Il nuovo fronte (corriere.it)

di Paolo Mieli

L’ esplosione in contemporanea di migliaia di 
cercapersone in mano (o in tasca) a esponenti 
Hezbollah in Libano e in Siria, e quella dei 
walkie-talkie, per un attimo hanno restituito 
la fama sempiterna all’intelligence israeliana. 

Fauda , la serie tv che ha reso celebri quei servizi segreti, è di nuovo tra noi. Giusto alla vigilia del primo anniversario del 7 ottobre che invece quella fama l’aveva incrinata in un modo forse definitivo.

Nel senso che da quel momento in poi nessun cittadino israeliano potrà più fidarsi ciecamente della nomea del Mossad. Anche per quel che è seguito al 7 ottobre di un anno fa. Nel corso di dodici mesi Gaza è stata pressoché distrutta, Israele è stata sconvolta da possenti manifestazioni antigovernative al ritmo di una alla settimana (talvolta due o tre), il governo d’unità nazionale formatosi per affrontare la crisi a giugno è andato in frantumi.

In più si è scoperto che i servizi segreti di Tel Aviv e Gerusalemme avevano un’idea piuttosto approssimativa del reticolo militare sottostante a Gaza. E che per anni aveva funzionato un flusso di armi in direzione di quella struttura sotterranea di cui nessuno aveva precisa contezza. E si è scoperto altresì che Israele aveva il peggior apparato del mondo intero per illustrare le condizioni in cui si è venuta a trovare e le scelte che stava compiendo.

I n aggiunta, gran parte dei rapiti è a tutt’oggi nelle mani dei rapitori, per liberarli è stato ucciso un numero impressionante di soldati e si sono aperti nuovi fronti militari, anch’essi tutt’altro che imprevedibili. Adesso la guerra si sposterà probabilmente a Nord, alle frontiere con il Libano dove esiste una struttura militare ostile assai più potente di quella di Hamas, un reticolo anch’esso sotterraneo degli hezbollah, i quali però sono vulnerabili— come dimostra il clamoroso infortunio dei cercapersone — e non hanno in mano chatufim (ostaggi).

Israele è obbligata ad aprire quel fronte non foss’altro per riportare a casa, in sicurezza, migliaia e migliaia di abitanti di quella regione che da mesi sono stati costretti a riparare in dimore di fortuna.

Tutto ciò, accompagnato da un’ondata di discredito internazionale che ha spostato in un campo di inimicizia (o quasi) anche individui che in precedenza non erano pregiudizialmente ostili alla causa israeliana, persino personalità della diaspora ebraica.

E ha creato un sentimento pressoché unanime di ostilità nei confronti della persona di Benjamin Netanyahu. Un sentimento che non tiene in alcun conto il fatto che — come si è detto — fino a giugno Netanyahu ha guidato un gabinetto di unità nazionale: ragion per cui i nove decimi delle vittime di Gaza sono riconducibili non al solo Netanyahu bensì a politici votati dalla maggioranza del corpo elettorale di Israele.

E che tutti i predecessori di Netanyahu, in tempo di guerra quantomeno dal 1967 in poi (ma anche prima, ad esempio durante la guerra di Suez del ’56), furono accolti da diffusi sentimenti antipatizzanti. Quasi ovunque, nel mondo intero.

In passato però gli israeliani avevano dalla loro i presidenti degli Stati Uniti, cosa che adesso non è più. Biden ha mostrato all’inizio solidarietà per la causa israeliana unendosi però al coro di quelli che suggerivano allo Stato ebraico cosa «non fare» (all’indomani del 7 ottobre, l’ha esortato a non comportarsi alla maniera in cui aveva reagito Bush Jr all’abbattimento delle Twin Towers).

Poi gli ha spedito una decina di volte Blinken con un ambiguo mandato ad un tempo di incoraggiamento e di freno. Per impegnarsi direttamente in una trattativa di cui, va detto, è impossibile, o comunque assai difficile individuare l’orizzonte.

Adesso oltretutto il presidente degli Stati Uniti si ritrova congelato per i mesi che vanno di qui al 20 gennaio quando uscirà dalla Casa Bianca e ha passato la patata bollente alla povera Harris che rischia, per il protrarsi del conflitto, di perdere ampi strati di elettorato che simpatizzano o nutrono sentimenti di antipatia per entrambi i contendenti.

L’Europa ha avuto un comportamento analogo a quello di Biden non aiutata dalle Nazioni Unite che si sono mostrate assai poco sensibili, se non in modo rituale e del tutto generico, nei confronti della sorte degli ostaggi israeliani.

Sicuramente la vicenda dei cercapersone esplosivi — come del resto la capacità di parare missili e razzi provenienti da ogni direzione e di colpire a morte dirigenti di Hamas e di Hezbollah — restituirà almeno in parte agli israeliani fiducia nelle capacità militari del proprio Paese. Ma la via del ritorno a casa dei chatufim (vivi o morti) è ancora lunga.

Altrettanto lunga è la strada per cui i palestinesi di Gaza e dei territori possano considerare riparati i torti subiti. Ancor più lontana appare la meta di una pacifica convivenza tra Israele e i Paesi arabi circostanti. Neanche la cattura o l’uccisione di Sinwar cambierebbe in realtà questa prospettiva. Troppo tempo è passato dal 7 ottobre perché tutto possa risolversi con un evento ad effetto.

Stavolta è necessaria una soluzione di pace. Pace vera. Possibilmente definitiva.

Von der Leyen contro la protezione del lupo in Europa (wwf.it)

Il WWF chiede agli Stati membri di ascoltare la 
scienza e respingere la grave proposta di 
declassare lo status di protezione del lupo

Chiediamo agli Stati di respingere questa proposta che declassa lo status di protezione della specie

Contro ogni evidenza scientifica, la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha proposto di declassare lo status di protezione del lupo nella Convenzione di Berna, da specie “rigorosamente protetta” (Allegato II) a specie “protetta” (Allegato III). Il WWF sottolinea la sua assoluta contrarietà e invita gli Stati membri dell’UE a respingere questa proposta.

La Convenzione di Berna del Consiglio d’Europa è la più antica convenzione al mondo nel campo della conservazione della natura ed è in vigore dal 1979. È considerata la fonte originaria di diritto internazionale che ha portato all’adozione della Direttiva Habitat dell’UE, pietra miliare dei programmi di conservazione europei.

“Questa è una decisione grave, senza alcuna giustificazione scientifica, motivata da ragioni puramente personali e politiche, che va a minare gli straordinari sforzi di conservazione messi in campo negli ultimi decenni e che hanno permesso la ripresa numerica e spaziale delle popolazioni di lupo in molti paesi dell’UE- dichiara Isabella Pratesi, direttrice del programma di Conservazione al WWF Italia-.

La Presidente von der Leyen sta deliberatamente sacrificando decenni di lavoro di conservazione per il suo tornaconto politico, dando eco ai tentativi dei suoi alleati politici di strumentalizzare il lupo come capro espiatorio dei problemi socio-economici delle comunità rurali e del settore zootecnico. Questo approccio è inaccettabile e può creare un pericoloso precedente”.

La mossa della von der Leyen rappresenta un’inversione di rotta nelle politiche di conservazione che hanno fino ad oggi caratterizzato l’UE, ed è dettata da motivi puramente politici. A sostegno di questa interpretazione, lo scorso novembre l’UE aveva respinto il tentativo della Svizzera di declassare lo status di protezione del lupo, sostenendo che, sulla base dei dati più recenti, il lupo non aveva raggiunto uno stato di conservazione favorevole nella maggior parte degli Stati membri dell’UE.

Questo ripensamento è ancora più ingiustificato se si considera che i risultati dell’analisi approfondita della Commissione sulle popolazioni di lupi nell’UE, pubblicata oggi, non forniscono alcuna prova scientifica che lo stato della popolazione dei lupi sia cambiato in modo significativo nel giro di un anno.

Questo annuncio è anche in contrasto con l’opinione pubblica, così come rilevato dallindagine recentemente pubblicata sulla percezione delle comunità rurali riguardo la coesistenza con i grandi carnivori. I risultati mostrano che il 68% degli abitanti delle zone rurali ritiene che i lupi debbano essere rigorosamente protetti e più di due terzi (72%) concordano sul fatto che abbiano il diritto di coesistere con l’uomo e le sue attività.

Per il WWF proposta indebolisce il ruolo dell’UE come partner affidabile e leader nei forum internazionali, oltre a mettere in dubbio l’autenticità dei suoi sforzi per raggiungere gli obiettivi globali di biodiversità. Solo un anno fa, la Presidente von der Leyen aveva pronunciato un’importante dichiarazione a sostegno dell’accordo storico sull’azione globale per la natura per il 2030, insieme al resto della comunità internazionale. L’annuncio di oggi mette in discussione questi impegni internazionali dell’UE.

Una modifica alla Convenzione di Berna richiede una decisione del Consiglio e quindi una maggioranza qualificata degli Stati membri per approvare la proposta della Commissione. All’inizio del 2023, 12 Ministri dell’Ambiente hanno scritto al Commissario Sinkevičius assumendo una chiara posizione contro il declassamento dello status di protezione del lupo.

L’Italia al contrario, con il Ministro Lollobrigida, ha recentemente presentato un documento, sostenuto anche da Francia, Austria, Polonia, Romania, Grecia, Finlandia e Lettonia, in cui ignorando le più recenti evidenze scientifiche che sottolineano quanto gli abbattimenti non rappresentino una soluzione a lungo termine per la mitigazione dei conflitti con la zootecnia, viene chiesto alla Commissione UE di aggiornare lo status di protezione dei grandi carnivori, lupo compreso, nel quadro della Direttiva Habitat.

In diverse regioni europee è stata dimostrata che la coesistenza tra lupo e attività umane è possibile grazie a misure preventive efficaci, come l’installazione di diversi tipi di recinzioni, l’utilizzo di cani da guardiania per il bestiame e altre tecniche innovative in sperimentazione negli ultimi anni.

Le linee guida dell’Unione Europea consentono agli Stati membri di risarcire pienamente agricoltori e allevatori per i danni causati da specie protette, come il lupo, e di rimborsare interamente i costi di investimento per le misure di prevenzione. Anche il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) potrebbe fornire un sostegno alla coesistenza, ma gli Stati membri non hanno sfruttato appieno questa opportunità di finanziamento.

La proposta di diminuire il grado di protezione del lupo e di aprire a modalità di gestione cruente rappresenta dunque una strategia inaccettabile e populista, che mette a serio rischio il futuro della conservazione di una specie chiave degli ecosistemi europei senza risolvere i potenziali conflitti.