Di cosa parla Meloni a New York coi big della Silicon Valley? (huffingtonpost.it)

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Torna il fantasma del teorema di Casaleggio: 
allearsi con chi vince in rete in cambio 
della subalternità su dati e algoritmi

Giorgia Meloni pensa di sostituire l’Unione Europea con un consorzio di monopoli digitali. Il premio che riceverà a New York nell’Atlantic Council da Elon Musk, ratificherà un sodalizio a vasto raggio con la Silicon Valley.

Non solo la componente trumpiana del mercato tecnologico americano, capitanata appunto dal patron di Testa e X, ma anche dai gruppi più rappresentativi come Google e OpenAI, i cui vertici la premier italiana incontrerà nelle prossime ore.

Si delinea una strategia che potrebbe fare dell’Italia la retrovia del dominio in Europa dei grandi brand che già oggi controllano la stragrande maggioranza delle nostre azioni quotidiane.

Già la nuova commissione europea appare meno intransigente nella regolamentazione dei monopoli e delle intromissioni nella privacy dei cittadini per la mancanza di quelle figure -innanzitutto la commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager e il vice presidente Thierry Breton- che avevano provato ad arginare il dominio delle compagnie americane.

Comunque sono in corso procedure che tendono a ridurre la mano libera di cui ancora godono i grandi tycoon digitali, soprattutto nel veicolare contenuti di ogni origine e nel trattare con grande spregiudicatezza i dati dei cittadini. Ora poi si apre la partita dello spazio, dove la gestione dei satelliti di telecomunicazioni diventa il terreno di scontro sia a livello geopolitico, come abbiamo visto nei conflitti in Ucraina e a Gaza, sia a livello commerciale.

In quel settore Musk si è assicurato con largo anticipo una posizione di assoluto primato, controllando il quadruplo degli oggetti in orbita di ogni altro concorrente, sia privato che pubblico. In virtù di questo monopolio si permette di sedersi al tavolo della grande contrattazione politica influendo sulla stessa conduzione delle strategie militari dei diversi contendenti.

L’Europa, come al solito, sta balbettando. Pur avendo in passato una posizione pionieristica nel settore, in particolare il nostro paese -che già negli anni ’60 era l’unico, oltre le due super potenze Usa e Urss, ad aver messo in orbita diversi satelliti per le comunicazioni transoceaniche- oggi non riesce ad assumere un’iniziativa unitaria.

Proprio nel buco della presenza comunitaria si è inserito Musk che si candida a essere il partner dei isngoli paesi del vecchio continente. Offerta che Palazzo Chigi sembra aver colto.

In realtà più che la questione satellitare il governo di destra punta a essere il capofila di una politica del tutto alternativa a quella europea: diventare un cliente privilegiato dei grandi campioni della tecnologia per spuntare servizi e soluzioni convenienti. Ovviamente, come accade sempre in questo mondo, il privilegio del servizio si paga con la piena subalternità culturale, linguistica e comportamentale.

L’idea di stipulare alleanze con Google, OpenAI e Musk era gia stata avanzata da Gianroberto Casaleggio, nei suoi incontri di Ivrea, dove, appropriandosi dell’icona di Olivetti, aveva lanciato la cosiddetta strategia baltica, ossia la scelta di paesi come l’Estonia e la Lituania di consegnarsi mani e piedi alla Silicon Velley.

Dobbiamo fare come fanno quelli che vincono in rete, era lo slogan del guru dei 5S, in nome del quale fu sugellata l’intesa con la Lega nel governo giallo verde del 2018.

Oggi in particolare il partito di Meloni vuole tornare su quella ipotesi, e diventare il cavallo di troia in Europa di gruppi che sono per altro ora contestati anche in patria, negli Usa, dove sono aperte diverse procedure di infrazione a loro carico.

Negli incontri in corso a New York non si parlerà solo di spazio con Sam Altman di OpenAi o Sundar Pichai di Google, e ovviamente Musk che offizia il rito, ma anche di scuola e sanità, dei grandi settori della pubblica amministrazione che sono già investiti dai processi di innovazione tecnologica.

Siamo all’inizio di un vero caso italiano digitale, dove, per la prima volta, un governo offre la piena disponibilità di un grande paese industriale quale l’Italia, a diventare mercato e laboratorio delle applicazioni proprietarie di gruppi monopolisti che si occupano della gestione ed elaborazione dei dati più sensibili dei cittadini.

Su questo crinale appare singolare il silenzio delle opposizioni e dei sindacati. Non è in ballo un defilè in America del presidente del consiglio, ma scelte vitali per il futuro del paese e soprattutto per le sue prospettive comunitarie.

In questi mesi infatti i gruppi digitali, dalle piattaforme di Musk a Google e OpenAI, sono entrati in rotta di collisioni con Inghilterra, Francia e Germania in occasione delle rispettive campagne elettorali.

L’inquinamento della concorrenza sul mercato è la diretta conseguenza di una contaminazione dei processi democratici e della formazione del senso comune che i gruppi della Silicon Valley tengono in scacco come stiamo vedendo nella campagna presidenziale in corso negli Stati Uniti.

Sarebbe utile se al suo ritorno il capo del governo si sentisse chiedere di cosa ha parlato a New York e quali siano le intenzioni dell’esecutivo sulle partite più sensibili della democrazia nazionale. Un eventuale silenzio sarebbe una lapide sul futuro del paese.

(foto Antonio Masiello Getty Images)

Putiniani d’Italia, lo storico tifo per quel Vladimir che Salvini voleva scambiare con Mattarella (ilriformista.it)

di Paolo Guzzanti

Gli italiani da anni sono per Putin. I partiti, 
salvo un pezzo di Forza Italia e di Partito 
Democratico, con riluttanza e pescimbarilismo 
anche di FdI, sono per Putin.

Ieri mattina l’Unione europea ha dato luce verde all’uso delle armi a lunga gittata date agli ucraini per difendersi, perché se non puoi far saltare in aria la rampa da cui ti tirano i loro missili a lungo raggio, sarai condannato a perdere.

Grande evento cui hanno concorso Fratelli d’Italia, Forza Italia e il Partito Democratico. Hanno votato contro pentastellati e Lega.

Due Putin per mezzo Mattarella

Brava Gorgia Meloni che un tempo pensava male e che per fortuna è intelligente. Quanto alla Lega, di che ti vuoi sorprendere: non era Matteo Salvini quello che voleva scambiare due Putin per mezzo Mattarella? Le operazioni di cambio sia delle magliette con la faccia di Putin che di etica.

Il tassista romano mi chiede: “Come andrà ‘sta guèra? Ce la farà Putin a non fasse mette sotto dall’americani?”. I tassisti romani contano più della Treccani. Quando Vladimir Vladimirovic annunciò – dopo averla fieramente negata fino a mezz’ora prima – la sua Operazione Militare Speciale come una tournée dell’Armata Rossa fu così proclamato il nuovo comandamento etico: “Il dovere di arrendersi”.

Morire per Danzica? Ma che siamo pazzi? E morire per Kiev? Tre le nostre radici filorusse nonché antiamericane: il fascismo era antiamericano. Il comunismo di Stalin e successori era affascinante (“Ha da venì, Baffone!”) e la Chiesa cattolica, benché spaventata dalle brutalità russe staliniane, restava inflessibile nel ritenere il denaro (e l’odiosa libertà individuale detta individualista) come “sterco del diavolo”.

Le lacrime di Andreotti con la fine dell’Urss

Meglio i russi. Ma con le dovute distanze. I comunisti italiani, esangui di letture francesi e tedesche scherzavano fra di loro sull’assurdità del modo di vivere e pensare russo. E già si allenavano in panchina i comunisti filoamericani.

Quando andai a Tripoli per un incontro con il ministro degli esteri di Gheddafi, Ali Abdussalam Trek, ci raccontò che quando si dissolse l’Unione Sovietica Giulio Andreotti era in visita a Tripoli e udita la notizia pianse perché gli americani sarebbero stati padroni unici del pianeta. E Andreotti, l’ho avuto per quattro anni membro della commissione che presiedevo era un filorusso a molti carati.

Tutti pazzi per Putin

Per lungo tempo resse la convenzione secondo cui chi era di sinistra stava con russi e chi di destra con gli americani. Ma era una balla già nei Settanta: con i russi, facevano quattrini a palate legioni di imprenditori del provolone Made in Italy. Finché Putin si limitava a fare il fenomeno tirando palle di neve a Berlusconi e a Prodi, ammazzando i cervi e galoppando come un texano, tutto bene. La destra entusiasta: che volete di più?

Ci fa fare i soldi, chi se ne fotte della democrazia tanto quelli sono russi e non sanno nemmeno che cos’è, vale ancora il falso mito di “italiani brava gente” perché il segretario del PCUS Nikita Krusciov aveva sostenuto che non c’era nulla di così simpatico come farsi invadere dagli italiani.

Di Putin era pazzo anche Tony Blair finché Putin non gli fece ammazzare a Londra l’esule Alexander Litvinenko proprio nel giorno in cui questo era diventato cittadino britannico chiamandosi John Carter. Tutti pazzi per Vladimir finché non cominciò a gasare i cinema della Cecenia, far commettere eccidi di massa, attaccare la Georgia rubando Ossezia e Abkhazia, invadere l’Ucraina nel 2014 per rubare la Crimea e creare un esercito separatista e invadere l’Ucraina giocando con le bombe atomiche come Charlie Chaplin col mappamondo con i baffi di Hitler.

Due giorni fa Putin ha detto: “Non capisco come certi piccoli Paesi europei non si rendano conto di essere così densamente popolati. Dovrebbero essere più prudenti”.

Le sanzioni e i soldi degli amici

Arrivarono le sanzioni: porca, porcaccia la miseria! Echeccefrega dei princìpi? Stiamo forse producendo etica? Ed ecco a voi il vomitevole spettacolo della destra scatenata contro le sanzioni per difendere i soldi degli amici. E tutti insieme a gridare maledetti americani e perfidi figli di Albione che stavano cazzeggiando su questioni di principio quando c’era da proteggere il nostro cash, il malloppo, la grana, i danè.

Ed è stato allora che il partito russo si è strutturato nelle redazioni, in Parlamento, nelle confraternite. Di fronte all’invasione dell’Ucraina che ripeteva i fasti di quella hitleriana alla Polonia, tutti cantavano in falsetto: “Noi condanniamo l’aggressione russa… ma”, eccolo lì il “ma”.

A partire da quel ma, un popolo di guitti, nuovi nani e nuove ballerine hanno cominciato a mitragliare omissioni, condizionali al posto dell’indicativo, evitare, diluire, invigliacchire davanti a conduttori sordi e ciechi davanti alla “scaletta” di quel che poteva e non poteva essere detto.

Ed è tornata in grande spolvero, su gazzette e siti, autobus e Camere, luoghi di culto e lupanari occultati l’Italia di Pinocchio e della colonna infame, quella manzoniana dello stupro sotto scorta e del pericoloso carattere degli italiani così come illustrato dal conte Giacomo Leopardi.

Rdc, stanati a Roma 21 furbetti, tra condannati e detenuti, protagonisti di una truffa da 200.000 euro (italpress)

Rdc, una truffa senza fine e senza confini. 

Proseguono ancora gli accertamenti dei Carabinieri del Comando Provinciale di Roma, mirati alla verifica del possesso dei requisiti utili alla concessione del “Reddito di Cittadinanza” e del “Reddito di Emergenza”.

Il bilancio dell’attività, terminata negli ultimi giorni, è di 21 persone appartenenti a 10 distinti nuclei familiari, che sono state denunciate dai militari del Nucleo Operativo della Compagnia di Roma Piazza Dante, grazie ad accertamenti svolti presso anagrafe, Banca Dati Motorizzazione Civile e Inps. L’accusa per tutti è quella di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.

Si tratta, in particolare, di soggetti che, a vario titolo, hanno prodotto mendaci dichiarazioni e/o omesso di comunicare all’ente erogatore informazioni rilevanti circa la sussistenza o permanenza dei requisiti per la percezione del reddito di cittadinanza e del reddito di emergenza.

Omettendo anche procedimenti giudiziari a loro carico (nell’ambito dei quali alcuni sono stati destinatari di misure precautelari e cautelari, con restrizioni agli arresti domiciliari e in carcere e condanne penali ricevute negli ultimi dieci anni).

Dalle verifiche effettuate, i 21 indagati avrebbero percepito, in assenza dei requisiti di Legge e nello stesso periodo, la somma complessiva, tra il reddito di cittadinanza e quello di emergenza, di circa 200.000 euro circa.

Dietro i manifesti per Putin a Roma c’è la mano di un dirigente Cinquestelle (linkiesta.it)

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Absurdistan

L’ex consigliere municipale Domenico Aglioti, sostenitore della prima ora di Virginia Raggi, è il generoso committente di numerose e costose affissioni 3×2 con lo slogan: «La Russia non è nostra nemica». Perché il Comune non le ha rimosse, come gli impone il suo stesso regolamento?

In queste settimane, Roma è invasa di affissioni pubblicitarie outdoor in cui campeggia lo slogan «La Russia non è nostra nemica» con l’invito a interrompere le forniture di armi all’Ucraina e a Israele, cartelloni 3X2 e vele che girano in lungo e in largo la città. Abbiamo scoperto chi ha affittato e pagato la campagna pubblicitaria nella Capitale.

Dopo lunghe verifiche, abbiamo appreso che Domenico Aglioti, già consigliere municipale nella scorsa consiliatura nel quartiere Monte Mario (Roma XVI), presidente della Commissione Cultura e fondatore del Movimento Cinque Stelle a Roma, è il generoso committente della campagna pro-Putin che ha invaso Roma.

Aglioti, animatore dei movimenti no-vax, anti 5G e putiniano, non è un militante qualsiasi ma è stato colui che ha lanciato e sostenuto Virginia Raggi, tanto da meritare una nozione biografica da parte della ex sindaca anche sul sito di Beppe Grillo. Raggi infatti scrive: «Insieme a Domenico Aglioti abbiamo costruito pezzetto per pezzetto il Gruppo del XIX Municipio andando a fare banchetti dovunque vi fosse un marciapiede sufficientemente largo».

Nel corso dei giorni scorsi, abbiamo contattato anche la società che ha stilato il contratto di affitto, la “Nuovi Spazi Advertising”, per comprendere a quanto ammonti la spesa per questa campagna, ma non abbiamo ricevuto risposta.

Tuttavia raccogliendo le segnalazioni in giro per la città si possono contare una ventina di manifesti affissi che campeggiano da oltre due settimane e almeno cinque vele motorizzate che girano la città. Secondo alcuni esperti da noi contattati, l’ammontare di una campagna pubblicitaria con queste caratteristiche costa tra i trentamila e i cinquantamila euro.

E qui si dipana il primo quesito: il signor Domenico Aglioti, cittadino semplice, militante pentastellato, con un passato da informatico presso Leonardo, ha sostenuto personalmente questa spesa o è stato aiutato da qualche entità  esterna? Fa parte di una rete formale o informale che ha sviluppato la medesima campagna in altre città d’Italia?

Il secondo quesito è squisitamente politico: perché il Comune di Roma, così come le altre amministrazioni investite da questa campagna, non l’hanno censurato?  L’articolo 12-bis del Regolamento del Comune di Roma in materia di esposizione della pubblicità recita: «È altresì vietata l’esposizione pubblicitaria il cui contenuto sia lesivo delle libertà individuali, dei diritti civili e politici».

La Russia, va ricordato, non è un paese come un altro, l’Unione Europea (di cui fino a prova contraria l’Italia fa parte) ha provveduto a sanzionare numerosi soggetti attori della disinformazione ai danni anche del nostro Paese, in Russia le comunità Lgbtq+ sono illegali, i suoi aderenti repressi, sanzionati, incarcerate e uccisi; stessa sorte tocca ai giornalisti, i dissidenti e gli attivisti delle associazioni non governative.

In Russia, giova ricordare alle zelanti amministrazioni comunali, non è garantita nessuna libertà civile e politica, e  l’invasione criminale dell’Ucraina è solo l’ultimo crimine contro l’umanità commesso dal Cremlino.  Sarà per questo che la Russia non è nostra amica?