Se l’insulto arriva da gente di «parola» (corriere.it)

di Aldo Grasso

Padiglione Italia

L’odio Gli attacchi scomposti e livorosi di coloro che si credono «scrittori»

Cecilia Parodi è indagata per «istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale» (più che insulti le sue sono aberrazioni) su denuncia della senatrice Liliana Segre, così come il filorusso Nicolai Lilin, sodale di Michele Santoro, ha attaccato duramente due bravi giornalisti della Rai, Stefania Battistini e Simone Traini, con avvertimenti ferali: «Sappiate che vi siete scavati la fossa da soli».

Cosa hanno in comune Parodi e Lilin? Hanno scritto libri (da «Educazione siberiana» di Lilin è stato tratto un film), hanno dimestichezza e conoscenza del peso delle parole, hanno usato espressioni con gratuita cattiveria e irreparabile serietà.

A prima vista, Parodi e Lilin sono aggressivi e turpiloquenti ma non sembrano appartenere alla schiera degli squadristi da tastiera, dei persecutori anonimi: mentecatti che sfogano sulla rete la loro frustrazione e grettezza e offendono perché feriti dalla bravura e dalla felicità altrui.

Gli insulti rappresentano un fenomeno deplorevole e maleodorante, ma sono convinto che i peggiori siano proprio quelli di coloro che si credono «scrittori»: intrisi di odio nutrito dalla loro immaginazione e dal loro ego, vengono scelti con insospettabile volgarità e pronunciati con cognizione di causa.

Come sostiene Leonardo Sciascia, si formano «nell’oscuro mondo dell’imbecillità e del fanatismo».

Il disimpegno del governo Meloni sull’Ucraina è proprio ciò che spera Putin (linkiesta.it)

di

Urbi et Orbán

Tajani e Crosetto (e quindi anche la premier) non pensano che l’esercito ucraino possa respingere l’aggressore, ostacolano la capacità militare del paese che si difende da Mosca e, a questo punto, si dimostrano più vicini a Budapest che a Kyjiv

«Non vogliamo altre armi in Ucraina, non vogliamo altri morti, non vogliamo un’escalation della guerra, non vogliamo un’escalation della crisi in Medio Oriente. Oggi continuiamo ad adottare una posizione pacifica e di buon senso». Sembra Antonio Tajani, invece è il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjártó.

Il cerchio si chiude: toni a parte, sulla situazione in Ucraina l’Italia ha le stessa posizione di Budapest. Cioè contraria a quella dell’Alto Commissario europeo Josep Borrell che aveva raccolto il grido d’aiuto del ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba che è tornato a chiedere armi da poter utilizzare sul suolo russo.

Borrell ha una posizione chiara: «Le armi che abbiamo dato all’Ucraina devono essere pienamente utilizzabili e le restrizioni devono essere rimosse per permettere agli ucraini di prendere di mira i luoghi da cui partono gli attacchi russi. Altrimenti le armi sono inutili».

È la linea di Kuleba che giustamente ha fatto rilevare che «la sicurezza a lungo termine per l’Europa inizia con decisioni coraggiose a breve termine per l’Ucraina». E già, con l’Ucraina è in gioco l’avvenire dell’Europa.

Tajani non lo capisce o fa finta di non capirlo. Il ministro più pigro della storia diplomatica italiana ha ribadito il no del governo di Roma, «le nostre armi solo a uso difensivo, gli altri Paesi decidano come vogliono». E poi dicono di volere una politica estera e di Difesa comune. Qui sembra Corrado Guzzanti quando sintetizzava la filosofia del Polo delle libertà, «facciamo un po’ come c. ci pare».

C’è veramente da restare allibiti davanti a questo mix di falsità e inadeguatezza. Soprattutto perché la situazione sul terreno sta conoscendo una svolta pericolosissima con gli attacchi massicci dell’Armata di Putin su tutto il territorio ucraino, a partire da Kyjiv.

Eppure è proprio grazie alla possibilità di usare le armi per colpire le basi russe che l’Ucraina è tuttora in grado di restare in campo. Se le togli questa chance, la battaglia è impari. Che è esattamente quello che vuole il dittatore di Mosca: fiaccare l’avversario per giungere nell’inverno inoltrato a una farsesca trattativa di pace con un’Ucraina in ginocchio e dissanguata.

Il disimpegno di alcuni Paesi è in atto. L’allarme lo ha dato coraggiosamente il ministro degli Esteri lituano. Altro che Tajani. «Da giugno l’Ucraina non riceve munizioni, i Patriots promessi non sono stati ancora consegnati. Allora io mi domando: non siamo anche noi parte del problema?», si è chiesto Gabrielius Landsbergis.

Che ha rincarato la dose: «Sappiamo che alcuni aiuti promessi nel 2023 saranno consegnati solo nel 2027, ma intanto i titoli di giornale sono usciti: creiamo una narrazione per dire ai nostri cittadini che combattiamo per il bene, ma poi quando si tratta di andare al sodo le cose cambiano. E Putin invece ha partner affidabili, come la Corea e l’Iran».

Al crudele piano di Putin, l’Italia sta dunque dando man forte, contraddicendo la posizione filo-Ucraina seguita dall’Occidente libero e democratico. Tajani, Guido Crosetto e Giorgia Meloni si sono evidentemente convinti dell’ineluttabilità della sconfitta del popolo ucraino e del suo leader Volodymir Zelensky e, con il cinismo ereditato dai tempi in cui ci si voleva sedere al tavolo dei vincitori in cambio di alcune migliaia di morti, si appresta a pugnalare l’Ucraina pur senza dirlo apertamente, ma semplicemente ostacolando la sua capacità militare.

Siamo dunque a uno snodo cruciale, forse decisivo, nel quale la Farnesina sta di fatto aprendo i suoi uffici sulla riva del Danubio, vicino a quelli di Viktor Orbán, in attesa di srotolare i tappeti sulla famosa Arbat, la strada che porta alla Piazza Rossa. E nessuno, o quasi, da noi apre bocca per opporsi a questa deriva.

Nell’inquietante silenzio di Elly Schlein e di tutto il gruppo dirigente ancora al mare risaltano le isolate voci dei soliti dem coerenti, Pina Picierno, Elisabetta Gualmini, Filippo Sensi, forse si aggiungerà qualcun altro: troppo poco.

La realtà è che le opposizioni perdono tempo a litigare su Matteo Renzi o Andrea Orlando, mentre Kyjiv è più sola.

Il ricatto di Piantedosi alle Ong, costrette a scegliere tra soccorrere i migranti e rischiare la confisca (unita.it)

di Angela Nocioni

Terzo fermo per la nave

Ordinato il terzo fermo per la Geo Barents dopo cinque salvataggi. Ong costrette a scegliere tra soccorrere in tempo e rischiare la confisca

(Foto di Msf)

La connivenza delle autorità italiane con i miliziani libici è tale che Roma, per poter tener lontane dal Mediterraneo centrale le navi di soccorso e lasciare senza testimoni le scorribande libiche sulle motovedette fornite dall’Italia, ha bloccato per l’ennesima volta in porto una nave di soccorso accusandola di non aver rispettato durante un salvataggio le norme – contrarie al diritto internazionale – del decreto Piantedosi. 

E’ successo alla Geo Barents, di Medici senza frontiere. Accusata di non aver informato tempestivamente il Centro di comando delle capitanerie di porto di Roma durante la terza delle cinque operazioni di salvataggio fatte il 23 agosto.

E’ per questa nave il terzo fermo. Ed è la ventitreesima volta che una nave di salvataggio viene bloccata dopo un soccorso attraverso l’applicazione del decreto Piantedosi. L’imputazione è anche stavolta spudorata: aver messo in pericolo la vita dei naufraghi.

La Geo Barents ha salvato 191 naufraghi il 23 agosto, 191 persone che ora sono vive soltanto perché quell’equipaggio le ha prese a bordo prima che la banda di assassini della Guardia costiera libica le catturasse in mezzo al mare e le portasse nei centri di detenzione dai quali si esce soltanto pagando i miliziani se si sopravvive a stupri quotidiani, torture e violenze descritte in numerosi report dell’Onu e da chiunque sia uscito vivo da quelle celle.

E l’Italia lo accusa di aver messo a rischio la vita delle persone che ha salvato. E gli blocca la nave per due mesi, oltre alla multa, così da impedire alla Geo Barents di fare missioni di salvataggio per almeno due mesi.

Msf denuncia che l’accusa è costruita sulle informazioni fornite dalla Guardia costiera libica, cioè da una banda di miliziani assassini che vivono del traffico di migranti e dei nostri soldi. Ma intanto si ritrova la nave bloccata in porto. 

“Nel cuore della notte – racconta Riccardo Gatti, responsabile del gruppo dei soccorritori – abbiamo visto persone che saltavano da una barca in vetroresina, che cadevano o venivano spinte in acqua. Non avevamo altra scelta se non quella di tirare fuori dall’acqua le persone il più velocemente possibile. C’era un pericolo imminente che annegassero o si perdessero nel buio della notte”. Dice Juan Matias Gil, capomissione di Medici senza frontiere: “Le autorità ci costringono a scegliere tra il salvataggio delle persone in mare e la prosecuzione delle attività. Ma la salvaguardia della vita umana è al centro della missione di Msf. Contesteremo questa detenzione illegittima seguendo le opportune vie legali. Siamo stati sanzionati per aver semplicemente adempiuto al nostro dovere legale di salvare vite umane.  La Guardia costiera libica, finanziata dall’Ue e considerata un attore affidabile dall’Italia, è stata accusata dalle Nazioni Unite di complicità in gravi violazioni dei diritti umani in Libia. Parliamo di crimini contro l’umanità, di collusione con i trafficanti, nonché di essere responsabile di violenti respingimenti in mare”.

Quel che la flotta civile delle ong che pattugliano il Mediterraneo non dice quasi mai esplicitamente – perché il ricatto del decreto Piantedosi funziona – è che per tentare di evitare il fermo, la multa e, soprattutto, la confisca della nave che può scattare dopo alcuni fermi, spesso i responsabili delle navi di soccorso in mare aspettano il via libera al soccorso da parte del Mrcc di Roma anche quando il via libera non arriva subito.

E quasi mai arriva subito. In mare il tempo è prezioso, non si deve aspettare nemmeno un secondo a lanciare i gommoni di salvataggio quando si è avvistata una barca di naufraghi.

E invece, drammaticamente e inevitabilmente, spesso si aspetta. Non lo si dice volentieri, ma si aspetta. Per non farsi sequestrare la nave. Per evitare la confisca. Per scongiurare la possibilità che l’armatore, quando c’è un armatore, possa decidere di rescindere il contratto di affitto del mezzo. E perché una nave di soccorso bloccata in porto è una missione di salvataggio di meno, molti morti in più.

Morti che non contano. Persone che finiscono in fondo al mar Mediterraneo e di cui nessuno si occupa perché sono persone di cui non importa nulla a nessuno.