. Possibilmente definitiva.

Von der Leyen contro la protezione del lupo in Europa (wwf.it)

Il WWF chiede agli Stati membri di ascoltare la 
scienza e respingere la grave proposta di 
declassare lo status di protezione del lupo

Chiediamo agli Stati di respingere questa proposta che declassa lo status di protezione della specie

Contro ogni evidenza scientifica, la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha proposto di declassare lo status di protezione del lupo nella Convenzione di Berna, da specie “rigorosamente protetta” (Allegato II) a specie “protetta” (Allegato III). Il WWF sottolinea la sua assoluta contrarietà e invita gli Stati membri dell’UE a respingere questa proposta.

La Convenzione di Berna del Consiglio d’Europa è la più antica convenzione al mondo nel campo della conservazione della natura ed è in vigore dal 1979. È considerata la fonte originaria di diritto internazionale che ha portato all’adozione della Direttiva Habitat dell’UE, pietra miliare dei programmi di conservazione europei.

“Questa è una decisione grave, senza alcuna giustificazione scientifica, motivata da ragioni puramente personali e politiche, che va a minare gli straordinari sforzi di conservazione messi in campo negli ultimi decenni e che hanno permesso la ripresa numerica e spaziale delle popolazioni di lupo in molti paesi dell’UE- dichiara Isabella Pratesi, direttrice del programma di Conservazione al WWF Italia-.

La Presidente von der Leyen sta deliberatamente sacrificando decenni di lavoro di conservazione per il suo tornaconto politico, dando eco ai tentativi dei suoi alleati politici di strumentalizzare il lupo come capro espiatorio dei problemi socio-economici delle comunità rurali e del settore zootecnico. Questo approccio è inaccettabile e può creare un pericoloso precedente”.

La mossa della von der Leyen rappresenta un’inversione di rotta nelle politiche di conservazione che hanno fino ad oggi caratterizzato l’UE, ed è dettata da motivi puramente politici. A sostegno di questa interpretazione, lo scorso novembre l’UE aveva respinto il tentativo della Svizzera di declassare lo status di protezione del lupo, sostenendo che, sulla base dei dati più recenti, il lupo non aveva raggiunto uno stato di conservazione favorevole nella maggior parte degli Stati membri dell’UE.

Questo ripensamento è ancora più ingiustificato se si considera che i risultati dell’analisi approfondita della Commissione sulle popolazioni di lupi nell’UE, pubblicata oggi, non forniscono alcuna prova scientifica che lo stato della popolazione dei lupi sia cambiato in modo significativo nel giro di un anno.

Questo annuncio è anche in contrasto con l’opinione pubblica, così come rilevato dallindagine recentemente pubblicata sulla percezione delle comunità rurali riguardo la coesistenza con i grandi carnivori. I risultati mostrano che il 68% degli abitanti delle zone rurali ritiene che i lupi debbano essere rigorosamente protetti e più di due terzi (72%) concordano sul fatto che abbiano il diritto di coesistere con l’uomo e le sue attività.

Per il WWF proposta indebolisce il ruolo dell’UE come partner affidabile e leader nei forum internazionali, oltre a mettere in dubbio l’autenticità dei suoi sforzi per raggiungere gli obiettivi globali di biodiversità. Solo un anno fa, la Presidente von der Leyen aveva pronunciato un’importante dichiarazione a sostegno dell’accordo storico sull’azione globale per la natura per il 2030, insieme al resto della comunità internazionale. L’annuncio di oggi mette in discussione questi impegni internazionali dell’UE.

Una modifica alla Convenzione di Berna richiede una decisione del Consiglio e quindi una maggioranza qualificata degli Stati membri per approvare la proposta della Commissione. All’inizio del 2023, 12 Ministri dell’Ambiente hanno scritto al Commissario Sinkevičius assumendo una chiara posizione contro il declassamento dello status di protezione del lupo.

L’Italia al contrario, con il Ministro Lollobrigida, ha recentemente presentato un documento, sostenuto anche da Francia, Austria, Polonia, Romania, Grecia, Finlandia e Lettonia, in cui ignorando le più recenti evidenze scientifiche che sottolineano quanto gli abbattimenti non rappresentino una soluzione a lungo termine per la mitigazione dei conflitti con la zootecnia, viene chiesto alla Commissione UE di aggiornare lo status di protezione dei grandi carnivori, lupo compreso, nel quadro della Direttiva Habitat.

In diverse regioni europee è stata dimostrata che la coesistenza tra lupo e attività umane è possibile grazie a misure preventive efficaci, come l’installazione di diversi tipi di recinzioni, l’utilizzo di cani da guardiania per il bestiame e altre tecniche innovative in sperimentazione negli ultimi anni.

Le linee guida dell’Unione Europea consentono agli Stati membri di risarcire pienamente agricoltori e allevatori per i danni causati da specie protette, come il lupo, e di rimborsare interamente i costi di investimento per le misure di prevenzione. Anche il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) potrebbe fornire un sostegno alla coesistenza, ma gli Stati membri non hanno sfruttato appieno questa opportunità di finanziamento.

La proposta di diminuire il grado di protezione del lupo e di aprire a modalità di gestione cruente rappresenta dunque una strategia inaccettabile e populista, che mette a serio rischio il futuro della conservazione di una specie chiave degli ecosistemi europei senza risolvere i potenziali conflitti.