Reagire al coinvolgimento nordcoreano in Ucraina vuol dire escalation. E non farlo? (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

La Corea del nord era lo stato dal cui fanatismo demenziale ci si poteva soprattutto aspettare una mossa nucleare. La questione resta, e non è un caso che ad avvertire dell’intervento di Pyongyang in Ucraina sia stata per prima la Corea del sud

Non sopportava di venire scavalcata dagli eventi, la sindrome nordcoreana. Vediamo se ho capito bene. Nella guerra di aggressione russa all’Ucraina, ambedue i combattenti, gli aggressori e i difensori, hanno degli alleati più o meno ufficiali, più o meno stretti.

Dal lato russo (uso sempre nomi come Russia e aggettivi come russo riferendoli al regime vigente e al suo capo, Vladimir Putin) c’è per esempio la Bielorussia, uno stato formalmente indipendente, dittatoriale nei confronti dei suoi cittadini, asservito economicamente e militarmente alla Russia, cobelligerante con qualche prudenza di facciata (la Cecenia di Kadyrov è invece una repubblica della Federazione russa, libera di fornire scherani). Poi c’è la vasta gamma degli alleati più o meno ufficiosi, a cominciare dall’Iran.

Dalla parte dell’Ucraina c’è soprattutto la Nato. La Nato, e a modo loro i suoi singoli stati, hanno via via fissato una lunga serie di limitazioni al loro sostegno.

Due di queste condizioni, le più influenti, sono tuttora in atto: il divieto all’impiego di armamenti di lunga gittata oltre il confine ucraino-russo, e il rifiuto della partecipazione diretta di militari della Nato sul campo ucraino. 

Alcuni governanti di singoli stati hanno bensì dichiarato di essere favorevoli alla fornitura di missili utilizzabili oltre il confine. Alcuni altri, sia pure in forma ipotetica e, come educatamente si dice, provocatoria, hanno ventilato l’intervento di truppe nel territorio ucraino, come fece Macron. Sono finora rimaste espressioni retoriche. In qualche caso, si è sostenuta come perennemente invalicabile la proibizione all’intervento diretto di proprie forze armate: così, con speciale enfasi, da parte del governo italiano.

Tutto ciò si riassume nella constatazione annosa del forte squilibrio fra la Russia, che combatte sul territorio ucraino e non conosce limiti ai luoghi da colpire con tutti i suoi congegni bellici, e l’Ucraina, le cui escursioni in territorio russo sono a volte avventurose ma rare, circoscritte, ed eseguite solo con le sue forze.

Questa la premessa, allo stato. Ora uno stato indipendente, la Corea del nord, riconosce e anzi vanta la partecipazione sul campo ucraino di proprie armi e truppe. La Corea del nord è, proverbialmente, il più grottescamente canaglia degli stati canaglia, si vanta come una potenza nucleare, e prima che la Russia dell’invasione rimettesse all’ordine del giorno la minaccia esplicita e ostentata del ricorso all’atomica, era lo stato dal cui fanatismo demenziale poteva soprattutto aspettarsi una mossa nucleare.

Benché la gara si sia precipitosamente infittita, la questione resta, e non è un caso che ad avvertire dell’intervento di Pyongyang in Ucraina sia stata per prima la Corea del sud.

L’escalation è la parola magica del nostro tempo. Per restare alla retorica vigente, il compito supremo della comunità internazionale è di sventare l’escalation – anche il più mancato. L’esercito nordcoreano sul fronte ucraino è una fragorosa tappa dell’escalation. Rispondere, vuol dire compiere un altro passo nell’escalation. Non rispondere, che cosa vuol dire?

I governanti di qualunque paese democratico hanno le migliori ragioni per ricordare di non essersi messi in politica, di non aver cercato e ottenuto il sostegno degli elettori, per affrontare questioni di una tale portata. Di guerra e di pace, e di una simile dimensione della cosiddetta guerra e delle sue conseguenze.

Basta guardarle, guardarli, per sentirne l’inadeguatezza, che appare in quanto tale anche il loro pregio, il loro riscatto: non sono loro a non essere all’altezza, sono le cose e i loro peggiori attori ad aver superato la misura. L’altezza d’uomo – di donna.

La conclusione più umana è quella: non vorrei essere nei loro panni. Ancora più umana, se completata da un dettaglio: non vorrei essere nei panni di una famigliola di Zaporizhia.

“Il ragazzo dai pantaloni rosa”, genitori di una scuola di Treviso si oppongono alla proiezione del film (orizzontescuola.it)

A Treviso, un gruppo di genitori di una scuola ha 
espresso contrarietà alla proiezione del film 
“Il ragazzo dai pantaloni rosa”, pellicola 
incentrata sul tema del bullismo e ispirata 
alla storia vera di Andrea Spezzacatena. 

Il sindaco della città, esponente della Lega, è intervenuto sulla vicenda, manifestando la propria intenzione di promuovere la visione del film e definendo la mancata proiezione “un’occasione persa per approfondire temi rilevanti e complessi della nostra società”.

Il film, recentemente presentato al Festival di Roma, era stato programmato per essere proiettato il 4 novembre agli studenti della scuola di Treviso, con posti già riservati per l’evento, ma alcune famiglie hanno avanzato la richiesta alla dirigenza scolastica di escludere i ragazzi dalla visione della pellicola, che tratta tematiche delicate come l’omofobia, la depressione e il suicidio.

In risposta alla decisione di sospendere temporaneamente la proiezione, il sindaco ha evidenziato la rilevanza del film come strumento educativo. Ha affermato che ignorare o evitare il confronto su argomenti come il bullismo e l’omofobia non rappresenti una soluzione adeguata, sottolineando la necessità di una riflessione comunitaria su problematiche sociali attuali.

Il dibattito sulla proiezione a Treviso giunge poco dopo un episodio analogo accaduto durante un’anteprima riservata alle scuole a Roma, dove il film è stato accolto con fischi e insulti, generando la reazione del ministro Valditara, che ha espresso indignazione per l’accaduto, interpretandolo come un segnale preoccupante di atteggiamenti omofobi diffusi.

La dirigenza dell’istituto di Treviso ha precisato che la proiezione del film non è stata cancellata, ma solo temporaneamente sospesa. La decisione finale riguardo alla visione del film per gli studenti sarà valutata nei prossimi giorni, con l’obiettivo di bilanciare le diverse istanze emerse all’interno della comunità scolastica e rispondere in modo adeguato alle preoccupazioni delle famiglie e delle istituzioni locali.

Messaggi dietro le quinte (corriere.it)

di Paolo Mieli

Tra America e Cina

Autodifesa proporzionata.

Con queste parole il presidente degli Stati Uniti d’America e la sua vice (nonché candidata per il Partito democratico alle elezioni presidenziali che si terranno tra nove giorni) Kamala Harris hanno definito l’attacco israeliano all’Iran. Con l’aggiunta di un avvertimento al Paese preso a bersaglio: «Teheran non risponda».

In effetti la cosiddetta «Operazione giorni di pentimento» non ha colpito l’Iran in maniera devastante pur essendo durata quattro ore e avendo provocato alcuni (pochi) morti. Come del resto non era stato drammaticamente distruttivo, il 1° ottobre scorso, il lancio di missili e droni da parte dell’Iran sul territorio israeliano.

Sono parse entrambe più una manifestazione di ostilità e di potenza da esibire ai propri popoli che azioni di guerra vere e proprie. Netanyahu oltretutto ha fatto precedere il suo lancio di missili da una lunghissima attesa e da consultazioni anche personali con i vertici statunitensi. Inoltre, non ha colpito né gasdotti né centrali nucleari. E ha provocato danni forse ingenti ma che gli iraniani sono in grado di minimizzare.

Inoltre, i due Paesi, sia all’inizio di ottobre che ieri, si sono scambiati messaggi trasversali avvertendosi l’un l’altro del momento in cui avrebbero attaccato e, secondo alcune fonti, segnalandosi reciprocamente gli obiettivi verso i quali si sarebbero indirizzati. In modo da ridurre al minimo il numero dei morti.

Ammesso che tutto ciò sia vero, si è trattato di operazioni delicatissime. Di quelle che possono facilmente sfuggire di mano. Ragion per cui sarebbe sciocco sottovalutarle e trattarle come semplici rappresentazioni di una guerra che in senso proprio non sarebbe (ancora) in atto. Ma lo sforzo del giorno successivo di illustrare i successi dell’iniziativa (l’Iran un mese fa, ieri Israele) appaiono viziati da un eccesso di enfasi.

In più, sempre attraverso canali clandestini (non si sa quanto affidabili), l’Iran avrebbe fatto sapere che, in contrasto con le pubbliche minacce di rappresaglia, stavolta non reagirà. Il che può voler dire che, se reagirà, lo farà in modo assai diverso e più violento. E che quelle di ottobre possono essere considerate alla stregua di una prova generale. Per Israele, ovviamente, vale lo stesso discorso.

Se ne può dedurre che la vera novità della giornata sia stata la reazione della Casa Bianca. Così diversa da quelle che nei mesi scorsi insistevano sulla «sproporzione» delle reazioni israeliane e sfioravano appena il tema dell’«autodifesa» di Gerusalemme dall’aggressione di formazioni militari ispirate da Teheran.

Tra le righe della dichiarazione del duo Biden-Harris si leggono poi due messaggi. Il primo, pressoché esplicito, ai capi del governo israeliano: concordate con noi ogni passaggio futuro, quantomeno della parte del conflitto che riguarda direttamente l’Iran e vi sosterremo alla maniera dei vecchi tempi.

Il secondo, più obliquo, è rivolto all’Arabia Saudita. In che senso? L’interpretazione corrente del pogrom del 7 ottobre è che esso sia stato incoraggiato e forse anche ideato da Teheran per impedire che l’Arabia Saudita si facesse coinvolgere negli «Accordi di Abramo».

Accordi nati da una dichiarazione congiunta tra Stati Uniti, Israele ed Emirati Arabi Uniti (13 agosto 2020) che prevedevano un riconoscimento reciproco in cambio di un impegno alquanto vago a far nascere uno Stato palestinese. E infatti dopo l’attacco di Hamas, l’Arabia Saudita, pur senza compromettersi con il conflitto, ha sospeso ogni trattativa (che sembrava essere a buon punto) in «direzione Abramo».

Non solo. A marzo, su iniziativa cinese, i rappresentanti dell’Iran sciita e dell’Arabia Saudita sunnita — due Paesi da lungo tempo tra loro ostili che per un discreto periodo avevano interrotto le relazioni diplomatiche (dal 2016) e si sono combattuti in Yemen per interposte milizie — si erano incontrati e avevano stabilito un dialogo da essi stessi definito proficuo. A tal punto proficuo che la settimana scorsa Iran e Arabia Saudita avevano annunciato una manovra navale congiunta.

Questo piccolo capolavoro cinese aveva colto di sorpresa la maggior parte degli osservatori e spostava la collocazione internazionale dell’Arabia Saudita. Allontanandola da Washington e avvicinandola, più che a Teheran, a Pechino. Tra le righe dell’asciutto ancorché esplicito commento statunitense si nasconderebbe un avvertimento all’Arabia Saudita: gli Stati Uniti considerano un atto di inimicizia ogni alleanza con l’Iran.

Non si può infine non notare che con le due parole di cui abbiamo detto all’inizio (quella di Gerusalemme sarebbe un’«autodifesa proporzionata») Kamala Harris rischia di vanificare a pochi giorni dalle elezioni il gigantesco sforzo che aveva fatto per recuperare il voto di quella parte del Paese, soprattutto giovanile, fortemente antiisraeliana e poco amante dei distinguo. Sembra evidente che di ciò fosse consapevole.

E che, se ha deciso di non lasciare l’incombenza al solo Biden, quella dichiarazione contenga più di quello che riusciamo ad immaginare.

Cittadinanza, le nuove richieste mettono in crisi uffici e tribunali (ilsole24ore.com)

Burocrazia

Domande in forte aumento. La gran parte arriva da Argentina e Brasile

La forte crescita delle richieste di riconoscimento della cittadinanza per ius sanguinis sta mettendo in difficoltà uffici comunali, consolati e tribunali, cioè i soggetti cui il cittadino straniero può rivolgersi per ottenere il passaporto italiano.

Infatti il riconoscimento della cittadinanza (un diritto stabilito fin dal 1865 per garantire ai figli degli emigrati di mantenere il legame con l’Italia) si può far valere per via amministrativa con una richiesta al Comune in cui l’avo italiano risiedeva se anche il richiedente risiede nello stesso Comune o, se risiede all’estero (ed è la grande maggioranza dei casi), rivolgendosi all’ufficio consolare territorialmente competente.

Se i tempi di attesa del canale amministrativo sono molto lunghi ci si può rivolgere al tribunale. La via giudiziale è poi l’unica percorribile se l’antenata era una donna poiché prima del 1948 la trasmissione del diritto era solo per via paterna.

All’estero consolati e ambasciate sono sotto stress, soprattutto in Brasile e in Argentina, con liste d’attesa molto lunghe: in alcune sedi si parla di oltre dieci anni per avere un appuntamento. Secondo l’indagine Anusca-Istat, nel 2023, il 68,5% dei nuovi passaporti italiani è stato attribuito a cittadini brasiliani e il 19,9% a cittadini argentini.

«È un’ondata collegata alla discendenza degli emigrati tra il 1876 e il 1925 – spiega Giancarlo Gualtieri, responsabile Istat dell’area Presenza straniera e integrazione dei cittadini con background migratorio –. Nelle Americhe furono quasi nove milioni, di cui 3,5 in Brasile e Argentina, Paesi in cui le crisi economiche e politiche stanno spingendo le persone a recuperare il passaporto italiano poiché apre le porte dell’Unione europea e permette un accesso più facile anche negli Stati Uniti. In futuro i flussi potrebbero mantenersi consistenti».

Visto l’affanno di consolati e ambasciate, molti residenti all’estero presentano la domanda in tribunale: fino a giugno 2022 l’unico foro competente era quello di Roma; la riforma della giustizia ha poi deciso di decentrare queste controversie sul territorio, affidandole alle sezioni immigrazioni dei tribunali in base al comune di nascita del genitore o dell’avo.

Una novità che ha mandato in tilt gli uffici in tutte le aree più toccate dall’emigrazione, con effetti che rischiano di pesare anche sugli obiettivi Pnrr di riduzione dei tempi della giustizia.

«Nel 2023 il 52% dei riconoscimenti per via giudiziale è stato deciso dal Tribunale di Venezia – dice Salvatore Laganà, presidente sia del Tribunale che della sezione immigrazione –. Abbiamo 1.500 nuove iscrizioni al mese, con in media dieci ricorrenti per fascicolo. Da giugno 2022 abbiamo deciso 5.800 fascicoli che equivalgono a circa 58mila nuovi cittadini. Abbiamo stilato accordi con le associazioni degli avvocati per semplificare alcune prassi, ma stiamo fissando le udienze al 2027».

Al Tribunale di Torino «avevamo ridotto i tempi delle cause, ma con le controversie per la cittadinanza iure sanguinis la situazione è di nuovo peggiorata: ora stiamo fissando le prime udienze per cittadinanza nel 2026 e per protezione internazionale nel 2027», spiega la presidente della sezione immigrazione, Roberta Dotta.

«I procedimenti per cittadinanza iure sanguinis sono gravosi perché spesso sono promossi da più ricorrenti e richiedono l’esame di documenti anche molto risalenti: a volte si fa riferimento ad ascendenti nati prima dell’Unità d’Italia».

Ora il disegno di legge di Bilancio propone di rendere più oneroso per i richiedenti il riconoscimento per via giudiziaria. Infatti, se oggi si paga un solo contributo unificato per fascicolo, anche se i richiedenti sono più di uno, il testo propone di stabilire un contributo unificato di 600 euro a carico di ciascun richiedente.

“Fascismo immenso e rosso”: la sottosegretaria Frassinetti (FdI) sui social ricorda la marcia su Roma (fanpage.it)

di Luca Pons

Nel giorno dell’anniversario della marcia su Roma, 
la sottosegretaria all’Istruzione Paola Frassinetti 
ha ricordato sui social un evento calcistico. 

Ma nei commenti molti hanno sottolineato la ricorrenza fascista, e Frassinetti ha risposto citando uno scrittore francese collaborazionista: “Fascismo immenso e rosso”.

“Fascismo immenso e rosso”, ha scritto sul proprio profilo Facebook la sottosegretaria all’Istruzione Paola Frassinetti. Si tratta di una citazione di Robert Brasillach, scrittore francese di estrema destra che collaborò durante l’occupazione nazista. Il commento di Frassinetti è arrivato ieri, 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma.

Il post della sottosegretaria riguardava un anniversario calcistico, ma quando altre persone nei commenti hanno sottolineato anche la ricorrenza fascista, Frassinetti ha risposto con queste parole. Ne è nata una polemica alla quale la stessa sottosegretaria ha risposto scusandosi, ma parlando di “tempesta in un bicchier d’acqua”.

Cosa ha scritto la sottosegretaria Frassinetti sui social

Brasillach era uno scrittore e giornalista di estrema destra che durante il regime di Vichy, in Francia, collaborò con le autorità naziste. Alla fine della guerra, venne fucilato. Tra le accuse c’era quella di aver accettato che la sua rivista riportasse gli indirizzi di persone ebree e partigiane che erano ricercate dalla Gestapo.

La citazione di Frassinati viene da un passaggio in cui Brasillach scriveva: “I bimbi che un giorno saranno ragazzi di 20 anni apprenderanno con oscura meraviglia dell’esistenza di questa esaltazione di milioni di uomini, i campeggi della gioventù, la gloria del passato, le sfilate, le cattedrali di luce, gli eroi caduti in combattimento, l’amicizia tra i giovani di tutte le nazioni rinate […] Il fascismo immenso e rosso”.

Ma sul suo settimanale scrisse anche interventi duramente antisemiti come: “Bisogna risolvere il problema ebraico, perché l’ebreo è lo straniero, è il nemico che ci ha spinti alla guerra ed è quindi giusto che paghi. Sì, noi vogliamo salvaguardare la razza francese, proteggerla dai nocivi fermenti che la ingombrano ed avviliscono, noi vogliamo che in Francia vi siano dei francesi”.

Come detto, Frassinetti ha postato ricordato un anniversario calcistici legato al Milan. Tra i commenti, però, molti hanno sottolineato anche che il 28 ottobre era l’anniversario della marcia su Roma.

Il post originale di Frassinetti
A questi commenti, la sottosegretaria all’Istruzione – storica militante di estrema destra – ha risposto in modo più che ambiguo. Prima Frassinetti ha suggerito che non poteva commemorare la marcia fascista perché i suoi social vengono osservati in quanto figura pubblica: “C’è chi di lavoro mi spia fb con la lente di ingrandimento…”.

Poi, quando qualcuno ha scritto che “il 28 ottobre è un’altra roba” e ha messo un cuore nero “senza il rosso” (in riferimento al Milan), Frassinetti ha risposto con la citazione di Brasillach.

I commenti di Frassinetti

Pd e Avs chiedono le dimissioni

Le sue parole hanno portato a una dura reazione politica. La responsabile Scuola del Pd, Irene Manzi ha affermato che “citare le parole di Brasillach, collaborazionista dei nazisti e antisemita, sul ‘fascismo immenso e rosso’ non è accettabile. Le parole sono importanti, a maggior ragione, quando si riveste un importante incarico che ha a che fare con l’educazione”.

Il senatore dem Dario Parrini ha chiesto che la sottosegretaria dia le dimissioni. Insieme a lui anche Alleanza Verdi-Sinistra, il cui capogruppo al Senato Peppe De Cristofaro ha detto che i “riferimenti nostalgici” sono “indegni di una rappresentante delle istituzioni”, in particolare perché “non è la prima volta che fa riferimenti che richiamano il fascismo, il periodo più buio della storia, senza mai prenderne le distanze”.

La replica di Frassinetti: “Solo una battuta infelice, non apologia di fascismo”
“Penso che sia un po’ una tempesta in un bicchier d’acqua”, ha detto la stessa Frassinetti a Lapresse in risposta alla polemica. “Si parlava di calcio, come sempre ci sono gli sfottò, ho citato questa frase ‘immenso e rosso’, perché uno diceva che c’è solo il nero e io dico che c’è anche il rosso. E basta. Ma sempre parlando di calcio”.

Frassinetti ha affermato di non aver festeggiato la marcia su Roma, “perché non c’è nessuna mia frase apologetica di nessun tipo”, e di non aver nemmeno “esaltato questo autore”. Poi ha insistito: “Io sono anche avvocato. Apologia vuol dire esaltare il fascismo, ma non c’è nessuna frase”.

Ad Adnkronos, la stessa Frassinetti ha detto che il riferimento era “una battuta, probabilmente infelice”. E ha dichiarato: “Le intenzioni vanno guardate bene. Chiedo scusa se ho urtato la sensibilità di qualcuno, ma non volevo. Sicuramente ammetto che l’autore è controverso, non è che lo esalto. Il mio commento era semplicemente descrittivo”.

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