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A quale quadro assomiglia Travaglio? (ilfoglio.it)

di Andrea Marcenaro

Andrea's version

Il progetto Arts & Culture di Big G, ricorderete, aveva lanciato Art Selfie: una foto, tramite l’applicazione, confrontava il tuo volto a quello di migliaia di opere e ti guidava alla scoperta dell’arte

Basterà un selfie per scoprire l’arte che ti somiglia. Il progetto Arts & Culture di Big G, ricorderete, aveva lanciato Art Selfie: una foto, tramite l’applicazione, confrontava il tuo volto a quello di migliaia di opere e ti guidava alla scoperta dell’arte.

A chi assomigli? A che cosa? A un Raffaello? A un Modigliani? A un sacco di Burri? Entusiasmo. Corsa in massa verso la bellezza. Un successone. Era ora.

Al Fatto Quotidiano di Travaglio e Lerner risulta pazzescamente intasato il pisciatoio di Marcel Duchamp.

«Sono in sciopero della fame per essere curato altrimenti voglio morire» (ildubbio.news)

Un detenuto a Catanzaro

La lettera di Mario Francesco, attualmente 
detenuto presso la Casa circondariale 
di Catanzaro

Martedì ha cominciato lo sciopero della fame perché la magistratura di Sorveglianza ha rigettato la richiesta del suo difensore, l’avvocato Filippo Cinnante di Cosenza, di differimento della pena, ma ha imposto al Dap di trovare un carcere che fosse adeguato alle sue condizioni di salute.

«Lo hanno mandato a Modena, poi a Parma e alla fine nuovamente a Catanzaro, – spiega l’avvocato Cinnante – scrivendo che è detenuto e che le strutture carcerare non sono adeguate.

Così abbiamo avanzato richiesta di ricoverarlo in struttura esterna per il tempo strettamente necessario, ma la Sorveglianza prima di qualsiasi disposizione ha scritto all’area sanitaria del carcere per capire quali potessero essere queste strutture adeguate.

Questo accadeva ad aprile. Ad oggi dal carcere, nonostante i solleciti del Tribunale di Sorveglianza, nessuna risposta. Intanto gli hanno sospeso pure le cure. E lui da ieri ha cominciato lo sciopero della fame».

Lo ha anche annunciato in una lettera, consegnata sempre martedì al suo difensore, inviata al magistrato di Sorveglianza di Catanzaro, al garante dei detenuti della Calabria che pubblichiamo.

“Io sottoscritto Mario Francesco (Cosenza 09-04-1979), attualmente detenuto presso la Casa circondariale di Catanzaro, scrivo con rammarico, dispiacere e delusione per evidenziare, ancora una volta, una situazione chiara, semplice evidenziata da innumerevoli visite medico-specialistiche, da plurimi accertamenti sanitari che davvero non so in che altro modo comunicare, anzi GRIDARE: sto morendo, sto morendo assurdamente, causa una incredibile burocrazia, che causa un rifiuto di assunzione di responsabilità da parte delle autorità preposte. Vivo senza un ARTO, la gamba sinistra si è ridotta a un moncone, posso muovermi solo su una sedia a rotelle. Ebbene vivo in una cella, ovviamente non idonea per una persona che vive nel mio stato. In questa sezione, da mesi, non funziona l’ascensore, quindi niente aria, niente cielo e niente sole.

Per trasferirmi nell’aula colloquio, con famiglia e avvocati, devo saltellare su una gamba, mentre portano al piano terra a mano la mia carrozzina!!!

Non mi permettono di effettuare la indispensabile terapia fisioterapica giornaliera, peraltro prescrittami da tutti gli specialisti, fuori dal carcere, ma, anche, incredibile in carcere. Qualunque reato, qualunque pena non deve permettere queste cose.

Sono allocato in una sezione comune, senza ovviamente nessun presidio necessario per un malato, oltretutto obeso. Prendo molti farmaci, ma sento la vita svanire giorno per giorno!!! Ero ricoverato nel centro medico di questa casa circondariale (Catanzaro), ma purtroppo una mattina mi hanno imposto il trasferimento nella cella 112- 1A-Ro, dove sono ormai da 5 lunghi mesi. Credo che non sia crudeltà o volontà perversa a tenermi in questo stato: temo sia una vergognosa disorganizzazione, una indifferenza dell’Area sanitaria, una burocrazia dell’ufficio di Sorveglianza che, se solo volesse, potrebbe risolvere in poco tempo la mia drammatica situazione.

Ero ai domiciliari, sono stato ristretto in espiazione pena, ma nelle mie condizioni dove potevo, anzi, dove posso andare? Capisco tutte le esigenze giuridiche, ma in questa sede mi permetto unicamente di chiedere: perché NON TRASFERIRMI IN UNA STRUTTURA IDONEA? Perché questa giornaliera tortura?

Sono tanti i perché sono inesistenti le risposte. Fatemi espiare la mia pena. Non sono possibili i domiciliari? Bene mandatemi in un ospedale, una casa di cura attrezzata per le mie patologie, con tutte le dovute imposizioni di sicurezza.

Oppure fatemi morire. Oppure si è deciso che io debba morire. Ma ditelo in fretta, io non resisto più. La mia ultima possibilità è fare lo sciopero della fame. Questo non per avere niente altro che una risposta. È possibile farmi curare, o volete che io muoia? Semplice senza altre parole: non ce ne sono. Chi ha responsabilità si ATTIVI. Io, intanto, aspetto altro: LA MORTE

Così la Russia ha represso per secoli l’insegnamento della lingua ucraina (linkiesta.it)

di

L’ultima parola

Dai decreti zaristi alla propaganda di Putin, per quattro secoli Mosca ha portato avanti una campagna di sradicamento linguistico, e non sembra intenzionata a fermarsi

L’ucraino è oggi l’unica lingua ufficiale riconosciuta in Ucraina, eppure il Paese vive praticamente una situazione di bilinguismo, con una grande fetta della popolazione che parla russo, considerato, teoricamente, la più consistente minoranza linguistica.

Ma nella realtà dei fatti, la situazione è più complessa e la diffusione del russo va ben oltre i normali confini di un gruppo minoritario: per quanto possa sembrare assurdo, tra coloro che si definiscono ucraini, specialmente nelle regioni orientali, c’è chi ha sempre utilizzato solo il russo come lingua madre, rendendo, di fatto, una lingua dominante rispetto all’ucraino.

Questa fetta di popolazione russofona è l’eredità di circa quattro secoli di sradicamento linguistico compiuto dalla Russia, una delle tante forme di colonialismo per cancellare l’identità nazionale ucraina.

I primi tentativi più consistenti di repressione risalgono all’Impero di Pietro il Grande: nel 1720, emette un decreto contro l’uso della lingua ucraina nei testi e nei libri religiosi, aprendo la strada verso il divieto totale della lingua. Nel 1729, il nipote Pietro II aggiunge poi l’ordine di riscrivere tutti i regolamenti e i decreti statali in russo.

Qualche anno dopo, nel 1753, l’imperatrice Caterina II decide di estendere il divieto ad altre istituzioni, vietando l’insegnamento della lingua ucraina nel più importante centro culturale del Paese, l’Università nazionale di Kyiv-Mohyla, dove, nel 1786 la lingua russa diventa poi l’unica lingua di insegnamento.

Secondo il politologo ucraino Oleksiy Volovych, «Caterina II aveva deciso di dissolvere l’etnia ucraina tra gli altri gruppi etnici, di privare gli ucraini delle loro caratteristiche nazionali, della loro identità. Voleva, in definitiva, distruggerla completamente».

Nel 1863 la circolare Valuev, emessa dal ministro degli affari interni Pyotr Valuev, vieta l’uso dell’ucraino, e di fatto gli toglie lo status di lingua, dicendo che «il dialetto usato dalla gente comune è la stessa lingua russa, solo corrotta dall’influenza della Polonia». Nel 1876 lo zar Alessandro II mette fuori legge libri e qualsiasi pubblicazione prodotta in lingua ucraina, colpendo perfino la letteratura per bambini.

Le misure adottate in seguito sono sempre più severe, e mirano a un vero e proprio processo di russificazione in risposta ad una lingua che la Russia percepisce come nemico. Il 1914 è l’anno dell’attacco alla stampa, con il decreto di Nicola II che ordina la chiusura di tutti i giornali, le riviste e le case editrici ucraine e l’esilio di numerose figure dell’élite culturale.

Dopo il crollo dell’impero russo nel 1917, l’Ucraina prova a riappropriarsi della sua identità culturale e linguistica, cercando un riscatto durante la guerra d’indipendenza (1917-1921). ​ Tuttavia, solo un anno dopo si  ritrova  «assorbita» dalla neonata Unione sovietica.

La rapida industrializzazione determina un’ulteriore accelerazione delle dinamiche linguistiche, con il trasferimento di numerosi cittadini russi, soprattutto ingegneri e tecnici, nell’Ucraina orientale, che continuano a usare il russo come lingua madre, diffondendolo sul territorio.

L’obiettivo delle autorità sovietiche era quello di attribuire una valenza negativa alla lingua ucraina, che infatti veniva presentata come rurale e obsoleta, un rozzo dialetto polacco. Tetiana Ponomarova, traduttrice ucraina che da anni vive in Italia, dice a Linkiesta: «L’uso dell’ucraino veniva relegato ai villaggi, mentre il russo veniva parlato nelle città.

Di conseguenza, l’ucraino veniva percepito come la lingua delle classi sociali più basse e meno istruite. Era la lingua dei contadini». E aggiunge: «chi si trasferiva in città, era obbligato a conoscere il russo e a nascondere la propria provenienza per poter ottenere un lavoro o semplicemente essere considerato civile». Nonostante le discriminazioni, è stata soprattutto questa grossa fetta di contadini, considerati volgari analfabeti, a tenere viva la lingua ucraina e a preservare l’identità nazionale.

Si ritiene che la primavera del 1933 segni l’inizio della distruzione di massa dell’intellighenzia ucraina da parte dell’Unione sovietica, che raggiunge il picco nel 1937, quando numerose figure culturali ucraine come gli scrittori Valerian Pidmohylny, Mykola Kulish e Hnat Khotkevych, i pittori Ivan Padalka e Mykhailo Boychuk, vengono giustiziati durante le Grandi purghe.

Nel 1938 viene introdotto anche l’obbligo dello studio del russo in tutta l’Ucraina, dove però subito dopo viene messa in atto una chiusura di massa delle scuole, con un conseguente declino di tutto il sistema educativo e culturale.

La morte di Stalin nel 1953 e l’inizio del governo di Nikita Krusciov hanno favorito un certo allentamento della censura sovietica della lingua e della cultura ucraina, fino alla dichiarazione di indipendenza nel 1991. Nei primi anni di indipendenza è stato molto difficile implementare e rafforzare l’ucraino, visto che, per molti anni la televisione, i periodici e i film sono rimasti in lingua russa.

Il Paese ha risposto con una politica di «ucrainizzazione», in cui è stato importante anche il ruolo di artisti, poeti e scrittori che hanno dato un nuovo impulso alla cultura, favorendo la diffusione della lingua ucraina sul territorio.

Tuttavia, l’occupazione della Crimea da parte di Vladimir Putin nel 2014 e la successiva guerra nel Donbas hanno segnato un’altra significativa escalation dell’aggressione linguistica nei confronti dell’Ucraina, con una riduzione dell’uso della lingua negli spazi pubblici e l’esposizione dei parlanti a intimidazioni e persecuzioni.

I tentativi di assimilazione forzata della cultura ucraina sono continuati con l’invasione del 2022, e sono ancora in atto. Emblematico il tentativo di «russificare» la città di Kherson, una delle prime ad essere occupate, dove l’esercito russo ha vietato l’inno nazionale e minacciato gli insegnanti perché smettessero di parlare ucraino e consegnassero tutti i libri di lingua e storia ucraina per adattare i programmi alla propaganda russa.

O ancora Melitopol, una città occupata nell’Oblast di Zaporizhzhia, dove le truppe russe hanno sequestrato tutta la letteratura ucraina dalle biblioteche locali.

Sono solo pochi esempi che mostrano come la guerra non si combatta solo sul piano territoriale e come l’invasione russa abbia superato anche i confini culturali e linguistici, senza però riuscire a mettere a tacere il popolo ucraino.

Per prendere le distanze da un vicino sempre troppo invadente, gli ucraini hanno dato il via a un processo di resistenza e rivendicazione della propria identità linguistica, contro l’omologazione della nazione in un «mondo russo» unificato.  Una resistenza che si vede nel passaggio di massa dall’uso del russo all’ucraino.

Molti civili scappati da Mariupol, Kharkiv, Odessa, città per la maggior parte russofone, hanno iniziato a parlare solo ucraino, e sono in ad averlo imparato solo dopo l’invasione. Così come molti scrittori russofoni che, mossi da un’esigenza morale, hanno iniziato a tradurre le proprie opere in ucraino.

Ponomarova, che è cresciuta in una famiglia di russofoni, dice: «dopo l’invasione della Crimea, la lingua ucraina è entrata in una nuova era. Se prima nella vita privata parlavo russo, ora io e tutti i miei amici parliamo esclusivamente ucraino». La questione, quindi non è più solo linguistica.

Non importa più qual è la lingua con cui si è cresciuti e alla quale si è stati esposti per tutta la vita. È una questione di scelta, per il futuro di una Nazione.

“Gli ululati erano terrificanti”: imprigionato nella famigerata “Casa degli Specchi” (bbc.com)

di Ethirajan Anbarasan

Il leader del Fronte Democratico del Popolo Unito (UPDF) dell'EPA Michael Chakma, che è stato rilasciato dal centro di detenzione segreto localmente noto come "Aynaghor" dopo cinque anni, parla durante un evento organizzato per celebrare la Giornata internazionale delle vittime delle sparizioni forzate, presso il centro Shaheed Minar di Dhaka (Michael Chakma è stato rapito da una strada ed è scomparso in una prigione segreta nel 2019)

L’uomo che è uscito sotto la pioggia a Dhaka non vedeva il sole da più di cinque anni.

Anche in una giornata nuvolosa, i suoi occhi faticavano ad adattarsi dopo mezzo decennio rinchiusi in una stanza poco illuminata, dove le sue giornate erano state trascorse ascoltando il ronzio dei ventilatori industriali e le urla dei torturati.

In piedi sulla strada, faticava a ricordare il numero di telefono di sua sorella.

A più di 200 km di distanza, la stessa sorella stava leggendo degli uomini che uscivano da un centro di detenzione nel famigerato quartier generale dell’intelligence militare del Bangladesh, noto come Aynaghor, o “Casa degli Specchi”.

Erano uomini che si diceva fossero “scomparsi” sotto il governo sempre più autocratico di Sheikh Hasina – in gran parte critici del governo che un giorno erano lì e il giorno dopo se ne andavano.

Ma Sheikh Hasina era ora fuggita dal paese, disarcionati dalle proteste guidate dagli studenti, e questi uomini venivano rilasciati.

In un angolo remoto del Bangladesh, la giovane donna che fissava il suo computer si chiedeva se suo fratello – di cui avevano tenuto il funerale solo due anni prima, dopo che ogni tentativo di scoprire dove si trovava si era rivelato infruttuoso – potesse essere tra loro.

Getty Images I parenti tengono ritratti di persone scomparse con la forza, mentre formano una catena umana per celebrare la Giornata internazionale delle vittime delle sparizioni forzate, a Dhaka(I parenti degli scomparsi – come questi – hanno condotto una campagna per anni per scoprire dove sono i loro cari – Getty Images)

Il giorno in cui Michael Chakma è stato impacchettato con la forza in un’auto e bendato da un gruppo di uomini corpulenti nell’aprile 2019 a Dhaka, ha pensato che fosse la fine.

Era venuto all’attenzione delle autorità dopo anni di campagne per i diritti del popolo della regione sud-orientale di Chittagong Hill, un gruppo buddista che costituisce solo il 2% dei 170 milioni di abitanti del Bangladesh, per lo più musulmani.

Secondo il gruppo per i diritti umani Amnesty International, si è fermamente schierato contro gli abusi commessi dai militari nelle Chittagong Hill Tracts e ha condotto una campagna per la fine del regime militare nella regione.

Il giorno dopo essere stato rapito, è stato gettato in una cella all’interno della Casa degli Specchi, un edificio nascosto all’interno del complesso utilizzato dalla Direzione Generale dell’Intelligence delle Forze (DGFI) nella capitale Dhaka.

Fu qui che raccolsero informazioni locali e straniere, ma sarebbe diventato noto come un luogo molto più sinistro.

La piccola cella in cui era rinchiuso, ha detto, non aveva finestre e non aveva luce solare, solo due ventole di scarico scoppiettanti.

Dopo un po’ “si perde il senso del tempo e del giorno”, ricorda.

“Sentivo le grida degli altri prigionieri, anche se non riuscivo a vederli, i loro ululati erano terrificanti”.

Le grida, come avrebbe imparato a conoscere se stesso, provenivano dai suoi compagni di prigione, molti dei quali erano stati interrogati.

“Mi legavano a una sedia e la facevano ruotare molto velocemente. Spesso mi hanno minacciato di fulminarmi. Mi hanno chiesto perché stavo criticando la signora Hasina”, dice Chakma.

Un grafico che mostra l'ubicazione del complesso

Fuori dal centro di detenzione, per Minti Chakma lo shock per la scomparsa del fratello è stato sostituito dal panico.

“Siamo andati in diverse stazioni di polizia per indagare, ma hanno detto che non avevano informazioni su di lui e che non era sotto la loro custodia”, ricorda. “I mesi sono passati e abbiamo iniziato a farci prendere dal panico. Anche mio padre si stava ammalando”.

È stata lanciata una massiccia campagna per trovare Michael e Minti ha presentato una petizione scritta all’Alta Corte nel 2020.

Nulla ha portato alcuna risposta.

“Tutta la famiglia ha attraversato molti traumi e agonia. È stato terribile non sapere dove si trovasse mio fratello”, dice.

Poi, nell’agosto 2020, il padre di Michael è morto durante il Covid. Circa 18 mesi dopo, la famiglia decise che anche Michael doveva essere morto.

“Abbiamo perso la speranza”, dice semplicemente Minti. “Così, secondo la nostra tradizione buddista, abbiamo deciso di tenere il suo funerale in modo che l’anima possa essere liberata dal suo corpo. Con il cuore pesante lo abbiamo fatto. Abbiamo pianto tutti molto”.

Getty Images Sheikh Hasina si porta un dito al viso(Sheikh Hasina, fuggito da Dhaka con un elicottero militare il 5 agosto, era al potere dal 2009 – Getty Images)

I gruppi per i diritti umani in Bangladesh affermano di aver documentato circa 600 casi di presunte sparizioni forzate dal 2009, anno in cui Sheikh Hasina è stata eletta.

Negli anni che seguirono, il governo di Sheikh Hasina sarebbe stato accusato di prendere di mira i suoi critici e dissidenti nel tentativo di soffocare qualsiasi dissenso che rappresentasse una minaccia per il loro governo, un’accusa che lei e il governo hanno sempre negato.

Alcuni dei cosiddetti desaparecidos sono stati infine rilasciati o portati in tribunale, altri sono stati trovati morti. Human Rights Watch dice quasi 100 persone rimangono disperse.

Voci di prigioni segrete gestite da varie agenzie di sicurezza del Bangladesh sono circolate tra familiari e amici. Minti ha guardato i video che descrivevano in dettaglio le sparizioni, pregando che suo fratello fosse in custodia da qualche parte.

Ma l’esistenza di una tale struttura nella capitale è stata rivelata solo a seguito di un indagine di Netra News nel maggio 2022.

Il rapporto ha scoperto che si trovava all’interno dell’accampamento militare di Dhaka, proprio nel cuore della città. È anche riuscito a entrare in possesso di resoconti di prima mano dall’interno dell’edificio, molti dei quali corrispondono alla descrizione di Michael di essere stato tenuto in una cella senza luce solare.

Le descrizioni riecheggiano anche quelle di Maroof Zaman, ex ambasciatore del Bangladesh in Qatar e Vietnam, che è stato arrestato per la prima volta nella Casa degli Specchi nel dicembre 2017.

Sardar Ronie L'ex diplomatico del Bangladesh Maroof Zaman che è stato rapito dalle forze del Bangladesh con in mano un libro(Sardar Ronie – L’ex diplomatico Maroof Zaman temeva le ripercussioni di aver parlato apertamente)

La sua intervista con la BBC è una delle poche volte in cui ha parlato del suo calvario di 15 mesi: come parte del suo rilascio, ha concordato con i funzionari di non parlare pubblicamente.

Come altri che hanno parlato di ciò che è accaduto dietro le mura del complesso, aveva paura di ciò che sarebbe potuto accadere se lo avesse fatto. Il detenuto che ha parlato apertamente con Netra News nel 2022 lo ha fatto solo perché non si trovava più in Bangladesh.

Maroof Zaman si è sentito sicuro di parlare solo da quando Sheikh Hasina è fuggita – e il suo governo è crollato – il 5 agosto.

Descrive come anche lui fosse tenuto in una stanza senza luce solare, mentre due rumorosi aspiratori coprivano qualsiasi suono proveniente dall’esterno.

Il fulcro dei suoi interrogatori erano gli articoli che aveva scritto sulla corruzione nel cuore del governo. Perché, volevano sapere gli uomini, stava scrivendo articoli su “accordi ineguali” firmati con l’India dalla signora Hasina, che favorivano Delhi.

“Per i primi quattro mesi e mezzo, è stata come una zona di morte”, dice. “Sono stata costantemente picchiata, presa a calci e minacciata sotto la minaccia delle armi. Era insopportabile, pensavo che solo la morte mi avrebbe liberato da questa tortura”.

Ma a differenza di Michael, è stato spostato in un altro edificio.

“Per la prima volta dopo mesi ho sentito il suono degli uccelli. Oh, è stato così bello, non riesco a descrivere quella sensazione”, ha raccontato Maroof.

Alla fine è stato rilasciato a seguito di una campagna delle sue figlie e dei suoi sostenitori alla fine di marzo 2019, un mese prima che Michael si ritrovasse gettato in una cella.

Getty Images La madre di una persona scomparsa con la forza piange, durante una catena umana in occasione della Giornata internazionale delle vittime delle sparizioni forzate, a Dhaka(I parenti di alcune delle quasi 100 persone che rimangono disperse si sono riuniti di recente in una manifestazione a Dhaka . Getty Images)

Pochi credono che le sparizioni forzate e le uccisioni extragiudiziali possano essere state effettuate all’insaputa dei vertici.

Ma mentre persone come Chakma languivano in prigioni segrete da anni, la signora Hasina, i suoi ministri e il suo consigliere per gli affari internazionali Gowher Rizvi respingevano categoricamente le accuse di rapimenti.

Il figlio della signora Hasina, Sajeed Wazed Joy, ha continuato a respingere le accuse, dando invece la colpa ad “alcuni dei nostri leader delle forze dell’ordine [che] hanno agito oltre la legge”.

“Sono assolutamente d’accordo sul fatto che sia completamente illegale. Credo che quegli ordini non siano venuti dall’alto. Non ne ero a conoscenza. Sono scioccato nel sentirlo io stesso”, ha detto alla BBC.

C’è chi alza le sopracciglia di fronte al rifiuto.

Accanto a Michael, dalla Casa degli Specchi sono emerse persone di alto profilo: il brigadiere in pensione Abdullahi Aman Azmi e l’avvocato Ahmed Bin Quasem. Entrambi avevano trascorso circa otto anni in carcere segreto.

Ciò che è chiaro è che il riemergere di persone come i politici, e Michael, mostra “l’urgenza per le nuove autorità del Bangladesh di ordinare e garantire che le forze di sicurezza rivelino tutti i luoghi di detenzione e rendano conto di coloro che sono scomparsi”, secondo Ravina Shamdasani, portavoce dell’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra.

Il governo ad interim del Bangladesh è d’accordo: all’inizio di questa settimana, ha istituito una commissione di cinque membri per indagare sui casi di sparizioni forzate da parte delle agenzie di sicurezza durante il governo di Hasina dal 2009.

E coloro che sono sopravvissuti al calvario vogliono giustizia.

“Vogliamo che i colpevoli siano puniti. Tutte le vittime e le loro famiglie dovrebbero essere risarcite”, ha detto Maroof Zaman.

Tornato in strada fuori dalla Casa degli Specchi – solo due giorni dopo che Sheikh Hasina era fuggita in India – Michael stava lottando per decidere cosa fare. Gli era stato detto del suo rilascio solo 15 minuti prima. Era molto da assimilare.

“Ho dimenticato le ultime due cifre del numero di telefono di mia sorella”, dice. “Ho faticato molto a ricordarlo, ma non ci sono riuscito. Poi ho chiamato un parente che li ha informati”.

Ma Minti lo sapeva già: aveva visto la notizia su Facebook.

“Ero estasiata”, ricorda tra le lacrime due settimane dopo. “Il giorno dopo, mi ha chiamato, l’ho visto in quella videochiamata dopo cinque anni. Stavamo tutti piangendo. Non riuscivo a riconoscerlo”.

La scorsa settimana lo ha visto di persona per la prima volta in cinque anni: più debole, traumatizzato, ma vivo.

“La sua voce suona diversa”, dice.

Michael, nel frattempo, sta affrontando le implicazioni a lungo termine per la salute di essere tenuto all’oscuro per così tanto tempo.

“Non riesco a guardare correttamente i contatti o i numeri di telefono, è una visione offuscata. Sto ricevendo cure e il dottore mi sta dando gli occhiali”.

Più di questo, c’è da venire a patti con ciò che gli è sfuggito. Gli è stato detto della morte di suo padre pochi giorni dopo il suo rilascio.

Eppure, in mezzo al dolore, è speranzoso, persino felice.

“È più di una nuova prospettiva di vita, una resurrezione. Mi sento come se fossi morto e fossi tornato in vita. Non riesco a descrivere questa sensazione”.

  • Servizio aggiuntivo di Moazzem Hussain, BBC