L’angolo fascista
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Il naufragio di Prodi
Una scrittrice albanese e italiana critica l’ex premier che vorrebbe trasformare l’Ucraina in uno Stato cuscinetto, con un approccio che strumentalizza i popoli, riducendoli a merce di scambio tra potenze.
D’altronde fu lo stesso Prodi a definire un incidente lo speronamento della Kater i Radës del 1997
Scrivo oggi come albanese e italiana, come intellettuale e come parte lesa di una storia che non si è mai voluta riconoscere del tutto. Una storia di ferite e parole sfuggenti, di responsabilità negate e verità nascoste sotto il velo opaco della “stabilità”.
Perché proprio oggi, quando sento le parole di Romano Prodi, colui che un tempo rappresentava l’Italia in Europa, dire che l’Ucraina sarebbe stata più «utile» come Paese «cuscinetto» tra Russia e Nato, non posso fare a meno di rivivere un’eco che mi riporta al 28 marzo 1997.
Quell’anno, infatti, nel mare Adriatico, centotré miei connazionali perirono nel tentativo di fuggire dalla miseria; la motovedetta su cui viaggiavano, la Kater i Radës, venne speronata da una fregata italiana, la Sibilla, lasciando al mare e al silenzio le vite e i destini di persone che cercavano un rifugio, una speranza. La tragedia fu presto archiviata come incidente.
Prodi, lo stesso Prodi, allora presidente del Consiglio italiano, liquidò quella tragedia con parole tanto misurate quanto disumane, classificandola come una fatalità della storia, come un errore tecnico di chi, in quegli anni, stava “contenendo” la questione migratoria. Era una forma di geopolitica del sacrificio, mascherata da linguaggio neutro.
Oggi, con la stessa semplicità, dice che l’Ucraina avrebbe dovuto restare “neutrale”, una zona cuscinetto tra due blocchi, sacrificata a una stabilità teorica. Una dichiarazione che parla di equilibrio, certo, ma anche di disumanizzazione e di un’ideologia del sacrificio che dimentica le persone, che non considera le vite umane ma solo i confini, le barriere, le terre di mezzo.
Ma davvero è accettabile trattare la vita e la dignità di un popolo come una merce di scambio tra potenze? È un pensiero che fa rabbrividire. Come scriveva Milan Kundera, “la lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio.”
In queste parole risuona il dolore di chi, come me, non ha mai dimenticato ciò che accadde nel 1997, la disumanità di un governo che non volle prendersi carico delle proprie responsabilità. Essere ricordati, essere riconosciuti, è parte fondamentale della dignità di un popolo, e ignorare questa memoria è una forma di oppressione silenziosa, di violenza invisibile che non smette mai di colpire.
Il 28 marzo 1997, la Kater i Radës navigava verso le coste italiane, carica di famiglie, di giovani, di padri e madri in fuga dal collasso economico e sociale dell’Albania. Il crollo delle piramidi finanziarie aveva gettato l’intero paese in una spirale di disperazione; molti avevano perso tutto, e l’Italia rappresentava per loro un sogno di salvezza, una promessa di dignità.
Ma quella speranza si trasformò in tragedia, la tragedia del Venerdì Santo, quando la fregata italiana Sibilla, su ordine di respingere le imbarcazioni clandestine, speronò la motovedetta, lasciandola inabissarsi in pochi minuti. Chi viaggiava su quella barca trovò la morte, le loro famiglie trovarono il silenzio e l’indifferenza.
Quando Prodi parlò di incidente, di errore, come se quelle vite fossero un dettaglio tecnico, l’intera comunità albanese si sentì tradita, negata nella propria umanità. Non c’era nessun errore in quelle vite; c’era la disperazione di chi era costretto a partire, di chi cercava dignità oltre le proprie frontiere. Non si trattava di uno sbaglio, ma del prezzo imposto a un popolo che per anni era stato considerato un problema da arginare.
La tragedia della Kater i Radës non fu solo un naufragio; fu una ferita aperta nella coscienza albanese, una memoria non riconosciuta che ancora oggi ci richiama al dovere della verità. Questa verità è parte della nostra dignità, ma è anche parte della dignità dell’Italia stessa.
Quando sento Prodi dichiarare che l’Ucraina avrebbe dovuto «rimanere un Paese cuscinetto», risento lo stesso gelo, la stessa volontà di relegare una nazione al ruolo di sacrificabile. L’Ucraina, così come l’Albania del 1997, non è un pezzo di terra neutra, una fascia di contenimento. È un popolo con una storia, con una cultura, con una volontà di autodeterminazione che non può essere ridotta a uno strumento per gli interessi di altri.
La scelta di Prodi di definirla «cuscinetto» non è solo una parola infelice; è l’espressione di una visione che considera alcuni popoli utili solo nella misura in cui rimangono nella propria area d’influenza, nella propria neutralità, nella propria passività.
Ancora una volta, è il linguaggio della geopolitica del sacrificio, di una stabilità raggiunta a spese delle vite umane. Ma come possiamo, come esseri umani, accettare un tale compromesso? Come si può giustificare la pace in un luogo imponendo la sofferenza e l’instabilità in un altro? Come scrisse Jean-Paul Sartre, «l’uomo è condannato a essere libero»; un popolo è dunque condannato ad affermare la propria identità e a rivendicare il proprio diritto di scelta, anche se questo diritto non si adatta ai giochi di potere delle grandi potenze.
Scrivo oggi non solo per rivendicare la dignità della comunità albanese, ma anche per richiamare l’Italia alle sue responsabilità storiche. Perché la verità non è solo un diritto dei sopravvissuti e delle vittime; è un dovere morale di ogni società che si consideri giusta e civile.
Primo Levi ci ha insegnato che «chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo»; l’Italia, e l’Europa intera, non possono permettersi di dimenticare. E questo dovere di ricordare non è rivolto solo ai popoli, ma soprattutto ai leader che, come Prodi, dovrebbero rispondere delle proprie parole e delle proprie decisioni.
Oggi, da italiana, io chiedo che si facciano finalmente i conti con la storia. Perché ogni volta che una tragedia viene ridotta a un “incidente” o un popolo a un “cuscinetto”, la dignità umana è vilipesa, ed è la stessa storia di un paese che viene sporcata. Il dolore, l’incomprensione, il silenzio non sono solo una ferita per la comunità albanese, ma una mancanza di giustizia per il popolo italiano, che merita di riconoscere il proprio passato per costruire un futuro autentico.
Questa memoria che porto dentro come albanese è una memoria che appartiene anche all’Italia; perché è l’Italia che deve riconoscere, chiedere scusa, accogliere quel pezzo di storia che non ha voluto vedere. Pretendo che queste scuse arrivino, non per riaprire ferite, ma per risanarle, per restituire alla comunità albanese e all’Italia stessa una dignità che non può essere sacrificata in nome di alcun interesse.
La verità non è un favore, è un diritto inalienabile di ogni essere umano, perché, come scrisse George Orwell, «nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario».
Secondo il ministro Nordio, permetterà di tenere aperti i centri in Albania.
Ma varie norme sembrano indicare che i problemi del piano del governo non sono finiti
Il 24 ottobre è entrato in vigore il nuovo decreto-legge approvato dal governo per modificare la lista dei Paesi considerati “sicuri” dall’Italia e mantenere operativi i centri per migranti costruiti in Albania. Il provvedimento è stato preso dopo che il 18 ottobre il Tribunale di Roma non aveva convalidato il trattenimento dei primi 12 richiedenti asilo trasferiti in Albania, prendendo questa decisione sulla base di una recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea.
In una conferenza stampa, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha detto che i giudici italiani non hanno «ben compreso» la sentenza della Corte europea, sostenendo che questa non impedisce il trattenimento dei migranti in Albania e che il nuovo decreto-legge dovrà essere rispettato dai giudici.
Ma in concreto, che cosa prevede il nuovo provvedimento del governo? Davvero permetterà di superare le decisioni dei giudici italiani e la sentenza della Corte di giustizia dell’Ue? Oppure anche questo decreto-legge rischia di rimanere disapplicato? Punto per punto, facciamo chiarezza su una questione piuttosto articolata.
La sentenza della Corte di giustizia Ue
La sentenza della Corte di giustizia dell’Ue, su cui si è basata la decisione del Tribunale di Roma, è stata emessa il 4 ottobre. I magistrati europei erano stati chiamati in causa da un tribunale della Repubblica Ceca su un caso di un richiedente asilo moldavo proveniente dalla Transnistria, un territorio separatista e filorusso della Moldavia.
La Repubblica Ceca considera la Moldavia un Paese sicuro, fatta eccezione appunto per la Transnistria. Dopo che l’istanza d’asilo del cittadino moldavo era stata respinta, il tribunale ceco aveva chiesto alla Corte di giustizia dell’Ue se la Moldavia potesse o meno essere considerato un Paese sicuro, visto che una parte del suo territorio non è considerata sicura dalla Repubblica Ceca.
Nella sua sentenza, la Corte di giustizia dell’Ue ha affermato che, in base alla direttiva europea n. 32 del 2013, un Paese può essere qualificato come «sicuro» a condizione che, «in modo generale e uniforme», al suo interno non si ricorra mai a «persecuzione, tortura, pene, trattamenti inumani o degradanti» e «che non vi sia alcuna minaccia dovuta alla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno».
La citata direttiva europea del 2013 consente agli Stati Ue di stilare una lista di Paesi sicuri e di trattare in maniera diversa le richieste di asilo dei migranti provenienti da questi Paesi (su questo punto torneremo tra poco).
Secondo la Corte di giustizia dell’Ue, un giudice di uno Stato membro ha il dovere di verificare l’inserimento di un Paese nella lista di quelli sicuri, valutando la situazione di fatto in questi Paesi e, quindi, se siano stati rispettati i criteri di sicurezza previsti dalla direttiva.
Lo richiede l’articolo 46 della direttiva stessa, in tema di diritto a un ricorso per i richiedenti protezione internazionale: gli Stati Ue devono garantire che il tribunale davanti a cui viene impugnata la decisione sulla richiesta d’asilo svolga «un esame completo ed ex nunc sia dei fatti che del diritto». In parole semplici, un Paese non è automaticamente sicuro perché è semplicemente incluso in un’apposita lista: la sua sicurezza dev’essere oggetto di una valutazione del giudice.
La sentenza del Tribunale di Roma
Come anticipato, il 18 ottobre il Tribunale di Roma ha respinto con 12 decreti il trattenimento di altrettanti migranti portati nei centri in Albania. Questi decreti sono stati motivati dall’impossibilità di considerare come Paesi sicuri l’Egitto e il Bangladesh, gli Stati di provenienza dei migranti trattenuti, sulla base dell’interpretazione data dai giudici alla sentenza della Corte di giustizia dell’Ue. In concreto, la decisione del Tribunale di Roma ha determinato l’inapplicabilità della cosiddetta “procedura accelerata di frontiera” per i migranti provenienti dai Paesi considerati sicuri dall’Italia.
Questa procedura prevede il fermo dei migranti per tutta la durata dell’esame della loro richiesta d’asilo e, come suggerisce il nome, ha l’obiettivo di arrivare a una risposta in tempi più rapidi rispetto alla procedura standard.
Ricordiamo che la creazione di centri di detenzione amministrativa a gestione italiana in Albania è stata prevista dal Protocollo firmato tra il governo italiano e quello albanese a novembre 2023, poi ratificato dal Parlamento a febbraio di quest’anno. La legge di ratifica dell’accordo equipara i centri in Albania alle zone di frontiera italiane: di conseguenza, in questi centri si applica la procedura accelerata di esame della richiesta di asilo per i migranti provenienti da un Paese di origine sicuro.
Inizialmente, la lista dei Paesi di origine considerati sicuri dall’Italia era contenuta in un decreto del Ministero degli Esteri, scritto insieme al Ministero dell’Interno e al Ministero della Giustizia. La versione più aggiornata di questo decreto, pubblicata a maggio 2024, conteneva 22 Paesi, tra cui i citati Egitto e Bangladesh.
Buona parte di questi Paesi, però, presentano eccezioni ai criteri di “sicurezza” visti sopra: detto altrimenti, in questi Paesi i diritti non sono garantiti in alcune aree o per alcune categorie di persone. Questa mancanza di garanzie è descritta nelle schede dedicate ai singoli Paesi sicuri, ottenute dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) grazie a una richiesta di accesso civico generalizzato (più comunemente chiamata “FOIA”).
Per esempio, la scheda dedicata all’Egitto parla di «detenzioni arbitrarie» e «arresti senza mandato», «episodi di violazione» del diritto di avere un processo equo, e delle persecuzioni delle forze dell’ordine contro le persone della comunità LGBT.
Di conseguenza, vista l’assenza dei criteri di “sicurezza” in alcune aree dei Paesi inseriti nella lista dei Paesi sicuri, il Tribunale di Roma ha stabilito che la procedura accelerata di frontiera – che come detto si svolge in Albania – non è applicabile a chi proviene da questi Paesi.
Il nuovo decreto-legge
Il nuovo decreto-legge approvato dal governo, entrato in vigore il 24 ottobre, ha modificato il decreto legislativo n. 25 del 2008, inserendovi all’interno la nuova lista dei Paesi di origine sicuri. Ora, di questa lista fanno parte 19 Paesi: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia. Questo elenco dovrà essere aggiornato periodicamente con un atto avente forza di legge – quindi, non più con un decreto ministeriale – e notificato alla Commissione europea.
Il nuovo decreto-legge ha eliminato il riferimento alla possibilità di designare come sicuro un Paese di origine con l’eccezione di alcune parti del suo territorio. L’unica possibilità rimasta è quella che consente di designare come sicuro un Paese, fatta eccezione di alcune «categorie di persone».
In altre parole, un Paese può essere indicato come sicuro solo se lo è in ogni sua area, anche se non lo è per tutte le persone che vi si trovano. Il governo ha ritenuto così di adeguarsi alla pronuncia della Corte di giustizia dell’Ue del 4 ottobre. Ed è per questo motivo che ha eliminato dalla precedente lista dei Paesi sicuri tre Stati (Camerun, Colombia e Nigeria), che presentavano zone di pericolo.
In più, il nuovo decreto-legge del governo ha introdotto la possibilità di fare ricorso alla Corte d’appello sulle impugnazioni dei dinieghi di asilo nelle procedure accelerate.
La “sicurezza” dei Paesi e i rimpatri
Nella conferenza stampa tenutasi dopo l’approvazione del decreto-legge, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano hanno fornito alcune spiegazioni sul nuovo provvedimento del governo, alla luce della pronuncia della Corte di giustizia dell’Ue.
Secondo Nordio, i giudici europei si sono limitati ad affermare, sulla base del caso di specie relativo a Moldavia e Transnistria, che la “sicurezza” deve riguardare tutto il territorio del Paese, e non invece anche ogni categoria di persone, come hanno capito i giudici di Roma.
A quanto sostenuto dal ministro si può obiettare che la Corte di giustizia dell’Ue è andata in realtà oltre il caso esaminato e ha fornito una lettura complessiva della normativa europea, affermando un principio chiave: l’espressione «in modo generale e uniforme», contenuta nella direttiva in riferimento a «un Paese», e non solo a sue parti, richiede che la sicurezza sussista per ogni categoria di persone e su tutta la superficie del Paese stesso.
Secondo Nordio, poi, il Tribunale di Roma non ha compiuto alcuna valutazione specifica della situazione dei migranti, che invece sarebbe stata doverosa per superare la qualificazione di Paese sicuro, come la Corte di giustizia dell’Ue avrebbe richiesto «nei punti 87, 88, 89 e 90» della sua sentenza del 4 ottobre.
Ma quei punti riguardano i giudici che esaminano il ricorso contro il diniego della richiesta di asilo, non i giudici che decidono sulla convalida del trattenimento del migrante. Soprattutto, questi ultimi devono pronunciarsi entro quarantott’ore, e un esame accurato della situazione individuale del migrante sarebbe impossibile da fare in due giorni.
Come spiegato, in Albania si applica la procedura accelerata di frontiera, che è una procedura sommaria, fondata su automatismi, poiché si basa sul presupposto che i migranti non abbiano diritto all’asilo, in quanto provenienti da Paesi sicuri.
Dunque, i giudici che decidono sulla convalida del fermo di uno straniero devono valutare se sussista la sola ragione che giustifica il trattenimento stesso: l’effettiva sicurezza del Paese di provenienza, che costituisce la condizione per l’applicabilità della procedura accelerata. Se il Paese non è sicuro, pur se inserito nell’elenco di quelli sicuri, non si applica la procedura accelerata, ma quella ordinaria, che si può svolgere solo in Italia.
Nell’ambito di quest’ultima, il migrante è sottoposto a una valutazione effettuata in tempi idonei a consentire un esame della sua condizione personale, nonché della possibilità o meno di ricomprenderlo in una delle categorie i cui diritti vengono violati nel Paese d’origine. Se il richiedente non vi rientra, potrà essere rimpatriato.
Quindi, non è vero che in base alla sentenza dei giudici europei nessuno potrà mai più essere rimandato indietro al suo Paese di origine perché nessun Paese può dirsi davvero sicuro. La pronuncia della Corte di giustizia dell’Ue impedisce solo di sottoporre alla procedura di frontiera chi proviene da un Paese non totalmente sicuro, ferma restando l’applicabilità della procedura standard che è condotta in Italia.
Il valore delle sentenze della Corte di giustizia dell’Ue
In conferenza stampa, Nordio ha detto anche che la sentenza della Corte di giustizia dell’Ue «non è una direttiva e non è nemmeno vincolante in via generale astratta», cioè per tutti, e non solo per il giudice che ha sollevato la questione dinanzi alla Corte stessa.
Quanto affermato dal ministro non ha fondamento, tant’è che il 22 ottobre un portavoce della Corte di giustizia dell’Ue ha precisato che le sentenze della Corte «sono immediatamente vincolanti per gli Stati membri». Questa efficacia si fonda sul regolamento di procedura della Corte di giustizia dell’Ue e sulle indicazioni fornite dalle sentenze della Corte stessa (si veda per esempio qui e qui).
Con una sentenza del 1989, la Corte Costituzionale ha stabilito che la Corte di giustizia dell’Ue è l’«interprete qualificato» del diritto europeo e, di conseguenza, «ne precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e, per tal via, ne determina, in definitiva, l’ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative».
Con una sentenza del 2007, la Corte Costituzionale ha ribadito che le decisioni della Corte di giustizia dell’Ue «hanno, al pari delle norme dell’Unione direttamente applicabili cui ineriscono, operatività immediata negli ordinamenti interni». Anche la Corte di Cassazione, con varie sentenze, ha da tempo riconosciuto alle pronunce della Corte di giustizia dell’Ue «valore normativo» in via generale, affermando che queste hanno un’efficacia «vincolante, diretta e prevalente sull’ordinamento nazionale».
La disapplicazione del nuovo decreto-legge
Nordio ha dichiarato che il nuovo decreto-legge non potrà essere disapplicato dai tribunali, essendo una fonte primaria, e non più secondaria, come il precedente decreto interministeriale. «Se lo ritiene incostituzionale», il giudice «può fare ricorso» alla Corte Costituzionale, ha detto il ministro della Giustizia.
Anche questa affermazione sembra priva di fondamento: i tribunali, infatti, potranno disapplicare il nuovo decreto-legge come hanno fatto per il decreto ministeriale, in quanto contrasta con la normativa europea. Il principio della prevalenza del diritto europeo sul diritto nazionale (in questo caso italiano) vale rispetto a qualunque fonte.
Eventualmente, i giudici potranno fare ricorso alla Corte costituzionale, ma a differenza di quanto sostiene Nordio questa non è l’unica strada loro consentita. Il ricorso alla Corte Costituzionale avrebbe l’obiettivo di ottenere l’annullamento del nuovo decreto-legge, così da non proseguire all’infinito con la sua disapplicazione per contrasto con la direttiva europea, come interpretata dalla Corte di giustizia dell’Ue.
Difficilmente però la Corte Costituzionale, se fosse chiamata in causa, contraddirebbe la sentenza della Corte di giustizia dell’Ue. E se avesse dubbi sulla corretta interpretazione della direttiva, potrebbe rivolgersi alla stessa Corte di giustizia.
In alternativa al ricorso alla Corte Costituzionale, i giudici potrebbero rivolgersi direttamente alla Corte di giustizia dell’Ue per ottenere l’interpretazione della già citata direttiva del 2013, proprio come ha fatto il tribunale della Repubblica Ceca sul caso del richiedente asilo moldavo.
Questo potrà avvenire a meno che essi non reputino che la sentenza della Corte di giustizia dell’Ue dello scorso 4 ottobre sia dirimente anche in relazione al nuovo decreto-legge del governo, e quindi si limitino a disapplicarlo, in attuazione del citato principio del primato del diritto europeo su quello nazionale.
Anche il Ministero dell’Interno ha presentato ricorso contro la decisione del Tribunale di Roma che non ha convalidato il trattenimento dei migranti nei centri in Albania. Il ministero ha chiesto l’intervento della Cassazione per chiarire se, nel caso di un Paese che non presenti criticità sul suo territorio nazionale, sia legittimo negare la convalida del trattenimento per violazioni nei confronti dei diritti di alcune specifiche categorie di soggetti.
La richiesta alla Cassazione è stata effettuata in ragione degli elementi di novità e delle «questioni di massima di particolare rilevanza e delicatezza» che il caso presenta, e per scongiurare «l’ulteriore moltiplicarsi di un contenzioso seriale e una situazione di incertezza interpretativa».
Nel merito, il ministero ha lamentato la mancanza di un’adeguata motivazione da parte dei giudici di Roma, tale da giustificare la disapplicazione della designazione del Paese di provenienza dei migranti come di origine sicura.
Non essendo stato accertato dal Tribunale di Roma che gli stranieri corressero gravi motivi di pericolo personale in caso di rimpatrio, né che appartenessero in concreto a categorie di soggetti a rischio, «il decreto di trattenimento doveva essere convalidato», secondo il Ministero dell’Interno.
Visto quanto detto sopra, è improbabile – sebbene non ci sia ancora certezza a riguardo – che la Cassazione si discosti da quanto deciso dalla Corte di giustizia dell’Ue.
di Marco Mobili
DDL di Bilancio
Nel disegno di legge depositato alla Camera stop agli sconti del Fisco se il lavoratore non è Ue o dello spazio economico europeo. Diventa caro chiedere di diventare italiani
Doppia stretta della manovra sugli immigrati: stop alle detrazioni fiscali e “tassa” sui procedimenti per ottenere la cittadinanza.
Nel testo depositato alla Camera, con cui si avvia ufficialmente la sessione di bilancio destinata a chiudersi a fine anno, compaiono nel capitolo fiscale e in quello sulla giustizia due commi dedicati uno al lavoratore straniero extra Ue che trasferisce la sua residenza in Italia ma lascia a casa i figli e uno a chi richiede la cittadinanza italiana.
Stop agli sconti del Fisco
L’articolo 2 del disegno di bilancio, con cui viene ridisegnato l’impatto degli sconti fiscali del Fisco, l’ultimo codicillo lo dedica ai lavoratori stranieri. In particolare, viene disposto che dal 1° gennaio 2025 le detrazioni per familiari a carico non spettano ai contribuenti che non sono cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione o di uno Stato che aderisce all’accordo sullo spazio economico europeo per i familiari residenti all’estero.
Oltre alla stessa Italia fanno parte di questo Spazio economico europeo paesi come Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Islanda, Repubblica d’Irlanda, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Regno Unito.
La nuova “tassa” sulla cittadinanza
Scorrendo il testo del Ddl, fermandosi all’articolo 106, ci si imbatte nella seconda norma mirata sugli immigrati e. In questo capitolo la leva non è più quella fiscale ma è quella della giustizia e dei balzelli che lo stato richiede a chi instaura un contenzioso.
In particolare viene previsto che dal prossimo 1° gennaio 2025, per le controversie in materia di accertamento della cittadinanza italiana il contributo unificato è fissato in 600 euro. Somma che si va ovviamente ad aggiungere ai 250 euro e ai 16 euro di marca da bollo che che richiede la cittadinanza italiana deve versare all’atto di presentare la domanda.
Il contributo, come dispone sempre la nuova norma, sarà dovuto per ciascuna parte ricorrente, anche se la domanda è presentata congiuntamente nello stesso giudizio.
di Davide Varì
Tutti i giornali amici erano pronti a rilanciare gli scoop e noi tutti, ansiosi e con un filo di malcelata preoccupazione, eravamo convinti che il Palazzo sarebbe venuto giù come un castello di carta.
E invece…
Avevano promesso rivelazioni scottanti, addirittura sconvolgenti. Tutti i giornali amici erano pronti a rilanciare gli scoop e noi tutti, ansiosi e con un filo di malcelata preoccupazione, eravamo convinti che il Palazzo sarebbe venuto giù come un castello di carta. E invece… E invece nulla, una “fetecchia”, avrebbe detto Totò.
Insomma, dall’annunciatissima puntata di Report ci aspettavamo un nuovo scandalo Watergate e invece ci hanno propinato una minestrina tiepida e insipida. A cominciare dai 700 mila euro stanziati per la mostra del Futurismo che – attenzione, attenzione – sono cresciuti fino a 1 milione. Che poi, a conti fatti, era questo lo scandalo? Un ritocco economico e un progetto di restyling culturale, su cui si può certamente discutere ma non di certo gridare al complotto.
Ma il piatto forte della serata, ci hanno detto, doveva essere il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, che sembrava destinato a seguire le orme si Sangiuliano. Invece, il ministro ne è uscito indenne: il massimo che si è visto è stata qualche scaramuccia sul suo contributo alla stesura del programma della Lega nel 2018. E questo dovrebbe far tremare i palazzi della politica?
E poi, il Maxxi, ovviamente. Sì, perché era qui che il nodo doveva venire al pettine. Le inefficienze nella gestione del museo, il super contributo ministeriale rifiutato dall’allora direttore, la questione delle consulenze al compagno del capo di gabinetto, Francesco Spano…
Storie trite e ritrite, già lette, già digerite. E quelle chat di Fratelli d’Italia, in cui si sarebbero scambiati epiteti e commenti coloriti su Spano? Una commedia degli equivoci che ha portato alle sue dimissioni, ma che non ha certo cambiato il corso della storia. Eppure, c’era ancora spazio per un po’ di pathos noir.
Un servizio ha tirato fuori la vicenda di “La cattura di San Pietro”, il quadro di Rutilio Manetti rubato e, secondo il restauratore Lino Frongia, modificato con l’aggiunta di una candela per coprire il furto. Il quadro è poi riapparso in una mostra curata da Vittorio Sgarbi. Un colpo di scena che ha il sapore delle storie di provincia, più che delle grandi inchieste d’inizio stagione.
Il gran finale? Una retrospettiva sulla corruzione in Liguria, con Giovanni Toti, che si dimette per un’inchiesta che lo collega alla mafia siciliana, e il sindaco Marco Bucci, non indagato ma con una scia di sospetti che aleggiano su di lui e su certi interessi del PD locale. Un mix di tutto un po’, che sembrava dover riservare chissà quali sorprese, ma che ha lasciato il nulla in bocca. Ma è davvero questo il giornalismo d’inchiesta? “Arideteci Michele Santoro!”.