Fact-checking. Vaccinare si può, ma anche senza autonomia differenziata (lavoce.info)

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Per spiegare i vantaggi dell’autonomia 
differenziata sulla sanità, il presidente di 
Regione Lombardia cade sull’esempio sbagliato: 

una vaccinazione per neonati che le regioni non potrebbero somministrare perché non inserita nei Lea. In realtà già la fanno.

Autonomia differenziata e tutela della salute

Cosa potrebbero fare le regioni in termini di tutela della salute con l’autonomia differenziata che già non possono fare ora, visto che la gestione della sanità è largamente di competenza regionale?

Alla domanda, in una recente intervista al Corriere della Sera, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, ha risposto con un esempio: “Esiste il problema del virus respiratorio sinciziale che riguarda soprattutto neonati e bambini. I pronto soccorso sono pieni. Noi vogliamo fare una campagna vaccinale, ma non possiamo anche se abbiamo le risorse perché non rientra nei Lea, i livelli essenziali di assistenza. Per quale motivo non possiamo farlo? Non chiediamo un euro a nessuno. Non siamo i soli in questa richiesta”.

La risposta sembra suggerire che con le attuali competenze le regioni non possono iniziare una campagna vaccinale a meno che questa non sia stata resa obbligatoria dallo stato, cioè, inserita nei Lea (i livelli essenziali di assistenza). Ma non è così. In generale perché, se hanno le risorse, le regioni possono sempre offrire servizi sanitari in aggiunta a quanto richiesto dai Lea.

E in particolare nel caso dell’esempio scelto, tant’è che la Toscana è già pronta con la campagna vaccinale contro il virus respiratorio sinciziale (Vrs) per i nati da aprile 2024 e tutte le altre regioni si stanno attrezzando per seguirla, compresa la stessa Lombardia.

Cos’è il Vrs

Il virus respiratorio sinciziale (Vrs) è responsabile delle bronchioliti e delle polmoniti nei neonati e, come per altri virus che colpiscono l’apparato respiratorio, i casi più gravi possono richiedere il ricovero in ospedale, anche in terapia intensiva; in alcuni casi si muore.

Le stime del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) suggeriscono che il problema sia rilevante, con 213mila bambini sotto i cinque anni ricoverati in Europa ogni anno. In Italia, sulla base di una recente indagine, i ricoveri sono 15mila, ma sono oltre 230mila gli interventi all’anno, inclusi gli accessi al pronto soccorso.

Una circolare ministeriale (indirizzata tra gli altri agli assessorati regionali alla sanità) ricorda che sono oggi disponibili e autorizzati dall’Aifa due anticorpi monoclonali per i bambini e due vaccini per adulti.

In una intervista al Corriere Salute, Alberto Villani, già presidente della Società italiana di pediatria, ha spiegato che questi nuovi anticorpi monoclonali si sono dimostrati molto efficaci nella prevenzione della malattia. Nell’intervista si cita il caso della Galizia, una regione della Spagna dove gli anticorpi sono stati somministrati sistematicamente ai neonati, con una riduzione dei ricoveri da Vrs dell’86 per cento. L’esempio della Galizia è stato prontamente seguito da altre regioni, con quella di Madrid e Catalogna che hanno incluso l’anticorpo monoclonale nel calendario vaccinale a partire da questa stagione invernale.

E in Italia?

In Italia la tutela della salute è materia di legislazione concorrente, dunque la normativa quadro viene fissata dallo stato mentre l’attuazione delle campagne vaccinali spetta alle regioni. Nel caso delle vaccinazioni è lo stato a definire quali sono obbligatorie. L’ultima norma è del 2017 e perciò non comprende (ancora) le terapie contro il Vrs.

Seguendo l’esempio della Spagna e quanto scritto nella stessa circolare ministeriale prima ricordata, è chiaro che il ministero della Salute dovrebbe intervenire per aggiungere anche questa prescrizione a quelle obbligatorie, integrando l’elenco del decreto legge del 2017.

Ma visto il (colpevole) ritardo dello stato, le regioni possono muoversi autonomamente? Sì, tanto è vero che in Toscana è già pronta la campagna di vaccinazione per tutti i neonati dal primo aprile 2024. Non solo.

Secondo una recente indagine di Corriere Salute, con l’eccezione di due regioni (che non hanno risposto), tutte le altre (inclusa la Calabria, in attesa dell’autorizzazione ministeriale poiché è sottoposta a Piano di rientro) si stanno muovendo per organizzare la campagna gratuita di somministrazione.

Tra queste c’è anche la Lombardia:  “La Regione Lombardia nella delibera di giunta approvata il 5 agosto 2024 specifica che sta «ponendo in essere le azioni propedeutiche ad attivare una campagna di prevenzione per le patologie da Rsv per la stagione 2024/25 tramite immunizzazione con anticorpo Nirsevimab dedicata ai bambini che hanno 8 mesi o meno al momento dell’inizio della circolazione virale (i nati nell’anno solare di inizio della stagione epidemica per Rsv) e per i bambini nati durante la stagione (settembre – marzo)».

E dall’assessorato regionale al Welfare fanno sapere che «in attesa di un ulteriore atto di indirizzo che dovrà essere adottato nella riunione di giunta prevista il 9 settembre», la Regione ha già avviato una procedura per l’acquisto del farmaco».

È del tutto possibile che l’autonomia differenziata sulla tutela della salute, se richiesta e concessa, consentirebbe alle regioni di fare cose che ora non possono fare. Fa dunque bene il presidente Fontana a spiegarlo ai cittadini.

Ma deve scegliere esempi appropriati; quello sul Vrs è chiaramente sbagliato.

Semantica delle “anime belle” che vogliono disarmare l’Ucraina per un asserito amore della pace (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

Domanda: non ci si trova forse di fatto nell’“incapacità di influire sul corso del mondo con il proprio impegno e la propria operosità”, come scrive Hegel? Questo è l’effetto che fa chi si appella alla Russia perché fermi le sue armi

Sulla Stampa di lunedì c’erano due articoli, uno di Marco Revelli uno di Massimo Cacciari, che evocavano, ovviamente per respingerla da sé, la categoria delle “anime belle”: epiteto di cui si sentono gratificati per il loro amore per la pace. Quando vedo impiegata polemicamente o sarcasticamente l’espressione di “anime belle” chiudo la pagina e passo ad altro.

Da tempo “anime belle” – o il suo presso che sinonimo, “radical chic” – è diventato un modo per irridere qualunque sensibilità al miglioramento di questo porco mondo. Ieri ho consultato la Treccani, dove la voce Anima bella è laconicamente redatta da Giuseppe Bedeschi, che ne traccia le origini antiche e lo svolgimento cruciale in Hegel, nella “Fenomenologia dello spirito” (1807). Là, riconoscendo ancora nell’anima bella “la soggettività elevata all’universalità”, Hegel la descrive “incapace tuttavia di uscire da sé stessa, e di trasformare, attraverso la propria azione, il proprio pensiero in essere”.

Sicché l’anima bella è “questa fuga davanti al destino, questo rifiuto dell’azione nel mondo, rifiuto che porta alla perdita di sé”. In conclusione, “l’anima bella è quindi pura e incontaminata, ma completamente incapace di agire nel mondo, e di influire sul suo corso con il proprio impegno e con la propria operosità”.

Mandando al diavolo le tenzoni fra anime belle e anime belliche – del “pacifismo” ideologico, che preferisce chiamarsi “di principio”, trovo insopportabile, oltre che assurda, la pretesa che i propri interlocutori, salvo che siano armaioli o mercenari di professione, non amino a loro volta, e altrettanto, la pace – mi chiedo se, nel caso concreto dell’Ucraina invasa dalla Russia, non ci si trovi di fatto nell’“incapacità di influire sul corso del mondo con il proprio impegno e la propria operosità”, se non al rischio di influire, ma malamente.

La condizione, inesorabile, quotidiana, con cui misurarsi è quella della guerra, combattuta da più di due anni e mezzo, sul territorio ucraino (la striscia di Kursk non contraddice se non simbolicamente lo stato di fatto), con una manifesta prepotenza di armamenti e di uomini della Russia che ha aggredito, ingigantita dall’esplicita minaccia russa di ricorrere al proprio arsenale nucleare.

In questa condizione, gli eventuali appelli alla Russia (che non ci sono, o sono papali o teneramente flebili e retorici) perché fermi le sue armi, non hanno avuto e mostrano finora di non avere alcuna efficacia pratica. In realtà, la mole di violenza distruttrice di vite umane, città, villaggi, infrastrutture, inferta quotidianamente al territorio ucraino non fa che superarsi.

Al contrario, gli appelli a smettere gli aiuti militari all’Ucraina hanno una effettiva e crescente efficacia – l’Italia ne è un esempio, con la discrepanza appena certificata fra parole e fatti, ma non è certo la sola. Del resto, questa è semplicemente la manifestazione della differenza fra democrazia e autocrazia, fra – relativo com’è – stato di diritto e – assoluto com’è – stato di forza.

Ancora più efficace è il freno opposto all’impiego ucraino delle armi oltre il confine russo, una “linea rossa” almeno paradossale dal momento che l’esercito russo bombarda nel territorio ucraino fino al suo estremo confine occidentale, e che il territorio ucraino lo ha invaso e continua ad avanzarci dentro. In questo caso, si dirà, non c’entrano amor di pace o voluttà di guerra, ma la prudenza e il desiderio di sventare il male maggiore, come sarebbe una Russia ferita che passasse al confronto nucleare.

Solo che questo, che si presenta come un responsabile realismo (non m’importa qui delle sue versioni strumentali e ipocritamente complici), vuol dire aver accettato “razionalmente” che una potenza nucleare che decida di violare il rispetto per l’indipendenza e la sovranità di altri stati non possa essere fermata, e debba avere partita vinta.

Da una parte, c’è una necessaria considerazione della misura. Dall’altra, la certezza che non ci sarà più un solo stato del pianeta, a cominciare dai più lazzaroni, che rinunci alla corsa ad armarsi dell’atomica. Pyongyang è il modello universale.

Si auspica una cessazione del fuoco che prepari un negoziato? E’ un auspicio ragionevole e condiviso. Ridurre la capacità militare di una parte – la più debole, oltretutto, e quella che si difende – mentre resta intatta, o addirittura si rafforza, la capacità militare dell’altra parte, è un modo di avvicinare la cessazione del fuoco e il negoziato? O un modo di avvicinare la cessazione di un fuoco e far che divampi l’altro?

Penso che, fra gli attori principali, nessuno miri alla fine della guerra più di Zelensky, il quale propone suoi piani di pace (e di vittoria) sapendo bene che non dipende da lui. Lui sta fra l’oltranza di Putin, l’indisponibilità della resistenza militante ucraina e del suo carico di caduti, e il rischio della diserzione o della dimissione civile. Qualcos’altro, qualcun altro, dovrà aprire un varco.

Fino a che la Russia continui a fare terra bruciata dell’Ucraina, l’appello o la mobilitazione per disarmare l’Ucraina è un modo per rafforzare l’aggressione e i suoi fini. Per favorire la resa, non la tregua, né la pace. La Russia non vuole solo sconfiggere l’Ucraina, vuole fiaccarla, fiaccarne lo spirito. Certificare la supremazia di truppe mercenarie sullo spirito di resistenza.

Vivano la pace, il negoziato, il cessate il fuoco: intanto, quando sono piovute sull’Ucraina “in una sola settimana, oltre 800 bombe aeree guidate, quasi 300 droni Shahed e oltre 60 missili di vario tipo”, disarmare l’Ucraina vuol dire amare la pace?

O non è un modo per influire malamente sul corso del mondo?