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Quella volta in cui ho acciuffato il mio primo (neo)nazista (linkiesta.it)

di

Goodbye, Hitler

In “Eravamo come fratelli”, Daniel Shulz ripercorre la trasformazione dei giovani nati nella Ddr e cresciuti durante gli anni Novanta, esplorando la metamorfosi degli ideali socialisti in odio e violenza.

Una riflessione potente sull’origine della xenofobia e dell’estremismo di destra nella Germania post-comunista

Ho acciuffato il mio primo nazista. Era solo un piccoletto, un Wessi non uno di quei giganti che girano da noi in Brandeburgo. E dire che in realtà volevo solamente andare a prendere dell’erba, per Marik, che fa il servizio civile con me, e dice che gli sbirri non mi controllano spesso quanto lui.

È soltanto uno sfaticato, ma a me piace andare in treno a Berlino, quindi fa lo stesso. Esco dalla stazione, attraverso un incrocio, giro a sinistra in una via tutta villette unifamiliari e con un cimitero.

Lì mi viene incontro una testa rasata, sul metro e settanta, a occhio non sono bravo a fare stime. Sopra il tizio sembra grosso, a causa della giacca pesante, nera e tutta di pelle sulle spalle. Sotto spuntano due gambette sottili come stecchi. Quando siamo alla stessa altezza, sento: «Checca».

Gli è scattato il sensore per gli hippie – i miei capelli lunghi, gli occhiali, la stoffa morbida della mia giacca inca. Sono due teste più alto di questo omino stecco. Nello stomaco mi si accumula una sensazione di calore che risale l’esofago fino in testa.

Per un secondo il cervello mi sbalza in un mondo parallelo, quando faccio ritorno cammino come un robot, passi rigidi, sconnessi. Mi giro e corro dietro al tizio. Al semaforo successivo lo acchiappo, per il braccio destro, lo afferro e con uno strattone lo faccio voltare verso di me.

«Ehi!». I suoi occhi sono verde scuro. Vorrei che anche i miei fossero così.
«Ciao». Spero di dirlo in tono molto tranquillo, come in un film. Forse perfino sorrido.
«Che vuoi?». Cerca di liberarsi, alza la voce, urla che sono uno stronzo finocchio.

Io continuo a tenerlo fermo. Poi all’improvviso grida aiuto. Sono così sorpreso che lo lascio andare, insomma, non avevo mai sentito prima un nazista gridare aiuto, neanche quella volta durante la rissa al parcheggio, quando a Torsten hanno spappolato la testa come un pomodoro.

Un secondo, due secondi, tre. La testa rasata potrebbe correre via con le sue gambe sottili, ma è stato colto troppo alla sprovvista. Lo afferro di nuovo, sul davanti della giacca, con entrambe le mani.

«Forza, ariano!». Lo scuoto come farebbe un naufrago con una palma. «Una barzelletta sugli ebrei, raccontami una barzelletta sugli ebrei».

Mi guarda con gli occhi verdi sbarrati. Un cervo nel cono di luce dei fari di un’auto.
Conto: «Tre, due…».
Una mano si avvinghia al mio braccio destro. «Ehi, ma che sta facendo?».

Un tizio giovane, capelli arruffati, indossa un cappuccio variopinto che sembra fatto a mano all’uncinetto. «Lasci andare quell’uomo, per favore» dice il tizio, e io lo lascio andare.

Lo lascio andare e pianto il palmo della mano sinistra sul naso dell’Uomo Uncinetto, o almeno questo è il piano, ma lui si scansa, abbassandosi con una mossa stranissima, e io lo colpisco in mezzo alla fronte. Lui cade di culo all’indietro.

«Ahia, ma sei scemo?». Lo dice a bassa voce, e con una faccia confusa come se si svegliasse in questo istante nel suo letto, chiedendosi se sta ancora sognando. Penso a cosa dire, deve andare a farsi fottere, è questo che voglio dirgli, quando dietro di me si sentono dei passi pesanti. Bum. Bum. Bum. Il mio nazista sta tagliando la corda.

Quando entrambi attraversiamo di corsa col rosso, per poco non vengo investito da un pick-up, un coso grosso con le gomme gigantesche, quasi un monster truck. Il tizio al volante si sbraccia, io grido: «Scusa!», e continuo a correre.

Di nuovo dentro la stazione, su per le scale che portano ai binari. Lì ci sono due treni. Sceglie quello a sinistra, il penultimo vagone. Io faccio uno scatto dietro di lui e mi infilo appena in tempo nelle porte che si stanno chiudendo.

Lui mi vede e sgrana gli occhi, forse finora uno zelo tale l’aveva visto solo nei suoi simili. Corre in fondo alla vettura, lì è finita, e il treno parte. Qualcuno grida qualcosa, di smetterla, una voce di donna alle mie spalle, ma io ho occhi soltanto per la mia testa rasata. Alza le braccia saltellando come un pugile, io gli assesto un pugno alle reni, o comunque lì da quelle parti. Lui urla e si contorce.

Poi la cosa si fa davvero strana. Il nazista non cerca più di colpire, mi afferra i capelli con la mano sinistra e si lascia cadere trascinando giù con sé anche la mia testa. L’altra mano mi strizza le palle, o almeno ci prova, ma io sto in piedi a gambe larghe, e i jeans formano un triangolo protettivo tra le mie cosce, duro come un’armatura.

Lo prendo a calci nei fianchi, nella schiena, nello stomaco, ma a quello non riesco veramente ad arrivarci. In faccia non voglio colpire, denti, occhi, è troppo rischioso per me.

Non picchiare come una marionetta, così mi ha detto Sandro una volta, allarghi troppo il braccio per caricare, sferra colpi brevi e forti. Probabilmente sto sbagliando di nuovo.

Il nazista urla, continua a urlare la stessa cosa: «Che vuoi? Che vuoi?». A un certo punto scoppia a piangere.

I miei capelli però non li molla, e anche se non può pesare molto, sento come se mi strappasse via il cuoio capelluto. Do uno strattone all’indietro col busto. La testa mi brucia, e nella sua mano vedo lunghi capelli biondi.

Quando sbatto la fronte contro la sua, schiocca come una noce, rimbombandomi in testa. Lui finisce barcollando sulla parete del vagone, le sue mani non trovano un appiglio, scivola giù. Smetti quando uno è a terra, questo non me l’ha detto Sandro, ma mio padre. Sferro ancora due calci.

Gli sbirri arrivano due stazioni più avanti. Il commissario capo strepitando mi ordina di togliere le mani dalle tasche, molto lentamente. Chiede se ho un coltello.

Mi caricano sul loro furgone e mi spediscono a Potsdam, alla polizia ferroviaria. Il nazista non viene. In un ufficio un tizio batte su una vera macchina da scrivere la mia deposizione. In realtà non posso dire un bel niente, devo tenere la bocca chiusa. Gli racconto tutto.

Qualche settimana più tardi sono seduto nello studio di un’avvocata vicino al Ku’damm, il mio nazista mi ha denunciato. Naturalmente ho un’assicurazione che copre le spese giudiziarie, in fondo mio padre ci lavora, nelle assicurazioni.

L’avvocata mi guarda come una gatta che ha appena mangiato, ma nel tunnel dietro le sue pupille la fame è in agguato. «La deposizione che ha reso a Potsdam era subottimale» dice. «In tribunale ce la caveremo». In fin dei conti mi sono difeso da un estremista di destra, perciò sono un eroe.

Lo sguardo da gatta pasciuta si smorza quando le dico che non voglio andare in tribunale, ho troppo da fare, non ho tempo, mi dispiace. Non le dico che ho paura che la giudice mi possa chiedere perché ho menato quel tizio.

Se apro bocca una volta, potrei non smetterla più di parlare. Le racconterei tutto: di come Volker mi ha salvato dai due tizi con le tette alla Rambo. Dell’aggressione al parcheggio, quando sono corso via, e della sera in cui hanno preso Mariam e io per la paura non ho neanche pensato di mollare un pugno al piccolo Nowak.

Alla fine, e riesco a vedermi la scena in tutti i dettagli, mi inginocchierei davanti alla giudice chiedendole perdono come a un prete cattolico.

Mi costerà quattrocento bigliettoni, così dice l’avvocata, se non voglio chiarire la faccenda con il nazista in tribunale. Quattrocento bigliettoni per non dover parlare di tutta la merda successa prima, di che razza di codardo sono stato. Quattrocento bigliettoni per poter continuare a tenere la bocca chiusa. È uno scambio equo, direi.

Da “Eravamo come fratelli” di Daniel Schulz, Bottega errante edizioni, 296 pagine, 20 euro

Niente grazia: Marcellus Williams giustiziato dal boia senza prove (ildubbio.news)

Usa

Il 55enne afroamericano aveva passato gli ultimi 23 anni nel braccio della morte.

Sull’arma del delitto non c’era il suo Dna e la stessa famiglia della vittima aveva dubbi

Aveva evitato l’iniezione letale nel 2015 e nel 2017, ma la sua condanna non era stata annullata nonostante la clamorosa mancanza di prove. Cosi intorno alle 23.00 di martedì scorso il detenuto Marcellus Williams è stato giustiziato nella prigione di Bonne Terre nel Missouri. L’uomo 55enne era in cella da 23 anni, dal momento in cui venne condannato per l’omicidio di Felicia Gayle, un’ex giornalista e assistente sociale, trovata pugnalata a morte nella sua casa nel 1998.

Williams ha sempre sostenuto la sua innocenza e per una volta la stessa famiglia della vittima aveva paventato la possibilità che l’uomo non avesse commesso il brutale assassinio. La vicenda giudiziaria di Williams sembra in tal senso il classico caso di malagiustizia.

Durante il processo, i pubblici ministeri avevano sostenuto che Williams avesse fatto irruzione in casa della donna assassinata che si trovava sotto la doccia. Una volta uscita era stata uccisa con un grosso coltello da macellaio. Sempre secondo l’accusa, Williams aveva rubato un computer che poi aveva rivenduto.

I pubblici ministeri avevano anche presentato la testimonianza di Henry Cole, che ha condiviso la cella con Williams nel 1999 mentre era in carcere per una rapina a mano armata in un negozio di ciambelle. Cole testimonio che Williams aveva confessato l’omicidio fornendo dettagli specifici. Inoltre anche la sua ragazza dell’epoca sostenne che l’accusato portava una giacca per coprire le macchie di sangue nonostante il gran caldo di quei giorni.

Ma gli avvocati hanno sostenuto che non c’erano prove forensi che collegassero Williams alla scena del crimine e che l’arma del delitto era stata maneggiata male, mettendo in dubbio la prova del DNA. I test infatti hanno dimostrato che il materiale genetico sul coltello apparteneva a membri dell’ufficio del procuratore che lo avevano toccato senza guanti dopo le prove di laboratorio originali del crimine.

Secondo un rapporto dell’Associated Press, la difesa di Williams ha anche sostenuto che sia la ragazza che Henry Cole avevano condanne penali e stavano sperando in una ricompensa di 10 mila dollari. Hanno anche prodotto altre prove come un impronta di scarpe insanguinata e capelli trovati sulla scena del crimine che non corrispondevano a quelli di Williams.

Sulla condanna a morte pesa anche il sospetto di razzismo, Williams infatti era nero e durante la reclusione si era convertito all Islam diventando un Imam. Dalla giuria sono stati esclusi alcuni giurati afroamericani con motivazioni abbastanza risibili come quella di una somiglianza troppo marcata con l’imputato tale da far sospettare una parentela stretta.

Risulta così controverso l’iter processuale piu recente in cui senza prove del DNA che indicassero sospetti alternativi, gli avvocati avevano raggiunto un compromesso con l’ufficio del procuratore. Williams avrebbe presentato una nuova dichiarazione di non contestazione per omicidio di primo grado in cambio di una condanna all’ergastolo senza condizionale.

Il giudice Bruce Hilton aveva approvato l’accordo, così come la famiglia di Gayle. Tuttavia, il procuratore generale repubblicano Andrew Bailey ha presentato ricorso, portando la Corte Suprema dello Stato a bloccare l’accordo e ordinare a Hilton di condurre un’udienza probatoria.

Il 12 settembre scorso Hilton ha così stabilito che la condanna per omicidio di primo grado e la condanna a morte sarebbero rimaste in vigore, affermando che le argomentazioni di Williams erano state tutte precedentemente respinte.

La Corte Suprema dello Stato ha confermato questa decisione lunedì. Il governatore Michael Parson, repubblicano anch’esso, ha respinto la richiesta di clemenza di Williams.

Il selfie di Meloni con Novák, la protagonista dello scandalo pedofilia che persino Orbán ha dovuto allontanare (editorialedomani.it)

di Francesca De Benedetti

Sorrisi e selfie dagli States

La fedelissima orbaniana ha dovuto dimettersi da presidente della Repubblica ed è uscita dalla scena politica ungherese.

Ma la premier la abbraccia all’Atlantic Council, mentre lei predica sui «bambini che salvano il mondo». Le relazioni (pericolose) tra meloniani e orbaniani

Probabilmente Giorgia Meloni ha sperato che in Italia nessuno ricordasse la biografia politica di Katalin Novák, o più semplicemente ci sono connessioni che per lei neppure gli scandali interrompono.

Fatto sta che la ex presidente della Repubblica ungherese, costretta a dimettersi questo febbraio per il suo coinvolgimento in uno scandalo pedofilia, ha potuto esibire una foto scattata negli Stati Uniti assieme alla premier italiana e ad Elon Musk, accompagnata dalla scritta: «Solo i bambini possono salvare il mondo».

Inoltre, stando a fonti ungheresi, sarebbe stata proprio Meloni a garantirle l’invito alla cerimonia all’Atlantic Council. Novák si fa promotrice di una «no profit contro il collasso demografico».

Chi è Novák, e lo scandalo

Katalin Novák è stata sempre considerata una fedelissima di Orbán. Anzitutto è stata la ministra della Famiglia (della «famiglia tradizionale»), della propaganda anti Lgbt, del World Congress of Families e del summit demografico di Budapest; ha sempre avuto rapporti stretti con leghisti come Lorenzo Fontana e ovviamente coi meloniani.

Poi da presidente – un ruolo da lei assunto nella primavera 2022 – ha svolto il ruolo di maschera del potere: era lei a fare il viaggio in Ucraina, le missioni riconciliatrici, a gettare strati di cipria sulle contraddizioni orbaniane.

Per lei il terremoto politico comincia il 2 febbraio di quest’anno: il portale 444 rivela che nell’aprile 2023, contestualmente con la visita del Papa a Budapest, la allora presidente della Repubblica ungherese ha concesso la grazia presidenziale al vicedirettore dell’orfanotrofio di Bicske, che aveva cercato di coprire gli abusi pedofili, arrivando a forzare i bambini a prestare falsa testimonianza.

Di fronte alle rivelazioni, Orbán non ha preso le sue difese; si è limitato a dire che la Costituzione andava cambiata per evitare che casi simili si ripetessero e poi si è eclissato. Novák, che era in missione, ha dovuto quindi salire su un aereo di stato, indossare un tailleur color confetto, e annunciare le sue dimissioni.

Il selfie con Meloni

Questo pomeriggio la protagonista dello scandalo pedofilia ha twittato come slogan: «Only children can save the World», accompagnando il tutto con il selfie assieme a Meloni e Musk, con il quale un anno fa si faceva fotografare sostenendo di voler combattere il declino demografico.

Novák – che dopo lo scandalo è ormai fuori dalla politica ungherese e si accontenta di ricevere titoli onorari da università della Corea del Sud – si fa ora promotrice di una «no profit globale contro il collasso demografico», come spiega anche per motivare il suo incontro con Meloni e Musk.

Fonti ungheresi riferiscono che sarebbe stata proprio Meloni a garantirle un invito all’Atlantic Council.

Mondo orbaniano e meloniano

I rapporti tra la premier italiana e quello ungherese non si sono mai interrotti.

Novák – che in passato ha accompagnato Orbán nei suoi viaggi romani e che ha partecipato a iniziative con leghisti come Fontana ed esponenti di FdI –  ha anche svolto un ruolo nel favorire il riavvicinamento pubblico tra i due un anno fa.

Dato che, a guerra in Ucraina appena scoppiata, la leader di FdI aveva contenuto i selfie col premier filoputiniano, a settembre del 2023 la allora presidente della Repubblica ungherese ha invitato Meloni al summit demografico di Budapest, fornendo così un’occasione formale ai due capi di governo per un bilaterale ungherese.

Non c’è quindi da stupirsi che le due abbiano rapporti stretti.

Ma è piuttosto scandaloso che Meloni tuttora esibisca selfie con la ex presidente controversa, così imbarazzante che persino il suo mentore politico Orbán ha separato la propria strada pubblica dalla sua.